perchè esiste comunità lucana?

08/09/2012

comunita-lucana-jpeg_thumbnail51.jpg

 

so di dire una cosa antipatica, forse anche scontata e banale da molti punti di vista, ma resta un fatto, la melma lucana, il tutt’apposto, le bande di potere, il disastro economico ed ora anche sociale, la scarsa resistenza alle multinazionali, persino quel desiderio di fuggir via dalla responsabilità di essere una regione d’italia (che fa adolescenzialità del cittadino di fronte alla realtà), sono tutte colpe dei lucani e del loro voto “affidato” in questi decenni all’amico o all’amico dell’amico, di quella mentalità che “intanto penso ai casi miei” o “se non lo faccio io, lo fa un’altro”, del santo in paradiso o della scappatoia facile…

anche per questo esiste COMUNITA’ LUCANA, per mettere i nostri corregionali di fronte alla possibilità di scegliere se essere finalmente cittadini o ancora sudditi

miko somma

piscine nere

Lavoro nero: sospesa attività per 4 piscine del potentino.
In 9 attività su 14 sono state riscontrate irregolarità.
Gli ispettori del lavoro hanno “visitato” 14 piscine del potentino, riscontrando irregolarità più o meno gravi in 9 casi. Su 36 lavoratori ben 13 sono stati trovati sprovvisti di “tutela previdenziale”, per questo 4 gestori hanno subito la sospensione dell’attività. La quota di lavoro nero ha infatti superato la soglia del 20%

Pubblicato in Blog

07/09/2012

la costruzione di un perfetto sistema agricolo regionale che miri prima ai consumi interni, poi all’esportazione fuori dal territorio regionale a cura di strutture orientate dal pubblico è condizione primaria per uscire fuori da queste sabbie mobili economiche…ovviamente occorrerà una bella operazione di “risistemazione” delle cose, a partire dalla gestione degli aiuti comunitari sui quali fino ad ora sono state compiute vere e proprie “schifezze”!!!

miko somma

07/09/2012

conferenza stampa sul petrolio di ieri…la sensazione di una melma appiccicosa che sale fino alle narici, di una palude in cui un litro di acqua meno torbida non rende le acque d’un tratto salubri, di una stanza dalle imposte serrate in cui respirare diventa difficile, è sempre più presente…urge un cambio netto di classe dirigente, ben oltre i partiti che in questa regione sono lavacri in cui stemperare cordate di potere, familismi e clan, o la regione va in vacca!!!…nel mio piccolo qualcosa tento di fare, ma non basta, mi serve aiuto dalla gente che vuole sinceramente uscire da questo purgatorio!!!

miko somma

Petrolio, conferenza stampa di De Filippo e Mazzocco06/09/2012 11:31

AGR   Il presidente della Regione Vito De Filippo e l’assessore all’Ambiente Vilma Mazzocco terranno oggi pomeriggio (ore 17 – Sala Verrastro del Palazzo della Giunta) una conferenza stampa in relazione alla vicenda del petrolio in Basilicata.

————————————————————————————————————–

bene ci sarò!!!

Pubblicato in Blog

Altra piccola riflessione.

Una questione di Cinismo? Beh, il sottoscritto, in maniera cinica, se ne strafotte delle velleità elettoralistiche del governatore De Filippo, e pensa che questo “piccolo passo” della moratoria sulle estrazioni petrolifere, anche se “viziata” da secondi fini, c’è stato! E adesso la palla passi a tutti coloro che hanno la voglia, anzi, la volontà di non lasciare questo passo “simbolico” come lettera morta. E, soprattutto… se si volesse pensare ad una marcia dei 100.000, stile Scanzano-Scorie, io la terrei in serbo per un’azione ben più importante: l’eventualità di un Marchionne che, fottendosene liberamente e allegramente degli scarsi “numeri” lucani, in balìa della crisi mondiale, decidesse di “raccogliere i ferri” e abbandonare lo stabilimento di San Nicola di Melfi. Ma… siamo “Lucani” al punto tale da pensarle, queste cose? O i soliti ragionamenti di “ritaglio del proprio orticello”, manie di protagonismo dei capetti soliti e quant’altro, continueranno a farla da padroni, in questa nostra terra?

o6/09/2012

mi viene il dubbio che ogni volta che qualcuno esprima il concetto che i lucani sono dei pecoroni, non stia in realtà parlando anche un po’ di se stesso, delle sue debolezze, dei suoi limiti, della sua pigrizia e forse di una certa indolenza storica che porta al fatalismo..teatralmente quasi un pirandelliano gioco del doppio che aiuta a parlare di un io privato inconfessabile nella stigmatizzazione degli altri come metafora che libera dalle proprie mancanze…in realtà i lucani sono ciò che sono per tradizione indotta e mancanza di esempi altri e per niente peggiori di altri

miko somma

Comunicato stampa di Comunità Lucana

questa nota stampa non è stato inviata al sito istituzionale di basilicatanet, visto quanto già da noi espresso circa l’opera di confusione che puntualmente viene messa in atto o per imperizia (e ci può stare visti i criteri) o per cosciente manipolazione bulgara (cosa molto più probabile) delle affermazioni dei comunicati, il cui senso non andrebbe distorto, ma semmai solo adeguato alle esigenze di spazio concessogli in ciò che dovrebbe essere una sorta di rassegna dei comunicati inviati

tale attività riprenderà solo a seguito delle scuse ufficiali del sito basilicatanet

 comunita-lucana-jpeg_thumbnail50.jpg

Per una provincia la Lucania perse la cappa.

 

Ferve da qualche settimana, nelle pieghe di una calda estate, una forma confusa di dibattito regionale sulla cancellazione della provincia di Matera, evento choc per l’intera comunità regionale, impossibile a pensarsi prima del governo tecnico (basti ricordare superfetazioni di province bi-tri-cefale e province regionali che qualche governo fa aumentarono a dismisura la platea degli enti intermedi di governo del territorio), ma un evento choc che, se di certo “sconvolge” lo status quo di assetto del territorio a cui si era fatta pigra abitudine, e che, proprio a partire dalla scomparsa per decreto “di necessità” di alcune province, dovrebbe far emergere un ragionamento serio sul nuovo assetto dei territori “mutilati”.

 

Premesso che la cancellazione delle province sulla base di un mero calcolo per abitanti ed estensione non convince affatto, sia nella formulazione giurisprudenziale della norma stessa che forse avrebbe necessitato di forma costituzionale, abolendo essa per decreto enti previsti dalla Carta, sia nel criterio stesso che, tagliando in maniera oseremmo definire “verticale”, senza tener conto quindi di criteri di esistenza storica che pure avevano fatto considerare al legislatore una certa carta delle province d’Italia, questa cancellazione, oltre ad inconsistenti risparmi di bilancio che suonano retorica, apre una serie di domande rispetto alla democrazia elettiva sul territorio che non ci paiono risolte o risolvibili con le sterilità dialettiche di una ipotetica Provincia di Basilicata da trasferire a Matera.

 

Un ente infatti necessita di funzioni per non essere un contenitore vuoto, una mera postazione per gli esclusi dalla politica eletta, e così, fatti i debiti conti con le funzioni assegnate per delega dalle regioni alle province, alla neo-nascente Provincia di Basilicata con sede a Matera sarebbero assegnate delle funzioni completamente riassumibili e coincidenti alle stesse espletate dalla Regione e delegate per suddivisione alle province come ambiti più ristretti di esercizio delle stesse deleghe, senza tener poi di conto il fatto che simile operazione comporterebbe una modifica dei territori a cui forse occorrerebbe il suggello di un’attività referendaria prevista dall’art. 132 e legge statale istitutiva prevista all’art. 133 della Costituzione.

 

La Provincia di Basilicata diverrebbe così in queste passaggi obbligati un trastullo estivo, se non fosse che tale gioco, seppur pura dialettica, ricorda la creazione/conservazione di un “postificio di riserva” per “riparare” l’assurda situazione creatasi con la cancellazione della sola Provincia di Matera e che, se da un lato farebbe riassumere alla Regione ogni delega assegnata a quella stessa provincia (es. esercizio della gestione dei rifiuti, scuole superiori, strade provinciali, formazione professionale, etc.), dall’altro però consentirebbe alla superstite Provincia di Potenza di mantenere le proprie, con palese sperequazione tra i due territori, in rapporto alle funzioni assegnate.

 

Un pasticcio dunque il decreto che abolisce alcune province, in attesa degli ulteriori passi di definitiva cancellazione delle province italiane che intuiamo all’agenda “tecnica” di qui sino al maggio prossimo (e poi forse in inedite continuazioni di quei “tecnicismi”), un pasticcio la discussione avviata finora nella nostra regione, discussione che denota scarsa affinità con il vero tema della cancellazione degli storici enti provinciali e, nello specifico che ci riguarda, con la nostra provincia di Matera.

 

Ciò che emerge infatti con maggiore evidenza è che, ridotti gli enti di governo del territorio a Regioni e Comuni (nella variante dei piccoli comuni in scomparsa per accorpamento e di quella condivisioni dei servizi che se la logica del risparmio della macchina pubblica rende plausibili, la logica dell’architettura istituzionale inquadra come una traslazione coatta verso altri organi di quelle specifiche competenze degli enti di maggiore prossimità ai cittadini, i comuni, che risulterebbero così privati di funzioni che fanno “corpo”), il risultato è quel costante allontanamento de facto del governo dei territori da una democrazia elettiva esercitata dai cittadini, sentita forse come peso da parte di presunte o presumibili oligarchie che propongono accentramenti dei poteri nelle mani di manipoli sempre più ridotti di eletti o magari di “tecnici”.

 

In tendenza avremo così al governo dei territori piccoli comuni che scompaiono per decreto e con essi le relative unità politico-amministrative indipendenti dei rispettivi territori, comuni medio-grandi, ma incapaci di sostenersi nell’erogazione dei servizi senza interventi da parte delle regioni e dello stato, e quindi i primi non più obbligatoriamente consultabili, i secondi in qualche modo ricattabili, rispetto ad alcune scelte di utilizzo del territorio per fini non previsti da statuti e indicazioni programmatiche locali, e se a questa tendenza si aggiunge la scomparsa di quei presidi democratici più ampi che finora le province, nel bene e nel male, hanno rappresentato, nella terra del petrolio, dell’acqua e del territorio poco antropizzato che fa gola a molti è questo l’argomento che ci pare da doversi sollevare, se questa Regione cioè sia in ordine o meno di lenta cancellazione attraverso la costante erosione dei propri presidi democratici e di presenza delle funzioni statali e come opporsi a questa tendenza prima che sia troppo tardi.

 

Per quanto al nostro parere, riteniamo utile che nelle more confermative dell’attuazione del decreto, nell’interesse dell’identità della gente di Basilicata, la Provincia di Potenza sia solidale al destino della provincia di Matera e così restituisca le proprie deleghe all’ente Regione, sollecitando allo Stato, nelle more delle leggi correnti, richiesta di proprio scioglimento, se verrà confermata la scomparsa dell’unica entità che ne rende plausibile la sua esistenza, la provincia sorella.

 

Contemporaneamente si avvii da parte della Presidenza della Giunta Regionale una conferenza dei 131 sindaci di Basilicata atta a delineare quali strutture siano più utili alla definizione di un governo dei territori che, accentrato nelle mani della Regione nella sua attuale struttura diverrebbe una maggiore oligarchia del governo degli stessi e che, altrimenti, lasciato nelle mani delle Aree Programma e delle loro bizzarre funzioni, rischierebbe l’inanità rispetto a problematiche molto più ampie delle loro scarse possibilità di intervento in materie complesse e spesso coincidenti con quelle cessanti delle province.

 

Non vorremmo mai che per una assurda discussione su una provincia di Basilicata, a perder la cappa sia l’intera Lucania.

 Miko Somma, segretario regionale di Comunità Lucana.    

l’isola delle rose

sulla scorta della odierna presentazione di un libro di veltroni valter che tratta il tema di questa dimenticata storia, pubblico, tratto dalla rivista di architettura “abitare”  del settembre 2009 (che non abbiamo avuto il tempo di contattare e che speriamo non ce ne voglia di non aver avuto la possibilità di contattare), e con il permesso dell’autore, Giacinto Cerviere, mio “amico” facebook, un suo articolo molto precedente il libro del veltroni (senza polemiche od accuse di plagio che non ci interessa) che riteniamo illuminante di una storia molto curiosa di questo nostro paese…

immagine-1.jpg


L’ISOLA DELLE ROSE

A 40 anni dalla sua scomparsa, il mito della micronazione nelle acque di Rimini si è amplificato, la caccia ai suoi resti si è fatta più intensa e un nuovo documentario ne celebra la storia.

testo di Giacinto Cerviere
a cura di Maria Giulia Zunino

Quando alla fine degli anni Sessanta i nuovi temi sul futuro della città e dell’architettura scuotevano in Italia le riviste, le università, perfino le Triennali, per allinearsi e cercare di superare le sperimentazioni utopistiche provenienti dai paesi iperurbanizzati e sovrappopolati del Primo Mondo, parallelamente a ciò che emerse dalle battaglie culturali di De Carlo oramai lontano dai CIAM e dall’attivismo eterodosso dei gruppi radicali fiorentini, si verificò un importante avvenimento al largo di Rimini, nell’Adriatico, a 12 chilometri dalla costa, che suscitò molta curiosità nell’opinione pubblica nazionale e di cui molto presto si smarrì il ricordo. Un anarchico ingegnere bolognese tuttora vivente, Giorgio Rosa, un tecnologo distante da tutti i circuiti artistici d’avanguardia dell’epoca, rese concreta l’applicazione di un’idea rivoluzionaria sorprendente quanto impossibile: costruire un’architettura non assoggettata alla giurisdizione italiana, appena in acque internazionali, che prese le fattezze di una vera e propria  micronazione divenuta nota come l’Isola delle Rose.

 immagine-2.jpg Sull’isola l’ingegner Giorgio Rosa (sulla destra) brinda con alcuni collaboratori.

La sua indipendenza, seppur durata pochi giorni, simboleggiò il desiderio di una generazione di considerarsi di fatto libera di disegnare la propria idea del mondo, di sentirsi spiritualmente simile a quella singolare e acerba architettura post-territoriale sfuggita al controllo statale. L’ingegner Rosa già dal 1958 sperimentò in mare aperto un innovativo tipo di struttura galleggiante in acciaio tubolare che potesse resistere alla forza delle onde. Tramite la sua società SPIC (Società Sperimentale per Iniezioni di Cemento) iniziò le ispezioni dei fondali. Mise così a punto un brevetto che nel 1968 si materializzò con i lineamenti di una spartana piattaforma di calcestruzzo armato e acciaio di 20×20 metri, sospesa a 8 metri dal livello marino, sostenuta da 9 pali cavi di 630 millimetri conficcati per 40 metri di profondità. Fu prevista un’elevazione di 5 piani, così da aprire anche un ristorante e un albergo, oltre che lottizzare una parte del manufatto per consentire ad altri di aprire negozi, ma di impalcati ne saranno costruiti soltanto due di 400 metri quadrati ognuno.

 immagine-3.png

 L’isola artificiale (400 mq) fu realizzata 500 metri al di fuori delle acque territoriali italiane.

La perizia dell’ingegnere Giuseppe Lombi dichiarò che quella struttura avrebbe potuto sopportare fino a 50 piani. La piattaforma fu fissata in prossimità di Torre Pedrera, dove l’ingegner Rosa trovò una falda di acqua dolce, più o meno dove oggi si situano le piattaforme metanifere dell’Agip, posizione ora riportata anche su Google Maps. Certo, l’Isola delle Rose sorse per creare non soltanto un’oasi artificiale nell’Adriatico, a due passi dalla riviera romagnola – dove il suo fondatore poeticamente desiderava “veder fiorire le rose sul mare”, come fece scrivere sul motto della Repubblica esperantista de la Insulo de la Rozoj”, così da dimostrare le intenzioni pacifiche del nuovo Stato –, ma anche nuove forme di commercio libero dalle imposizioni fiscali e dalla burocrazia. Un po’ tutti erano invogliati ad attraccarvi per acquistare souvenir e bere qualcosa al bar, osservando le navi che viaggiavano anche a 50 metri di distanza da quel curioso luogo: dagli intellettuali locali ai playboy accorti; dai borghesi alla ricerca di emozioni forti ai turisti; dai consumatori di sigarette e alcolici a chi voleva rifornirsi di benzina senza versare accise all’Italia. Si racconta che perfino politici, magistrati e agenti segreti frequentassero l’Isola. Rosa tenne sempre a precisare che non cedette alle tante offerte indecenti che gli arrivarono, come quelle riguardanti l’installazione di basi spionistiche, radio-pirata o night club. Il 24 giugno del ’68, un mese dopo che a Milano la protesta degli studenti e degli artisti devastò le installazioni alla XIV Triennale dedicata al Grande numero, risvegliati dai pensieri torpidi a cui li aveva appiattiti una cultura massificatrice internazionale che non lasciava nessuno spazio all’idea di autonomia territoriale e di isolamento spaziale dell’individuo, si tenne una conferenza stampa sull’Isola e si issò la bandiera del nuovo Stato. Presto venne aperto un ufficio postale e stampati finanche i francobolli che andarono immediatamente a ruba (si narra che perfino la Regina d’Inghilterra ne collezioni un pezzo). Si adottò il sistema monetario Mills. Si scelse come lingua ufficiale l’Esperanto su consiglio del padre francescano riminese Albino Ciccanti. Giornali di mezzo mondo e gli italiani Il Messaggero e Panorama, ma anche i meno compassati rotocalchi Sorrisi e Canzoni ed Epoca, si interessarono all’insolito caso, scoprendo che l’ingegner Rosa aveva fatto tutto sul serio dilapidandosi 100 milioni di lire per quell’impresa “folle”, e, soprattutto, seguendo le leggi vigenti. Qualche interrogazione parlamentare iniziò a informare il Governo per porre fine alla cosa. I Servizi gli misero sotto controllo il telefono. Il professor Angelo Sereni, docente di diritto internazionale alla Hopkins University di Baltimora, disse a Rosa che era possibile la nascita di una struttura non soggetta a dogana in acque internazionali, quindi di fatto di un nuovo Stato, ma a patto che le merci si importassero solamente. Facendo il contrario, si sarebbe generato contrabbando. Non fu però dello stesso avviso il Governo italiano. Il 25 giugno le motovedette della Guardia di Finanza iniziarono così a interrompere il già significativo flusso di traffico, bloccando le imbarcazioni dirette sulla piattaforma. Seguì l’accerchiamento e l’assalto alla costruzione di Polizia e Carabinieri, che peraltro non usarono violenza e non contestarono agli abitanti reati, illeciti o violazioni, mentre la neonata autorità dell’Isola delle Rose mandava a Roma un ultimo appello al Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat affinché l’Italia cessasse l’invasione.immagine-4.png

Per far saltare in aria la micronazione, il 22 gennaio 1969 la Marina Militare italiana usò 120 kg di esplosivo.La Capitaneria di Porto di Rimini notificò così alla SPIC un ordine di demolizione dell’opera. La società presentò immediatamente ma senza successo un ricorso al Consiglio di Stato. Il 22 gennaio 1969 la Marina Militare piazzò 120 chili di esplosivo per far saltare in aria la repubblica indipendente. Il parallelepipedo corpo abitativo, retto benissimo dalla rigida struttura tubolare portante, si deformò ma non cedette. Pochi giorni dopo, una burrasca terminò il lavoro di abbattimento. Un anno fa l’ingegnere Rosa dichiarò al Corriere di Romagna che a boicottare la sua creatura furono la Chiesa, la Democrazia Cristiana e anche i comunisti, concludendo amaro con una considerazione scioccante: “se avessi chiesto l’aiuto della Mafia o della Massoneria, l’Isola delle Rose sarebbe ancora lì”. Certe architetture per la loro audacia hanno un destino ineluttabile: anche se l’Isola delle Rose fosse scampata negli anni Sessanta alla soppressione statale italiana, voluta di fatto dal Ministro dell’Interno Taviani, oggi non sarebbe sopravvissuta alla facile retorica demolitrice dei contemporanei movimenti ambientalisti che nel migliore dei casi l’avrebbero con leggerezza liquidata come “bruttura” ideologica. Il suo brevetto consentì all’ingegnere bolognese di ottenere qualche piccolo successo professionale, come la progettazione di un trampolino per tuffi al largo della Tunisia e un albergo in Veneto. Il mito e il ricordo di questa piccolissima nazione si è amplificato dopo quarant’anni dalla sua scomparsa. L’Isola delle Rose è entrata a pieno titolo a far parte di una cultura della micro-utopia possibile, immortalata perfino in testi teatrali e documentari cinematografici. Ha anche ispirato un episodio del fumetto di fantascienza Martin Mystère e, forse, la verde isola galleggiante di Robert Smithson.immagine-6.jpg

Nell’aprile 1998 l’editore milanese Sergio Bonelli ha dedicato allo stato indipendente dell’Isola delle Rose – in esperanto Insulo de la Rozoj – il n. 193 della serie di fumetti “Martin Mystère”, creata da Alfredo Castelli.

Giacinto Cerviere
(Italia, 1965) si occupa di tematiche relative all’architettura moderna e contemporanea con un approccio teorico-progettuale. Fondatore dello studio Vortex Architettura, ha pubblicato recentemente “L’Assalto. Città uomini e architetture attorno ai fatti dell’11 settembre”.

Pubblicato in Blog

05/09/2012

una capacità che mi attribuisco ed attribuisco a tutta COMUNITA’ LUCANA è la capacità di dialogo con tutti, senza preconcetti, senza inibizioni o pudori, senza preclusioni nella tensione continua verso il bene comune legato ad un progetto di ampio respiro che crediamo di poter testimoniare e rappresentare, a potenza come in regione (e forse domani anche nel paese)…e saper dialogare e condividere senza il concetto di nemico è la base di un nuovo concetto della politica che mi è caro, una cosa assai diversa dall’inciucio a cui indugia invece chi della politica fa tornaconto personale o partigiano

miko somma

04/09/2012

comunita-lucana-jpeg_thumbnail49.jpg

impedire che ogni risorsa finanziaria spesa sul territorio finisca fuori dal territorio significa attivare cicli virtuosi di moltiplicazione della stessa risorsa all’interno dell’economia di un territorio…

in altre parole ogni euro speso in un’opera od un servizio e che rimanga sul territorio, cioè nelle tasche di un’azienda o un cittadino lucano, genera nella sua circolazione nel territorio delle percentuali di moltiplicazione dei benefici legati allo stesso, costruendo così maggiore economia di scambio che significa anche maggiori occasioni di lavoro…

appunto economia ciclica territoriale, l’esatto contrario dell’internazionalizzazione dell’economia lucana, ancora troppo debole per reggere il confronto con gli attori di ben altre economie

miko somma

04/09/2012

il cardinale martini sapeva dialogare con le altre religioni senza ricerca di banali sincretismi ridondanti e con i non credenti senza ricerca di evangelismi senza senso che presuppongono piedistalli da cui commiserare chi non ha il “dono della fede”…credo che questo gli abbia fondamentalmente impedito di diventare papa e provare a dare una svolta alla politica vaticana..si preferì da parte americana il visceralismo mistico di giovanni paolo II in funzione anti-comunista, alla ricerca di un dialogo vero tra fede e laicità che avrebbe forse scippato qualcosa alla chiesa/organizzazione, ma dato molto al consesso umano…un grande uomo a mio parere…ed è il parere di un non credente

miko somma

Ambientalismo e politica: la sintesi che manca.

 Pubblichiamo, da Facebook, questa interessantissima nota della nostra amica, nonché esponente di rilievo di Comunità lucana, Maddalena Rotundo:

 

Perché l’ambientalismo non raggiunge in Basilicata  la  maggioranza  dei cittadini   tuttora convinti  di vivere in un luogo incontaminato e  impossibile da contaminare ? La mancata comprensione   delle  problematiche ambientali   si misura sulla qualità delle affermazioni della gente comune, dove la disinformazione  è la chiave di interpretazione di molti atteggiamenti, dall’indifferenza al semplicismo.  A chi imputare questo fallimento  e quanto peserà   questa scarsa consapevolezza dei cittadini nella scelta dei loro rappresentanti ? La questione  ambientale   è scottante  quanto sono  scottanti  gli aspetti di comunicazione ad essa collegati.  A molti giovano persino         le difficoltà    che ha la gente  di  distinguere  la retorica dai contenuti validi,  la denuncia  dall’allarmismo strumentale, e   il fatto che il complesso diviene oscuro e che il tecnicismo scoraggia la casalinga.

Gli attivisti  sono stati periodicamente   alle prese con la costruzione della Torre di Babele :   cento idiomi   per dire la stessa cosa e comunicarsi  pochi concetti basilari, che invece di essere il collante per un’azione comune  diventano  oggetti da sbrindellare,  ad opera delle  tante mani che se li contendono.  Dall’altra parte  chi ci governa ha    contribuito a confondere le idee dei cittadini  facendo  sfoggio nei suoi   convegni di un’attenzione all’ambiente  corredata di colte citazioni,  ma  nei fatti  improvvisata,  che non ha  avuto la  percezione corretta  dei problemi, né  ha saputo  prefigurarsi  le conseguenze delle  decisioni nel lungo periodo.

Da   questa situazione   deficitaria    di chiarezza e  di giustizia , e non priva di  ambiguità,   scaturiscono  da qualche tempo   i   one-issue movements, cioè movimenti che si aggregano in funzione di una sola istanza per opera  di cittadini  direttamente interessati a promuoverla ,  e che aspirano ad una gestione “partecipata” della politica ambientale.  Tutto accade  tuttavia  come  se la difesa dell’ambiente sia un fatto che riguarda porzioni di territorio,  gruppi limitati di cittadini e  singole tematiche,   e non la politica dell’intera regione e il bene generale.   In primo luogo “democrazia partecipata” è una definizione ridondante. La democrazia è per definizione  un luogo partecipato. Nella denominazione “democrazia partecipata” c’è l’allusione a  carenze  del processo partecipativo / rappresentativo  tali  da dover ricorrere a  correzioni  con  supplementi   di tempi e   di spazi. In  Basilicata ultimamente    l’aspirazione a questa partecipazione diviene man mano più forte  quanto  più vistose appaiono a posteriori  le anomalie dei processi decisionali. Ma è  tardi, si inaugura una fase che doveva essersi già conclusa. Inoltre  da che mondo è mondo   una politica sbagliata è solo una politica da cambiare, non una  a  cui voler “partecipare”.   Secondo punto: questa  chiamata democratica avviene  nei confronti  di soggetti che si autodefiniscono e si auto-investono del potere di interlocuzione con la politica. Se questa consuetudine  perdurasse per troppo tempo   essa   porrebbe  dei problemi alla democrazia stessa,  in quanto-  se pur auspicabile –   non è affatto prescrittivo che i decision makers,  nel pieno dei loro poteri  debbano tener presente le istanze di una minoranza di cittadini non eletti. Nello stesso momento in cui ne tengano conto, esse non  sarebbero espressione   di tutti gli  abitanti della regione. Siamo sul  piano dei principi , il ché  non è meno sostanziale. QQqq uesto basti a insinuare il  sospetto che per le questioni ambientali   la “democrazia partecipata” sia la via ideale quanto   una mulattiera parallela all’autostrada.    La strada più sicura   è l’elezione di persone che mettano già la difesa del territorio nel novero delle priorità della loro azione politica.  Invece di farsi coinvolgere  nei processi come  attori non istituzionali    sarebbe più  efficace e anche più democratico  immettere nelle istituzioni  gli individui con  una nuova coscienza ambientale. Le elezioni  regionali  sono  dietro l’angolo. La fase  che si è conclusa è quella dell’ambientalismo   trasversale ai partiti che non fa   politica per non sporcarsi le dita, ma  che  poi  aspira a rapporti privilegiati con la politica   e a condizionare le decisioni  nei  corridoi dei palazzi.  La   contrapposizione  che non dialoga  e  il dialogo che non si contrappone lasciano la politica lì dov’è, determinano una  separazione abbastanza fittizia  dei  ruoli  che  non ha   motivo di esistere e   prelude al professionismo,  mentre è ora che si pervenga  ad  una sintesi di ambientalismo e politica.

Le ragioni di questa urgenza   sono svariate  :   la lentezza con la quale i partiti al governo   recepiscono l’urgenza delle questioni ambientali e accettano di ribaltare nei loro programmi i rapporti ambiente /economia  mette in pericolo il nostro territorio; spesso il rapporto di organicità  delle associazioni rispetto ai poteri a vario titolo    sottrae la forza della coerenza alle rivendicazioni,  che si stemperano in un’azione autoreferenziale; le tematiche ambientali hanno l’attitudine  a farsi strumentalizzare in funzione antigovernativa e demagogica  o a diventare paraventi dei  malcontenti particolaristici  contro le amministrazioni comunali;  alcuni  soggetti sembrerebbero  tendere più che altro a  ritagliarsi un ruolo a buon mercato, che non passa attraverso la prova della consultazione  popolare.   Tutto ciò suggerirebbe che le tematiche ambientali non vengano cedute in  esclusiva  alle  associazioni come unico luogo  di determinazione di contenuti,   ma che sia una nuova  politica a farsene carico senza retorica.   È anche un discorso di realismo:  a fronte di  forti interessi economici legittimamente imposti, o a  bisogni sociali  spesso in contrasto con le issues ecologiche,   l’attivismo trasversale delle pressioni civiche  tipo NO Tav, per quanto non passi certo inosservato,  può  soccombere e perdere qualsiasi  causa per quanto giusta  ( oltre a non essere     una   strada    realisticamente percorribile per produrre pressioni    nella nostra regione   se permane questa  scarsa motivazione degli abitanti :   il cane che si morde la coda.)  Bisogna invece , con la stessa determinazione,  adottare  direttamente la politica delle azioni ambientali localmente,  chiarire  ai cittadini i problemi conquistando il pulpito dei comizi, occupare  le  sedi democratiche estromettendo dalla stanza dei bottoni coloro che hanno un’idea arretrata di policy.  L’ azione    portata avanti   da gruppi di cittadini invece  è una modalità provvisoria.  Dalle   manifestazioni di protesta   difficilmente  si riesce    a  inoltrare alla politica  soluzioni coerenti   di tipo collettivo e  interrelate in modo organico  con le programmazioni delle attività produttive.  Inoltre  i gruppi che nascono tendono ad assumere atteggiamenti  di tipo campanilistico. Si veda il rancore  degli abitanti del Vulture   nei confronti dei potentini,  rei di non fare la raccolta differenziata e  di  determinare    la permanenza   dell’inceneritore.  Una guerra tra abitanti  che fa il gioco di chi   ha tutto l’interesse a   nascondere  precise responsabilità morali, e nella fattispecie  a perseverare  in  quella   filosofia    dell’incenerimento affermatasi  per un decennio e che è tuttora  alla base della programmazione regionale sulla gestione dei rifiuti.   La  superficialità del dibattito sull’ambiente,   dove l’opinione pubblica compie una stilizzazione scorretta delle problematiche e dove  le associazioni ambientaliste  falliscono   la missione della  comunicazione  dei temi,    rende  un  favore  alla vecchia  politica,   le fornisce   il tempo supplementare  di diventare esperta nel respingimento delle accuse e nell’adeguamento delle proprie strategie demagogiche alla bisogna. In questa  chiave   si leggano  le programmazioni  di    green economy con il quale i politici  della  oil economy  tenteranno  di stare sull’attualità in vista delle  prossime campagne elettorali.    È veramente il momento di mettere in campo delle  idee e    delle   persone che siano in grado  di concepirle. Il  vuoto  di idee è il nostro vero  problema,   che    la “democrazia partecipata”  si illude di poter riempire. La partecipazione in queste condizioni di scarsa coscienza e spesso  malafede  dell’interlocutore politico  può solo gratificare  qualcuno per il fatto di sentirsi chiamato a partecipare a  processi decisionali ,  che però hanno    scarse o nulle influenze  sul cambiamento.

 

Maddalena Rotundo

Pubblicato in Blog