la colonizzazione – parte prima

Una ben strana regione la Basilicata, se solo a più di dieci anni dall’accordo ENI-regione si annuncia finalmente l’avvio della fase di monitoraggio ambientale (del cui reale avvio dubitiamo comunque fortemente visti i precedenti), si strombazza di un piano energetico regionale, atteso da qualche anno, che pone attenzione alle fonti rinnovabili e poi si autorizzano nuovi pozzi di petrolio a due passi da un ospedale, quello di Villa d’Agri.

C’è qualcosa che non va in questa schizofrenia, fatta di annunci ufficiali, annunci consiliari, annunci sui giornali e dai telegiornali, e purtroppo fatta di ben poche cose concludenti ai fini della risoluzione di una vertenza ormai sentita da tutti i lucani.

Noi denunciamo da sempre quello che accade in questa regione con il nome di colonizzazione, facendo riferimento con questo termine a quella comune attività di penetrazione totalizzante, eppure a suo modo quasi invisibile a coloro che proprio si rifiutano di vederla, nelle pieghe più interne delle strutture democratiche, degli apparati produttivi, degli assetti burocratici, della stessa informazione da parte delle multinazionali e dei loro interessi, e la definiamo “comune” poiché in tutto e per tutto similare alle analoghe attività che colossi economici dai multiformi addentellati strategici e politici pongono in essere in molti paesi del mondo che hanno la s-fortuna di possedere quegli ingenti quantitativi di risorse naturali che scatenano appetiti economici tali da non essere mai conciliabili con alcuna altra considerazione che non sia solo e soltanto il soddisfacimento proprio di quegli appetiti.

Detto in altri termini, possedere delle risorse naturali e non possedere però una efficiente struttura democratica di controllo nell’utilizzo delle stesse equivale ad una maledizione sin facile a predirsi, una maledizione che diviene sempre una malattia silente, ma inesorabile, che si allunga con metastasi incontrollabili in ogni organismo della vita pubblica.

Ecco ciò che è accaduto ed accade in questa regione. Se si parla di petrolio, e più in generale di risorse naturali, tra le quali anche il nostro stesso territorio, è bene convincersi che quegli appetiti irrefrenabili, siano essi stati ammantati di scuse quali un certo discutibile “interesse nazionale” nel caso del petrolio della val d’agri e – si può scommetterci sopra che ogni goccia di petrolio o alito di gas sarà una valida scusa per porlo ancora come una foglia di fico sulla destinazione della regione a damigiana petrolifera – siano essi stai edulcorati da quelle ottimistiche visioni che tentano ancora di coniugare, in un tempo ed un modo che non esiste nella grammatica democratica, quelle “virtuose sinergie tra pubblico e privato” usate a piacimento da certe visioni del mondo come olografia di uno sviluppo di cui si è perso persino il senso delle sue finalità, siano essi più o meno stati decantati come “opportunità” che qualche colosso economico sembra volerci “regalare” senza nulla o quasi pretendere in cambio e così da praticare subito e senza riserve, in barba ad ogni ipotesi di lucidità nella programmazione degli interventi pubblici, erano e sono appetiti difficili da soddisfare senza pagarne un prezzo molto duro per il territorio e per i suoi abitanti.

Come pensare infatti che quegli stessi appetiti delle multinazionali che tanto spesso hanno devastato interi continenti con guerre intestine foraggiate per dividere popoli, con la corruzione incoraggiata e resa sistema, con ricatti sui debiti pubblici e sui finanziamenti degli organismi internazionali – tutte cose che ognuno di noi può facilmente constatare guardando una cartina geo-politica del globo alla voce conseguenze del post-colonialismo e della globalizzazione – qui, nella nostra regione Basilicata, fatti salvi gli estremi di civiltà residuale che pure ci debbono riconoscere se non altro perché questa stessa regione appartiene all’Italia, che appartiene all’Europa, avrebbero accettato di comportarsi diversamente e compartecipare con la popolazione quel lauto pasto prospettagli da una regione ricca di risorse, poco densamente popolata, bisognosa di aspettative di crescita economica dopo secoli di arretratezza e tanto rigidamente controllata da un consolidato sistema ultradecennale di consenso politico e di controllo delle opinioni?

Condizioni queste ultime perfette per avviare quell’attività multiforme che se in altre parti del mondo definiamo di “colonizzazione” non possiamo non definire anche qui con gli stessi odiosi termini che alla fine afferiscono sempre allo stesso odioso concetto di sfruttamento.

Parliamoci chiaro, le multinazionali sono colossi economici che riassumono in sé e nelle loro attività interessi talmente diversificati da non potersi più comprendere quale sia il limite tra impresa privata e strategie geo-politiche nazionali o sovra-nazionali è cosa nota, ma che dovrebbe risultare ancor più facile comprendere con un esempio che dalla storia riporteremo fino a noi.

Raccontiamo della Compagnie delle Indie, la prima vera multinazionale, a capitale inglese, fidata compagna di viaggio e di conquista dell’Impero Britannico, tanto fidata e partecipata dagli interessi stessi della Corona e del Regno da non potersi mai con nettezza tracciare il limite tra i suoi interessi privati e quelli nazionali.

La Compagnia delle Indie arrivava sempre per prima con i suoi emissari in un paese, emissari che sotto le spoglie di innocui uffici commerciali, avviavano vere e proprie attività di intelligence a valutare consistenza delle risorse naturali, posizioni geo-strategiche dei luoghi, geografia del potere reale ed aspettative di tenuta dello stesso, facendone accurati rapporti ai superiori che a loro volta, valutata con attenzione la quantità di interesse economico in gioco, passavano alla fase del convincimento delle strutture decisionali del Regno con argomentazioni che vertevano essenzialmente su quanto avrebbero fruttato all’interesse nazionale quelle risorse o quella posizione strategica attraverso interventi mirati che consistevano quasi sempre nella logica delle cannoniere e degli eserciti come argomento di trattativa con i paesi interessati.

Se proseguiamo con l’esempio e passiamo al caso concreto dell’India nel XXVIII secolo è facile rendersi conto che gli inglesi non hanno mai avuto bisogno di sconfiggere militarmente tutti i vari regnanti locali, bastando esemplarmente sconfiggerne uno o due a monito per tutti gli altri e facendo chiaramente capire che una certa “indulgenza” verso le attività della Compagnia delle Indie sarebbe stata indulgenza verso le attività dell’Impero stesso rispetto allo sfruttamento di risorse naturali ed umane, risorse che, tutte controllate dal regnante locale, quindi senza alcuna democrazia nel controllo delle stesse, avrebbe consentito a costui di regnare ancora con tutto l’appoggio eventuale di Sua Maestà a garanzia della propria posizione e di ricavare la sua parte nell’affare in forma di percentuali – royalties diremmo oggi – da spendere come egli meglio credeva, o piuttosto come egli credeva di poter credere, poiché la Compagnia delle Indie offriva tutto ciò che serviva, dalle tecnologie ai lustrini, in realtà facendo rientrare dalla finestra ciò che sembrava dover uscire dalla porta per ripagare quel popolo di quanto gli veniva sottratto.

Ed appare allora chiaro come ad un certo punto fosse altrettanto importante per la Compagnia delle Indie avere non solo il controllo “politico” di un paese, controllo da foraggiare comunque e sempre per mantenere inalterato il potere di convincimento di alcuni “illuminati consiglieri” sul sovrano, nella logica di impedire ogni possibile colpo di testa di costui o di qualche “partito avverso” agli inglesi, ma detenere un controllo ferreo delle opinioni e delle azioni di qualche burocrate “chiave” nella gestione dell’affare. E mi sembra che l’esempio renda bene l’idea.

Che la Basilicata possedesse risorse ingenti di idrocarburi nel proprio sottosuolo era notorio da tempo, almeno dagli anni trenta del secolo scorso, anche se fu solo dagli anni ’60 che cominciò un primo sfruttamento dei giacimenti, ma i costi di trivellazione erano sicuramente maggiori del costo di acquisto delle risorse stesse preso chi controllava i mercati internazionali.

La necessità di procurare energia di rapido utilizzo per la ricostruzione prima e per la crescita economica degli anni ’60 poi, fu alla base dell’intuizione di Enrico Mattei, da un lato perseguire una politica di indipendenza energetica dell’Italia dalle grandi compagnie anglo-americane, politica da attuarsi attraverso una aggressiva ed a volte spregiudicata attività diretta dell’ENI nei paesi produttori, offrendo migliori condizioni economiche – il sistema del 50-50 – e politiche – l’appoggio indiretto ai movimenti nazionalisti di de-colonizzazione – identificandosi la compagnia, allora ente pubblico con una gran parte della politica estera italiana, dall’altro ricercando tenacemente nel sottosuolo nazionale ogni goccia di petrolio che si potesse estrarre a condizioni economiche vantaggiose.

Il gas della Val Basento aveva il gran pregio di convenire economicamente al paese, dal momento che le risorse erano tutte nazionali, e fu così sfruttato fino alla fine, vista anche la mancanza dei grandi gas-dotti che solo oggi riforniscono il paese, mentre il petrolio lucano fu tenuto in riserva, fino a quando le mutate condizioni di prezzo del greggio non avrebbero consentito l’economicità dell’estrazione.

Nel frattempo si era mappata con ricerche e prospezioni quasi l’intera regione. Siamo agli anni novanta e si decise di iniziare dalla Val d’Agri, per la consistenza del giacimento, la medio-buona qualità del greggio ed anche per via della conformazione geologica della valle che favoriva la penetrazione delle trivelle nel sottosuolo attraverso l’ingente micro-fagliatura del sottosuolo causata dai costanti movimenti tettonici che avevano causato molti grandi terremoti (l’ultimo disastroso nella zona nel 1857), ma non potendosi più per vari motivi inviare cannoniere ed eserciti si decise di proseguire in altro modo.

Nel ’96 il governo Prodi fa approvare un decreto legge, il 625/96 che ancora regge la materia, che invece di limitarsi alla sola liberalizzazione del mercato delle ricerche ed estrazioni, come suggerito da un direttiva comunitaria, fa di più e fissa criteri di maggior facilità alle estrazioni, abbassando le royalties percepite dallo stato dal 9 al 7% e creando una serie di presupposti operativi protetti dalla legge che mentre sembravano dare alle regioni importanti margini di valutazioni, in realtà preparavano il terreno all’attività delle compagnie, stabilendo nello Stato ed in alcuni suoi organi, il Ministero dello Sviluppo Economico e gli uffici dell’U.N.M.I.G, i detentori delle autorizzazioni e delle procedure di attribuzione delle titolarità su istanze e permessi.

Pensare  che alle multinazionali era suggerito come e su quali organi agire con le varie attività lobbystiche che tutti presupponiamo essere nelle loro potenzialità, è anche dire poco. Diciamo allora che furono le stesse multinazionali, ENI in testa, nel frattempo privatizzata con una quota golden share del 30% nelle mani dello stato, a fare la legge, e dal momento che il petrolio che si poteva estrarre nel paese era in Basilicata, dire che quella legge fu pensata proprio per la Basilicata ed il futuro sfruttamento dei suoi giacimenti è altrettanto dire poco, ma diciamo che fu scritta apposta per la Basilicata ed il carattere della decretazione ne porta il segno in termini di procedure.

Un parlamento troppo variegato ed impreparato dopo tangentopoli per porre attenzione su simile difficile materia, non fece assolutamente resistenza.Si arriva così all’accordo di programma del ’98 tra ENI e regione Basilicata, grande sponsor dell’accordo lo stato ed il resto lo dovremmo conoscere tutti.Ma torniamo all’esempio della Compagnia delle Indie, cioè l’ENI. Già presente con le sue attività di ricerca, estrazione, trattamento e stoccaggio in Val Basento, la compagnia era andata avanti tranquillamente nelle stesse attività nella sicurezza di un controllo centrale da parte dello stato sulle risorse del sottosuolo, ma nel ’70 appaiono le regioni a statuto ordinario, come il dettato costituzionale prevedeva già dal ’48, e tutto comincia a complicarsi con competenze che dallo stato centrale cominciano ad essere delegate in molte materie alle stesse regioni, affacciandosi altresì nell’opinione pubblica italiana la grande necessità di un decentramento delle politiche nazionali che fosse veicolato da processi democratici più vicini ai territori.

Una grande complicazione per l’ENI e per i suoi progetti futuri, la nascita della regione Basilicata, ma visto il prezzo ancora ragionevole del petrolio che quindi poteva ancora attendere dove era stato per milioni di anni, visti i tempi che necessariamente la cultura del governo locale avrebbe richiesto passando anche e soprattutto attraverso la formazione di classi politiche e burocratiche preparate all’amministrazione diretta del territorio, il problema non si poneva ancora in termini assoluti, ma negli anni ’90 cambiano molti termini della questione, visto l’aumento continuo del prezzo del petrolio che ormai rende conveniente ed improcrastinabile l’estrazione del greggio in Basilicata.

La cultura del governo locale non si è ancora nel frattempo liberata dal fardello della politica paternalistico-patriarcale colombiana, continuando anzi a prosperare nella continuità di un sistema di poteri ramificato capillarmente nei territori attraverso un sistema variegato di “referenti” locali. Ecco il punto! Se la Compagnia delle Indie è l’ENI stessa, capofila del progetto, diventata privata seppur ancora formalmente controllata dal pubblico, il sovrano locale non è certo più un individuo, ma un sistema di potere collaudato da decenni e passato indenne attraverso la bufera di tangentopoli, anzi rafforzato dalla prima sperimentazione del modello del centro-sinistra poi confluito prima nell’Ulivo, poi nel Partito Democratico, i “consiglieri” sono quei politici più legati al sistema delle segreterie nazionali di partito, il foraggiamento sono le royalties da spalmare a piacimento sul territorio secondo clientele strettamente afferenti al sistema di potere, i “lustrini” di ritorno sono la prima grande visibilità nazionale per politici mai usciti dalla regione, visibilità garantita dalla stessa ENI, ed i burocrati sono quei grigi personaggi che cominciano ad acquisire un certo potere poiché garanti della continuità burocratica tra leggi nazionali, leggi regionali, soprattutto in materia ambientale, ed attività di ricerca ed estrazione.

Detto in altri termini, ai burocrati si richiede la sola correttezza formale delle autorizzazioni e delle procedure di legge, l’osservanza di un sistema di vincoli obbligatori, dove possibile da aggirare sia in sede nazionale, sia in sede locale – l’esempio dell’annosa perimetrazione cangiante del parco nazionale della Val d’Agri ne è un esempio concreto – mentre il consenso viene gestito direttamente dal sistema politico.

E dove non ci sono ancora le competenze tecniche in una materia complessa quale quella delle estrazioni di idrocarburi in un regime di vincoli ambientali, dove non c’è esperienza diretta tra il personale amministrativo e tecnico della regione Basilicata, si affacciano concorsi gestiti dalla stessa politica regionale a favorire chi quelle competenze le ha acquisite in qualche modo.

Il cerchio è ora completo!Lo stato fa da garante all’accordo, applicando la formula dell’interesse nazionale e concedendo il suo 55% del 7% di royalties alla regione Basilicata (rispetto al precedente 30%, mentre il restante 15% va direttamente ai comuni interessati alle estrazioni), non cedendo certo alle pressioni che alcuni politici locali millantano di aver esercitato per estorcere migliori condizioni all’ENI, ma cedendo solo rispetto all’affare che si prospetta e cede solo una piccola parte di quanto sa di potergli ritornare, aumentato esponenzialmente, in termini di accise sui prodotti petroliferi e di ritorni diretti di plus-valenze azionarie possedendo il 30% di ENI stessa.

Ecco la prima elemosina, cioè quel 7% che lo stato concede per intero alla regione Basilicata, o meglio al suo sistema di controllo politico, che essendo legato alla stessa maggioranza di governo ed ai suoi sponsor lobbysti, Confindustia in testa, non potrà che non ritornarlo agli stessi sponsor lobbysti ed ai loro consociati attraverso i meccanismi e gli oggetti di spesa delle azioni di “risarcimento ambientale” (se pensiamo che del POR Val d’Agri ben 150 milioni di euro sono stati spesi in sostegno al sistema imprenditoriale, in buona parte gestito da Confindustria, i termini sono più chiari)Ovvio che la politica deve trovare un punto di equilibrio tra le esigenze dettate dal sistema imprenditoriale e le necessità di foraggiare il sistema di consenso ed è quindi proprio tra quei burocrati che individua i garanti per una gestione che formalmente deve apparire legittima, pur se gli obiettivi sono evidentemente dei “falsi” d’autore” di cui non interessa a nessuno andare a controllare altro che l’annuncio stesso.

Ma anche se le cifre fin qui gestite dalla regione Basilicata possono sembrare ingenti (circa 400 milioni di euro fino ad adesso), sii tratta sempre di un piccolo cabotaggio da parte della politica locale, in raffronto alla grande navigazione dell’affare petrolio lucano nel suo complesso, affare che invece dispiega una necessità di garanzie diversificate che si gioca sia a livello locale che a livello nazionale….(continua)      

miko somma            

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