o6/09/2012

mi viene il dubbio che ogni volta che qualcuno esprima il concetto che i lucani sono dei pecoroni, non stia in realtà parlando anche un po’ di se stesso, delle sue debolezze, dei suoi limiti, della sua pigrizia e forse di una certa indolenza storica che porta al fatalismo..teatralmente quasi un pirandelliano gioco del doppio che aiuta a parlare di un io privato inconfessabile nella stigmatizzazione degli altri come metafora che libera dalle proprie mancanze…in realtà i lucani sono ciò che sono per tradizione indotta e mancanza di esempi altri e per niente peggiori di altri

miko somma

Comunicato stampa di Comunità Lucana

questa nota stampa non è stato inviata al sito istituzionale di basilicatanet, visto quanto già da noi espresso circa l’opera di confusione che puntualmente viene messa in atto o per imperizia (e ci può stare visti i criteri) o per cosciente manipolazione bulgara (cosa molto più probabile) delle affermazioni dei comunicati, il cui senso non andrebbe distorto, ma semmai solo adeguato alle esigenze di spazio concessogli in ciò che dovrebbe essere una sorta di rassegna dei comunicati inviati

tale attività riprenderà solo a seguito delle scuse ufficiali del sito basilicatanet

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Per una provincia la Lucania perse la cappa.

 

Ferve da qualche settimana, nelle pieghe di una calda estate, una forma confusa di dibattito regionale sulla cancellazione della provincia di Matera, evento choc per l’intera comunità regionale, impossibile a pensarsi prima del governo tecnico (basti ricordare superfetazioni di province bi-tri-cefale e province regionali che qualche governo fa aumentarono a dismisura la platea degli enti intermedi di governo del territorio), ma un evento choc che, se di certo “sconvolge” lo status quo di assetto del territorio a cui si era fatta pigra abitudine, e che, proprio a partire dalla scomparsa per decreto “di necessità” di alcune province, dovrebbe far emergere un ragionamento serio sul nuovo assetto dei territori “mutilati”.

 

Premesso che la cancellazione delle province sulla base di un mero calcolo per abitanti ed estensione non convince affatto, sia nella formulazione giurisprudenziale della norma stessa che forse avrebbe necessitato di forma costituzionale, abolendo essa per decreto enti previsti dalla Carta, sia nel criterio stesso che, tagliando in maniera oseremmo definire “verticale”, senza tener conto quindi di criteri di esistenza storica che pure avevano fatto considerare al legislatore una certa carta delle province d’Italia, questa cancellazione, oltre ad inconsistenti risparmi di bilancio che suonano retorica, apre una serie di domande rispetto alla democrazia elettiva sul territorio che non ci paiono risolte o risolvibili con le sterilità dialettiche di una ipotetica Provincia di Basilicata da trasferire a Matera.

 

Un ente infatti necessita di funzioni per non essere un contenitore vuoto, una mera postazione per gli esclusi dalla politica eletta, e così, fatti i debiti conti con le funzioni assegnate per delega dalle regioni alle province, alla neo-nascente Provincia di Basilicata con sede a Matera sarebbero assegnate delle funzioni completamente riassumibili e coincidenti alle stesse espletate dalla Regione e delegate per suddivisione alle province come ambiti più ristretti di esercizio delle stesse deleghe, senza tener poi di conto il fatto che simile operazione comporterebbe una modifica dei territori a cui forse occorrerebbe il suggello di un’attività referendaria prevista dall’art. 132 e legge statale istitutiva prevista all’art. 133 della Costituzione.

 

La Provincia di Basilicata diverrebbe così in queste passaggi obbligati un trastullo estivo, se non fosse che tale gioco, seppur pura dialettica, ricorda la creazione/conservazione di un “postificio di riserva” per “riparare” l’assurda situazione creatasi con la cancellazione della sola Provincia di Matera e che, se da un lato farebbe riassumere alla Regione ogni delega assegnata a quella stessa provincia (es. esercizio della gestione dei rifiuti, scuole superiori, strade provinciali, formazione professionale, etc.), dall’altro però consentirebbe alla superstite Provincia di Potenza di mantenere le proprie, con palese sperequazione tra i due territori, in rapporto alle funzioni assegnate.

 

Un pasticcio dunque il decreto che abolisce alcune province, in attesa degli ulteriori passi di definitiva cancellazione delle province italiane che intuiamo all’agenda “tecnica” di qui sino al maggio prossimo (e poi forse in inedite continuazioni di quei “tecnicismi”), un pasticcio la discussione avviata finora nella nostra regione, discussione che denota scarsa affinità con il vero tema della cancellazione degli storici enti provinciali e, nello specifico che ci riguarda, con la nostra provincia di Matera.

 

Ciò che emerge infatti con maggiore evidenza è che, ridotti gli enti di governo del territorio a Regioni e Comuni (nella variante dei piccoli comuni in scomparsa per accorpamento e di quella condivisioni dei servizi che se la logica del risparmio della macchina pubblica rende plausibili, la logica dell’architettura istituzionale inquadra come una traslazione coatta verso altri organi di quelle specifiche competenze degli enti di maggiore prossimità ai cittadini, i comuni, che risulterebbero così privati di funzioni che fanno “corpo”), il risultato è quel costante allontanamento de facto del governo dei territori da una democrazia elettiva esercitata dai cittadini, sentita forse come peso da parte di presunte o presumibili oligarchie che propongono accentramenti dei poteri nelle mani di manipoli sempre più ridotti di eletti o magari di “tecnici”.

 

In tendenza avremo così al governo dei territori piccoli comuni che scompaiono per decreto e con essi le relative unità politico-amministrative indipendenti dei rispettivi territori, comuni medio-grandi, ma incapaci di sostenersi nell’erogazione dei servizi senza interventi da parte delle regioni e dello stato, e quindi i primi non più obbligatoriamente consultabili, i secondi in qualche modo ricattabili, rispetto ad alcune scelte di utilizzo del territorio per fini non previsti da statuti e indicazioni programmatiche locali, e se a questa tendenza si aggiunge la scomparsa di quei presidi democratici più ampi che finora le province, nel bene e nel male, hanno rappresentato, nella terra del petrolio, dell’acqua e del territorio poco antropizzato che fa gola a molti è questo l’argomento che ci pare da doversi sollevare, se questa Regione cioè sia in ordine o meno di lenta cancellazione attraverso la costante erosione dei propri presidi democratici e di presenza delle funzioni statali e come opporsi a questa tendenza prima che sia troppo tardi.

 

Per quanto al nostro parere, riteniamo utile che nelle more confermative dell’attuazione del decreto, nell’interesse dell’identità della gente di Basilicata, la Provincia di Potenza sia solidale al destino della provincia di Matera e così restituisca le proprie deleghe all’ente Regione, sollecitando allo Stato, nelle more delle leggi correnti, richiesta di proprio scioglimento, se verrà confermata la scomparsa dell’unica entità che ne rende plausibile la sua esistenza, la provincia sorella.

 

Contemporaneamente si avvii da parte della Presidenza della Giunta Regionale una conferenza dei 131 sindaci di Basilicata atta a delineare quali strutture siano più utili alla definizione di un governo dei territori che, accentrato nelle mani della Regione nella sua attuale struttura diverrebbe una maggiore oligarchia del governo degli stessi e che, altrimenti, lasciato nelle mani delle Aree Programma e delle loro bizzarre funzioni, rischierebbe l’inanità rispetto a problematiche molto più ampie delle loro scarse possibilità di intervento in materie complesse e spesso coincidenti con quelle cessanti delle province.

 

Non vorremmo mai che per una assurda discussione su una provincia di Basilicata, a perder la cappa sia l’intera Lucania.

 Miko Somma, segretario regionale di Comunità Lucana.    

l’isola delle rose

sulla scorta della odierna presentazione di un libro di veltroni valter che tratta il tema di questa dimenticata storia, pubblico, tratto dalla rivista di architettura “abitare”  del settembre 2009 (che non abbiamo avuto il tempo di contattare e che speriamo non ce ne voglia di non aver avuto la possibilità di contattare), e con il permesso dell’autore, Giacinto Cerviere, mio “amico” facebook, un suo articolo molto precedente il libro del veltroni (senza polemiche od accuse di plagio che non ci interessa) che riteniamo illuminante di una storia molto curiosa di questo nostro paese…

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L’ISOLA DELLE ROSE

A 40 anni dalla sua scomparsa, il mito della micronazione nelle acque di Rimini si è amplificato, la caccia ai suoi resti si è fatta più intensa e un nuovo documentario ne celebra la storia.

testo di Giacinto Cerviere
a cura di Maria Giulia Zunino

Quando alla fine degli anni Sessanta i nuovi temi sul futuro della città e dell’architettura scuotevano in Italia le riviste, le università, perfino le Triennali, per allinearsi e cercare di superare le sperimentazioni utopistiche provenienti dai paesi iperurbanizzati e sovrappopolati del Primo Mondo, parallelamente a ciò che emerse dalle battaglie culturali di De Carlo oramai lontano dai CIAM e dall’attivismo eterodosso dei gruppi radicali fiorentini, si verificò un importante avvenimento al largo di Rimini, nell’Adriatico, a 12 chilometri dalla costa, che suscitò molta curiosità nell’opinione pubblica nazionale e di cui molto presto si smarrì il ricordo. Un anarchico ingegnere bolognese tuttora vivente, Giorgio Rosa, un tecnologo distante da tutti i circuiti artistici d’avanguardia dell’epoca, rese concreta l’applicazione di un’idea rivoluzionaria sorprendente quanto impossibile: costruire un’architettura non assoggettata alla giurisdizione italiana, appena in acque internazionali, che prese le fattezze di una vera e propria  micronazione divenuta nota come l’Isola delle Rose.

 immagine-2.jpg Sull’isola l’ingegner Giorgio Rosa (sulla destra) brinda con alcuni collaboratori.

La sua indipendenza, seppur durata pochi giorni, simboleggiò il desiderio di una generazione di considerarsi di fatto libera di disegnare la propria idea del mondo, di sentirsi spiritualmente simile a quella singolare e acerba architettura post-territoriale sfuggita al controllo statale. L’ingegner Rosa già dal 1958 sperimentò in mare aperto un innovativo tipo di struttura galleggiante in acciaio tubolare che potesse resistere alla forza delle onde. Tramite la sua società SPIC (Società Sperimentale per Iniezioni di Cemento) iniziò le ispezioni dei fondali. Mise così a punto un brevetto che nel 1968 si materializzò con i lineamenti di una spartana piattaforma di calcestruzzo armato e acciaio di 20×20 metri, sospesa a 8 metri dal livello marino, sostenuta da 9 pali cavi di 630 millimetri conficcati per 40 metri di profondità. Fu prevista un’elevazione di 5 piani, così da aprire anche un ristorante e un albergo, oltre che lottizzare una parte del manufatto per consentire ad altri di aprire negozi, ma di impalcati ne saranno costruiti soltanto due di 400 metri quadrati ognuno.

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 L’isola artificiale (400 mq) fu realizzata 500 metri al di fuori delle acque territoriali italiane.

La perizia dell’ingegnere Giuseppe Lombi dichiarò che quella struttura avrebbe potuto sopportare fino a 50 piani. La piattaforma fu fissata in prossimità di Torre Pedrera, dove l’ingegner Rosa trovò una falda di acqua dolce, più o meno dove oggi si situano le piattaforme metanifere dell’Agip, posizione ora riportata anche su Google Maps. Certo, l’Isola delle Rose sorse per creare non soltanto un’oasi artificiale nell’Adriatico, a due passi dalla riviera romagnola – dove il suo fondatore poeticamente desiderava “veder fiorire le rose sul mare”, come fece scrivere sul motto della Repubblica esperantista de la Insulo de la Rozoj”, così da dimostrare le intenzioni pacifiche del nuovo Stato –, ma anche nuove forme di commercio libero dalle imposizioni fiscali e dalla burocrazia. Un po’ tutti erano invogliati ad attraccarvi per acquistare souvenir e bere qualcosa al bar, osservando le navi che viaggiavano anche a 50 metri di distanza da quel curioso luogo: dagli intellettuali locali ai playboy accorti; dai borghesi alla ricerca di emozioni forti ai turisti; dai consumatori di sigarette e alcolici a chi voleva rifornirsi di benzina senza versare accise all’Italia. Si racconta che perfino politici, magistrati e agenti segreti frequentassero l’Isola. Rosa tenne sempre a precisare che non cedette alle tante offerte indecenti che gli arrivarono, come quelle riguardanti l’installazione di basi spionistiche, radio-pirata o night club. Il 24 giugno del ’68, un mese dopo che a Milano la protesta degli studenti e degli artisti devastò le installazioni alla XIV Triennale dedicata al Grande numero, risvegliati dai pensieri torpidi a cui li aveva appiattiti una cultura massificatrice internazionale che non lasciava nessuno spazio all’idea di autonomia territoriale e di isolamento spaziale dell’individuo, si tenne una conferenza stampa sull’Isola e si issò la bandiera del nuovo Stato. Presto venne aperto un ufficio postale e stampati finanche i francobolli che andarono immediatamente a ruba (si narra che perfino la Regina d’Inghilterra ne collezioni un pezzo). Si adottò il sistema monetario Mills. Si scelse come lingua ufficiale l’Esperanto su consiglio del padre francescano riminese Albino Ciccanti. Giornali di mezzo mondo e gli italiani Il Messaggero e Panorama, ma anche i meno compassati rotocalchi Sorrisi e Canzoni ed Epoca, si interessarono all’insolito caso, scoprendo che l’ingegner Rosa aveva fatto tutto sul serio dilapidandosi 100 milioni di lire per quell’impresa “folle”, e, soprattutto, seguendo le leggi vigenti. Qualche interrogazione parlamentare iniziò a informare il Governo per porre fine alla cosa. I Servizi gli misero sotto controllo il telefono. Il professor Angelo Sereni, docente di diritto internazionale alla Hopkins University di Baltimora, disse a Rosa che era possibile la nascita di una struttura non soggetta a dogana in acque internazionali, quindi di fatto di un nuovo Stato, ma a patto che le merci si importassero solamente. Facendo il contrario, si sarebbe generato contrabbando. Non fu però dello stesso avviso il Governo italiano. Il 25 giugno le motovedette della Guardia di Finanza iniziarono così a interrompere il già significativo flusso di traffico, bloccando le imbarcazioni dirette sulla piattaforma. Seguì l’accerchiamento e l’assalto alla costruzione di Polizia e Carabinieri, che peraltro non usarono violenza e non contestarono agli abitanti reati, illeciti o violazioni, mentre la neonata autorità dell’Isola delle Rose mandava a Roma un ultimo appello al Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat affinché l’Italia cessasse l’invasione.immagine-4.png

Per far saltare in aria la micronazione, il 22 gennaio 1969 la Marina Militare italiana usò 120 kg di esplosivo.La Capitaneria di Porto di Rimini notificò così alla SPIC un ordine di demolizione dell’opera. La società presentò immediatamente ma senza successo un ricorso al Consiglio di Stato. Il 22 gennaio 1969 la Marina Militare piazzò 120 chili di esplosivo per far saltare in aria la repubblica indipendente. Il parallelepipedo corpo abitativo, retto benissimo dalla rigida struttura tubolare portante, si deformò ma non cedette. Pochi giorni dopo, una burrasca terminò il lavoro di abbattimento. Un anno fa l’ingegnere Rosa dichiarò al Corriere di Romagna che a boicottare la sua creatura furono la Chiesa, la Democrazia Cristiana e anche i comunisti, concludendo amaro con una considerazione scioccante: “se avessi chiesto l’aiuto della Mafia o della Massoneria, l’Isola delle Rose sarebbe ancora lì”. Certe architetture per la loro audacia hanno un destino ineluttabile: anche se l’Isola delle Rose fosse scampata negli anni Sessanta alla soppressione statale italiana, voluta di fatto dal Ministro dell’Interno Taviani, oggi non sarebbe sopravvissuta alla facile retorica demolitrice dei contemporanei movimenti ambientalisti che nel migliore dei casi l’avrebbero con leggerezza liquidata come “bruttura” ideologica. Il suo brevetto consentì all’ingegnere bolognese di ottenere qualche piccolo successo professionale, come la progettazione di un trampolino per tuffi al largo della Tunisia e un albergo in Veneto. Il mito e il ricordo di questa piccolissima nazione si è amplificato dopo quarant’anni dalla sua scomparsa. L’Isola delle Rose è entrata a pieno titolo a far parte di una cultura della micro-utopia possibile, immortalata perfino in testi teatrali e documentari cinematografici. Ha anche ispirato un episodio del fumetto di fantascienza Martin Mystère e, forse, la verde isola galleggiante di Robert Smithson.immagine-6.jpg

Nell’aprile 1998 l’editore milanese Sergio Bonelli ha dedicato allo stato indipendente dell’Isola delle Rose – in esperanto Insulo de la Rozoj – il n. 193 della serie di fumetti “Martin Mystère”, creata da Alfredo Castelli.

Giacinto Cerviere
(Italia, 1965) si occupa di tematiche relative all’architettura moderna e contemporanea con un approccio teorico-progettuale. Fondatore dello studio Vortex Architettura, ha pubblicato recentemente “L’Assalto. Città uomini e architetture attorno ai fatti dell’11 settembre”.

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