Pubblichiamo, da Facebook, questa interessantissima nota della nostra amica, nonché esponente di rilievo di Comunità lucana, Maddalena Rotundo:
Perché l’ambientalismo non raggiunge in Basilicata la maggioranza dei cittadini tuttora convinti di vivere in un luogo incontaminato e impossibile da contaminare ? La mancata comprensione delle problematiche ambientali si misura sulla qualità delle affermazioni della gente comune, dove la disinformazione è la chiave di interpretazione di molti atteggiamenti, dall’indifferenza al semplicismo. A chi imputare questo fallimento e quanto peserà questa scarsa consapevolezza dei cittadini nella scelta dei loro rappresentanti ? La questione ambientale è scottante quanto sono scottanti gli aspetti di comunicazione ad essa collegati. A molti giovano persino le difficoltà che ha la gente di distinguere la retorica dai contenuti validi, la denuncia dall’allarmismo strumentale, e il fatto che il complesso diviene oscuro e che il tecnicismo scoraggia la casalinga.
Gli attivisti sono stati periodicamente alle prese con la costruzione della Torre di Babele : cento idiomi per dire la stessa cosa e comunicarsi pochi concetti basilari, che invece di essere il collante per un’azione comune diventano oggetti da sbrindellare, ad opera delle tante mani che se li contendono. Dall’altra parte chi ci governa ha contribuito a confondere le idee dei cittadini facendo sfoggio nei suoi convegni di un’attenzione all’ambiente corredata di colte citazioni, ma nei fatti improvvisata, che non ha avuto la percezione corretta dei problemi, né ha saputo prefigurarsi le conseguenze delle decisioni nel lungo periodo.
Da questa situazione deficitaria di chiarezza e di giustizia , e non priva di ambiguità, scaturiscono da qualche tempo i one-issue movements, cioè movimenti che si aggregano in funzione di una sola istanza per opera di cittadini direttamente interessati a promuoverla , e che aspirano ad una gestione “partecipata” della politica ambientale. Tutto accade tuttavia come se la difesa dell’ambiente sia un fatto che riguarda porzioni di territorio, gruppi limitati di cittadini e singole tematiche, e non la politica dell’intera regione e il bene generale. In primo luogo “democrazia partecipata” è una definizione ridondante. La democrazia è per definizione un luogo partecipato. Nella denominazione “democrazia partecipata” c’è l’allusione a carenze del processo partecipativo / rappresentativo tali da dover ricorrere a correzioni con supplementi di tempi e di spazi. In Basilicata ultimamente l’aspirazione a questa partecipazione diviene man mano più forte quanto più vistose appaiono a posteriori le anomalie dei processi decisionali. Ma è tardi, si inaugura una fase che doveva essersi già conclusa. Inoltre da che mondo è mondo una politica sbagliata è solo una politica da cambiare, non una a cui voler “partecipare”. Secondo punto: questa chiamata democratica avviene nei confronti di soggetti che si autodefiniscono e si auto-investono del potere di interlocuzione con la politica. Se questa consuetudine perdurasse per troppo tempo essa porrebbe dei problemi alla democrazia stessa, in quanto- se pur auspicabile – non è affatto prescrittivo che i decision makers, nel pieno dei loro poteri debbano tener presente le istanze di una minoranza di cittadini non eletti. Nello stesso momento in cui ne tengano conto, esse non sarebbero espressione di tutti gli abitanti della regione. Siamo sul piano dei principi , il ché non è meno sostanziale. QQqq uesto basti a insinuare il sospetto che per le questioni ambientali la “democrazia partecipata” sia la via ideale quanto una mulattiera parallela all’autostrada. La strada più sicura è l’elezione di persone che mettano già la difesa del territorio nel novero delle priorità della loro azione politica. Invece di farsi coinvolgere nei processi come attori non istituzionali sarebbe più efficace e anche più democratico immettere nelle istituzioni gli individui con una nuova coscienza ambientale. Le elezioni regionali sono dietro l’angolo. La fase che si è conclusa è quella dell’ambientalismo trasversale ai partiti che non fa politica per non sporcarsi le dita, ma che poi aspira a rapporti privilegiati con la politica e a condizionare le decisioni nei corridoi dei palazzi. La contrapposizione che non dialoga e il dialogo che non si contrappone lasciano la politica lì dov’è, determinano una separazione abbastanza fittizia dei ruoli che non ha motivo di esistere e prelude al professionismo, mentre è ora che si pervenga ad una sintesi di ambientalismo e politica.
Le ragioni di questa urgenza sono svariate : la lentezza con la quale i partiti al governo recepiscono l’urgenza delle questioni ambientali e accettano di ribaltare nei loro programmi i rapporti ambiente /economia mette in pericolo il nostro territorio; spesso il rapporto di organicità delle associazioni rispetto ai poteri a vario titolo sottrae la forza della coerenza alle rivendicazioni, che si stemperano in un’azione autoreferenziale; le tematiche ambientali hanno l’attitudine a farsi strumentalizzare in funzione antigovernativa e demagogica o a diventare paraventi dei malcontenti particolaristici contro le amministrazioni comunali; alcuni soggetti sembrerebbero tendere più che altro a ritagliarsi un ruolo a buon mercato, che non passa attraverso la prova della consultazione popolare. Tutto ciò suggerirebbe che le tematiche ambientali non vengano cedute in esclusiva alle associazioni come unico luogo di determinazione di contenuti, ma che sia una nuova politica a farsene carico senza retorica. È anche un discorso di realismo: a fronte di forti interessi economici legittimamente imposti, o a bisogni sociali spesso in contrasto con le issues ecologiche, l’attivismo trasversale delle pressioni civiche tipo NO Tav, per quanto non passi certo inosservato, può soccombere e perdere qualsiasi causa per quanto giusta ( oltre a non essere una strada realisticamente percorribile per produrre pressioni nella nostra regione se permane questa scarsa motivazione degli abitanti : il cane che si morde la coda.) Bisogna invece , con la stessa determinazione, adottare direttamente la politica delle azioni ambientali localmente, chiarire ai cittadini i problemi conquistando il pulpito dei comizi, occupare le sedi democratiche estromettendo dalla stanza dei bottoni coloro che hanno un’idea arretrata di policy. L’ azione portata avanti da gruppi di cittadini invece è una modalità provvisoria. Dalle manifestazioni di protesta difficilmente si riesce a inoltrare alla politica soluzioni coerenti di tipo collettivo e interrelate in modo organico con le programmazioni delle attività produttive. Inoltre i gruppi che nascono tendono ad assumere atteggiamenti di tipo campanilistico. Si veda il rancore degli abitanti del Vulture nei confronti dei potentini, rei di non fare la raccolta differenziata e di determinare la permanenza dell’inceneritore. Una guerra tra abitanti che fa il gioco di chi ha tutto l’interesse a nascondere precise responsabilità morali, e nella fattispecie a perseverare in quella filosofia dell’incenerimento affermatasi per un decennio e che è tuttora alla base della programmazione regionale sulla gestione dei rifiuti. La superficialità del dibattito sull’ambiente, dove l’opinione pubblica compie una stilizzazione scorretta delle problematiche e dove le associazioni ambientaliste falliscono la missione della comunicazione dei temi, rende un favore alla vecchia politica, le fornisce il tempo supplementare di diventare esperta nel respingimento delle accuse e nell’adeguamento delle proprie strategie demagogiche alla bisogna. In questa chiave si leggano le programmazioni di green economy con il quale i politici della oil economy tenteranno di stare sull’attualità in vista delle prossime campagne elettorali. È veramente il momento di mettere in campo delle idee e delle persone che siano in grado di concepirle. Il vuoto di idee è il nostro vero problema, che la “democrazia partecipata” si illude di poter riempire. La partecipazione in queste condizioni di scarsa coscienza e spesso malafede dell’interlocutore politico può solo gratificare qualcuno per il fatto di sentirsi chiamato a partecipare a processi decisionali , che però hanno scarse o nulle influenze sul cambiamento.
Maddalena Rotundo