il petrolio in basilicata, il pozzo di monte grosso: gli articoli di oggi sul corriere della sera

IN VAL D’AGRI SI ESTRAE L’80% DELLA PRODUZIONE ITALIANA. NEI 47 POZZI 500 MILIONI DI BARILI

Quel petrolio che non porta ricchezza. La Basilicata e l’«oro nero»: aumenta l’inquinamento, ma non i benefici.

Pochi i lucani assunti nel comparto

VAL D’AGRI (Potenza) — Texas o Lucania Saudita, ormai i luoghi comuni si sprecano, per la Basilicata che galleggia sul più grande giacimento di petrolio dell’Europa continentale e sul gas. Qui, nel parco nazionale della Val d’Agri, dove non c’è la sabbia del deserto ma il verde degli orti e dei boschi, tutto è di primissima qualità: olio, vino, carne, fagioli, miele, nocciole. E anche il petrolio, che si estrae da quindici anni, è di ottima qualità. I 47 pozzi del giacimento della Val d’Agri custodiscono, dicono le stime ufficiali, circa 465 milioni di barili (finora ne sono stati estratti quasi 11 milioni), che al valore corrente di
90-100 dollari al barile formano un tesoro da quasi 50 miliardi di dollari. Ma la Basilicata, che produce l’ottanta per cento del petrolio estratto in Italia, non si fermerà a quello della Val d’Agri, estratto dall’Eni. Dal 2011 comincerà a sfruttare —con Total, Esso e Shell — i giacimenti di Tempa Rossa, poco più a nord: altri 480 milioni di barili, altri 50 miliardi di dollari. Ed è
pronta a far trivellare anche Monte Grosso, proprio a due passi da Potenza, dove c’è altro petrolio per 100 milioni di barili.
E poi farà scavare nel Mare Jonio, nelle acque di Metaponto e di Scanzano, dove dai templi greci si vedranno spuntare
piattaforme petrolifere come nel Mare del Nord. Nessuno, ancora fino a qualche anno fa, e nonostante i giacimenti della Val d’Agri, avrebbe scommesso che nel sottosuolo lucano e nei fondali jonici fosse nascosta tutta questa ricchezza. Dopo l’intuizione di Enrico Mattei, che tra gli anni 50 e 60 venne qui a cercare petrolio e trovò «soltanto» gas, l’idea che la Basilicata potesse davvero essere un enorme serbatoio di petrolio era per lo più giudicata un volo della fantasia. Invece i sondaggi e le trivelle si sono spinti fino nelle viscere della terra, a tre-quattromila metri di profondità, e hanno trovato il
mare nero che cercavano. Come non essere contenti? Sembrava l’annuncio dell’inizio di una nuova era, per la Basilicata e
per il Mezzogiorno d’Italia, per la questione meridionale e per il federalismo fiscale, per il lavoro ai giovani e per la fine dell’emigrazione. E infatti, all’inizio, tutti erano contenti. Dicevano: «Pagheremo meno la benzina, come in Valle d’Aosta, dove costa la metà senza che si produca una goccia di petrolio. E pagheremo meno anche le bollette della luce e del gas». Dicevano: «Con le royalties del petrolio avremo strade e ferrovie, che qui sono ancora quelle di un secolo fa». Dicevano: «Finalmente non saremo più costretti a emigrare, avremo il lavoro a casa nostra». Dicevano: «Si metterà in moto un meccanismo virtuoso, da cui tutti trarremo vantaggi. Il petrolio è la nostra grande occasione». Dicevano tutte queste cose, i lucani. Che oggi non dicono più. La delusione ha frantumato i sogni, lo scetticismo ha svuotato la speranza. E il petrolio, da
grande risorsa per la grande occasione, sta diventando sempre di più una maledizione. E infatti. Il lavoro manca come prima. Le opere infrastrutturali nessuno le ha ancora viste. Mancano i fondi per i prestiti agevolati agli imprenditori, anche stranieri, che volessero investire in Basilicata. Il costo della benzina non ha subìto sconti. Il risparmio sulla bolletta del gas è solo apparente. La gente, soprattutto i più giovani, continua a emigrare: negli ultimi quindici anni a Grumento Nova, 2.500 abitanti, la popolazione è diminuita di un quarto, mentre da tutta la regione — che ha poco più di 570 mila abitanti — si
continua a emigrare al ritmo di quattromila persone all’anno. E l’aria, l’acqua e persino il rinomato miele della Val d’Agri
sono sempre più a rischio perché sempre più «ricchi» di idrocarburi. Il petrolio puzza, e in tutta l’area del Centro olii di Viggiano l’odore è forte e si sente: è normale, sono gli idrocarburi policiclici aromatici e l’idrogeno solforato dovuti alla produzione e al trasporto del petrolio (che però adesso avviene attraverso un oleodotto di oltre cento chilometri che porta il greggio alle raffinerie di Taranto). Ciò che non è normale è che in Italia i limiti di emissione di idrogeno solforato siano diecimila volte superiori a quelli degli Stati Uniti e che il monitoraggio di queste sostanze in Val d’Agri avvenga solo due o tre volte l’anno. Ciò che non è normale è il valore altissimo delle «fragranze pericolose per l’uomo» (benzeni e alcoli) trovate nel miele prodotto dalle api della Val d’Agri, come sostiene una ricerca dell’università della Basilicata pubblicata dall’International Journal of Food Science and Technology. Ciò che non è normale è che all’Arpab, l’Agenzia regionale di protezione ambientale, non crede più nessuno, tanto che c’è chi ha deciso di fare da solo. Come il Comune di Corleto
Perticara, che l’anno scorso ha ceduto a Total per 99 anni, e per 1,4 milioni di euro, il diritto di superficie su un’area di 555 mila metri quadrati in cui realizzare il Centro olii, ma che si è dotato (finora unico comune fra i 30 interessati all’estrazione di petrolio) di un proprio sistema di monitoraggio ambientale.

L’accordo tra Eni e Basilicata prevede ben 11 progetti «compensativi», del valore di 180 milioni di euro, per la sostenibilità ambientale, la formazione e lo sviluppo culturale. E il vicedirettore generale dell’Eni, Claudio De Scalzi, vanta i seguenti risultati: «Royalties per 500 milioni di euro già versati, con un potenziale di 2 miliardi per i prossimi anni se si riuscirà ad arrivare a uno sviluppo completo dei campi della Vald’Agri. Centotrenta tecnici lucani assunti e altre 30 assunzioni in corso.
Trecento ditte lucane dell’indotto in rapporto con l’Eni, di queste 60 lavorano in modo continuativo con la società». Ma a guardare bene i numeri si fa presto a capire che si tratta di «piccoli numeri». A cominciare dalle royalties, il 7% (il 4% se il petrolio è estratto in mare), tra le più basse del mondo. Quando già nel 1958 Enrico Mattei considerava «un insulto» il 15% che le Sette Sorelle versavano ai Paesi produttori e parlava di «reminiscenze imperialistiche e colonialistiche della politica energetica». Tanto è vero che oggi — in Venezuela, Bolivia, Ecuador — i contratti vengono rinegoziati per portare le royalties oltre il 50%. Più «vantaggioso», almeno in apparenza, l’accordo stipulato nel 2006 dalla Regione Basilicata con Total, Esso e Shell per i giacimenti di Tempa Rossa, che, tra le altre cose, dovrebbe consentire alla Regione di dotarsi di un sistema di monitoraggio ambientale da 33 milioni di euro (a riprova che finora su questo fronte non s’è fatto nulla) e di fornire gratuitamente tutto il gas naturale estratto (con un minimo garantito di 750 milioni di metri cubi) alla Società
energetica lucana, interamente a capitale regionale. L’effetto immediato sarà una bolletta del gas meno cara, almeno di un buon 10%. Ma non per tutti lucani. Ne beneficeranno solo i pochi allacciati alla rete del metano. Già, perché il gas c’è, ma dove va se non ci sono le condotte?

Carlo Vulpio
22 settembre 2008

INTERROGATIVI SUL GIACIMENTO DI MONTE ROSSO
Il numero dei barili? Un mistero. Sulla questione indaga anche il pm Woodcock. Gli interessi di coop rosse e finanziarie straniere

POTENZA — Il «giallo dell’oro nero» non è un gioco di parole. In Basilicata è, al tempo stesso, una serie di domande scomode ancora senza risposta e un’inchiesta giudiziaria complessa, a cui sta lavorando il pm di Potenza, Henry John Woodcock. Prima domanda: quanto petrolio è stato estratto in Basilicata dal 1995 a oggi? Nessuno lo sa con precisione. Nemmeno il presidente della giunta regionale, Vito De Filippo, che infatti lo ha chiesto all’Unmig (l’Ufficio nazionale minerario per gli idrocarburi e la geotermia, presso il ministero dello Sviluppo economico) il 20 settembre 2007. Ma nella risposta dell’Unmig, fra tabelle e spiegazioni varie, non c’è il dato richiesto. Come mai? Semplice: quel dato non è mai stato verificato dall’Unmig. Nessuna omissione, perché l’Unmig «ha facoltà», non il dovere, di verificare le quantità prodotte. Ma un enorme conflitto d’interessi, quello sì. Infatti, a comunicare all’Unmig le quantità di petrolio estratto è «il responsabile unico di ogni concessione». In altri termini, il controllore è lo stesso soggetto che dovrebbe essere controllato: l’unico a misurare il petrolio estratto è proprio colui che paga le royalties. Infatti i 30 comuni lucani a cui va il 15% di quel 7% che costituisce la royalty sul valore del greggio ricevono direttamente dall’Eni l’estratto conto, in cui si dice: questa è la quantità
che abbiamo prodotto e questo è quanto spetta a voi. Punto. Ma se un comune o la Regione volessero controllare? L’unica
cosa che possono fare è rivolgersi all’Unmig, che però «ha facoltà» di controllare e in ogni caso difficilmente potrebbe farlo per il passato. Seconda domanda: quanto petrolio estratto in Lucania è finito in Turchia? E perché vendere petrolio alla Turchia proprio mentre il prezzo del greggio saliva alle stelle? Terza domanda: è vero o no che in questi anni centinaia di migliaia di tonnellate di stream gas (metano, etano, propano, butano), cioè quel gas che viene fuori assieme al petrolio, e definito «cedibile» dalla stessa Eni, è stato lasciato bruciare in torcia e quindi si è volatilizzato? Anche a queste domande, sembra che nessuno sappia rispondere. Nemmeno il governo e il Parlamento, a cui si sono rivolti con due interrogazioni i parlamentari Felice Belisario (Idv) e Cosimo Latronico (Pdl), che hanno sottolineato come in tutte queste vicende «è mancata l’adeguata trasparenza a garanzia dei cittadini».

Eppure le compagnie petrolifere, per il 2008, attraverso la cosiddetta Legge-obiettivo, hanno ottenuto come incentivo 850 milioni di euro di fondi pubblici. Ma c’è anche una quarta domanda: che cosa c’entrano le Coop rosse, le Isole Vergini, le Bermuda e l’Australia con i permessi di estrazione del petrolio in Basilicata? Secondo una ricostruzione del settimanale lucano Il Resto, suffragata da una ricca documentazione, tutto comincia nel 2005, quando la società Gas della Concordia Spa (poi Coopgas), di Concordia sul Secchia (Modena), cede per 11,2 milioni di euro alla sua controllata Intergas Più permessi di estrazione e di ricerca. Passano otto giorni e la Mediterranean Oil and Gas Company, società con sede a Perth, in Australia, acquista, per diecimila euro, cioè per un prezzo diecimila volte inferiore a quello della compravendita Gas
Concordia-Intergas, l’Intergas Più. Strano. Ma non è l’unica stranezza. Il pagamento avviene con la sottoscrizione di
azioni e obbligazioni convertibili da parte di tre società: la Mizuho International, con sede a Londra, la Shepherd Investments International, con sede nelle Isole Vergini Britanniche, e la Stark Investment, con sede nelle Bermuda.
L’obiettivo di Med Oil è il giacimento di Monte Grosso (100 milioni di barili stimati) e viene centrato il 5 novembre 2007, quando la giunta regionale delibera di concedere i permessi di ricerca. Nella stessa giornata, Med Oil e Gas Concordia Spa scambiano diecimila azioni. Ma già tre settimane prima, il 19 ottobre, erano state scambiate ben 2.373.000 azioni, per un valore di 369 milioni di sterline, pari a 500 milioni di euro. Segno che a Monte Grosso c’era ben poco da «ricercare». Ma solo da scavare. Là sotto, il petrolio stava aspettando chi sapeva che c’era.

C. Vul. 22 settembre 2008

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