il 5° incontro di storia contemporanea…

In un ciclo di sette incontri stiamo analizzando la storia contemporanea del nostro Paese in modo controverso e fuori dai canoni spesso stantii della storia ufficiale, storia da cui comunque non prescinderemo mai, per comprendere attraverso il passato ed i suoi eventi spesso dimenticati o poco conosciuti, altre volte negati, la fenomenologia del presente…

5° incontro: 1985-1994, dai decreti berlusconi a tangentopoli ed alla guerra della mafia allo stato

dalle 17.00 alle 20.00 in via portasalza 16 a potenza

 

 

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a scoppio ritardato…

26/02/2016

«Aspetterò la fine dell’iter di questa legge, dopo di che lascerò il Pd. Sono molto delusa e anche arrabbiata perché ci ritroviamo con un testo di legge nato con lo scopo di correggere un’ingiustizia, di promuovere l’uguaglianza e che invece umilia le persone omosessuali. Quindi non corregge nulla e addirittura secondo me aggiunge una discriminazione ulteriore».
(Michela Marzano)

…mi verrebbe da rispondere con brecht (prima di tutto vennero a prendere gli zingari, e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei, e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare)…

ma possibile che questi si accorgono della “particolare” caratura di renzi solo quando tocca uno specifico interesse e non invece quando gli faceva votare jobs act, riforma elettorale, riforma costituzionale, decreto sulle popolari, etc etc?…

scusate ma credo la principale malattia del pd sia il benaltrismo e che ne siano affetti tutti coloro che vi sono nati dentro…

miko somma

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un imbroglione aggressivo…

non è che sia un “dovere” credere a tutto ciò che sartori dice ed ha detto, ma stavolta fa un ritratto impietoso ed efficace di renzi e lo definisce per ciò che credo sia davvero, un “imbroglione aggressivo”, cosa che a mio parere lo eleva rispetto ai normali imbroglioni e lo rende degno della categoria dei piccoli dittatori…
 
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l’interventismo…

23/02/2016

non vorrei che a qualcuno fossero sfuggite due “perle” del governo renzi, declamate dal ministro gentiloni…

uno, concessa da un mese e dopo un anno di trattative di cui nessuno ha saputo niente, neppure il parlamento, l’uso della base di sigonella per voli di droni armati sulla libia in appoggio ad operazioni di commando usa nel paese (che quindi ci sono e sono sistematiche), due, il governo è favorevole all’ingresso della turchia nella u.e., dimentico delle gravi violazioni democratiche che si consumano verso la minoranza kurda e verso le minoranze politiche tutte…

occorre aggiungere altro?…

miko somma

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realpolitik…

la spregiudicatezza di renzi sulle unioni civili ormai dovrebbe essere nota anche ai tanti ingenui che credevano che costui potesse essere un campione dei diritti, dopo aver distrutto la madre dei diritti, la costituzione…realpolitik…
ed a proposito di realpolitik che comprime i diritti, vi racconto brevemente questa triste storia…

Öcalan, leader del PKK, giunse a Roma il 12 novembre 1998, accompagnato da Ramon Mantovani, deputato di Rifondazione Comunista, e si conseg…nò subito alla polizia italiana, sperando di ottenere in qualche giorno l’asilo politico di cui necessitava, ma le minacce turche di boicottaggi verso le aziende italiane spinse il governo D’Alema a trascurare la sua richiesta d’asilo (che spetta in Italia alla magistratura, che lo riconobbe a Öcalan troppo tardi).
Non potendo l’Italia estradarlo in Turchia, in cui era in vigore la pena di morte, dopo 65 giorni, il 16 gennaio 1999, Öcalan fu convinto a partire per Nairobi, dove avrebbe trovato rifugio nell’ambasciata greca.
Il 15 febbraio 1999 Öcalan fu catturato dagli agenti dei Servizi segreti turchi durante un trasferimento dalla sede della rappresentanza diplomatica greca all’aeroporto di Nairobi. Fatto salire a bordo di un aereo messo a disposizione da un imprenditore turco, fu portato in Turchia e recluso nel carcere di massima sicurezza di İmralı, isola del Mar di Marmara.
La pena è stata commutata in ergastolo nel 2002, allorché la Turchia su pressioni internazionali ha abolito la pena di morte, ed ancora oggi Öcalan è l’unico detenuto del carcere di İmralı.

…ciò a dire che anche prima di renzi, in quello che poi divenne il pd, si abbondava con la realpolitik…vero massimo d’alema?…

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meglio tacere…

21/02/2016

lo dico senza acrimonia alcuna, ma quelli che hanno partecipato alla nascita del pd farebbero bene a tacere sulla situazione politica attuale, ddl cirinnà in testa, perchè oggi paghiamo solo le conseguenze di quella stolta vocazione maggioritaria che ha preparato la strada a renzi ed al suo ameboide partito della nazione che ne è la naturale evoluzione…

miko somma

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“elogio di franti” di umberto eco…

pubblico per intero, nonostante la sua lunghezza forse inusuale per le pagine di un blog (ma un po’ ci siete già abituati alla lunghezza dei miei interventi), questa perla in forma di saggio di umberto eco sulla figura di franti e sul libro “cuore” e non aggiungo altro perché nel saggio c’è una visione del mondo che condividevo e condivido pienamente ancora oggi, e che, fuori da ogni retorica del ricordo e da ogni “coccodrillo” che lascio volentieri ai giornali, ci consegna, oltre ai suoi numerosi libri ed interventi che consiglio vivamente a tutti di leggere e rileggere con attenzione, la grande capacità di analisi e comprensione del reale di uno dei massimi pensatori italiani del nostro tempo…e credo che miglior ricordo non possa tributare a questo immenso scrittore…buona lettura…

Elogio di Franti

di UMBERTO ECO

“E ha daccanto una faccia tosta e trista, uno che si chiama Franti, che fu già espulso da un’altra sezione.” Così alla pagina di martedì 25 ottobre Enrico introduce ai lettori il personaggio di Franti. Di tutti gli altri è detto qualcosa di più, cosa facesse il padre, in che eccellessero a scuola, come portassero la giacca o si levassero i peluzzi dai panni: ma di Franti niente altro, egli non ha estrazione sociale, caratteristiche fisionomiche o passioni palesi. Tosto e tristo, tale il suo carattere, determinato al principio dell’azione, così che non si debba supporre che gli eventi e le catastrofi lo mutino o lo pongano in relazione dialettica con alcunché.

Franti da Franti non esce; e Franti morirà: “ma Franti dicono che non verrà più perché lo metteranno all’ergastolo”, si scrive il lunedì 6 marzo, e da quel punto, che è a metà del volume, non se ne farà più motto. Chi sia codesto Enrico è sin troppo risaputo: di mediocre intelletto (non si sa che voti prenda né se riesca promosso a fine anno), oppresso sin dalla più tenera infanzia da un padre, da una madre e da una sorella che gli scrivono nottetempo, come sicari dell’OAS, lettere pressoché minatorie sul suo diario, egli vive continuamente immerso in umbratili complessi, un po’ diviso tra l’ammirazione prona per un Garrone che non perde occasione per far della bassa retorica elettorale (“Son io!” e il maestro, babbeo: “Tu sei un’anima nobile!”; e se qualcuno dà noia al supplente, subito Garrone dalla parte del potente e dell’ordine: “guai a chi lo fa inquietare, abusate perché è buono, il primo che gli fa ancora uno scherzo lo aspetto fuori e gli rompo i denti!”, così il supplente rientra e vede tutti zitti, lui, Garrone, con gli occhi che mandavan fiamme “un leoncello furioso, pareva” – e gli dice “come avrebbe detto a un fratello” ti ringrazio Garrone, e via, Garrone è a posto per tutto l’anno, ditemi se non era figlio di mignotta) e d’altro lato una sorta di attrazione omosessuale per il Derossi, che è “il più bello di tutti”, scuote i capelli biondi, prende il primo premio, si fa baciare dal giovane calabrese e sembra insomma certi personaggi dei libri di Arbasino.

Tra questi poli è l’Enrico: di carattere impreciso, incostante nei suoi propositi etici, schiavo di ambigui culti della personalità, non poteva essere gran che diverso col padre che si ritrovava, torbido personaggio costui, incarnazione di quell’ambiguo socialismo umanitario che precedette il fascismo, e in cui l’ideologia dolciastra stava alla lotta di classe come il repubblicanesimo di Carducci alla rivoluzione francese (odi alla regina Margherita, nonne e cipressi che a bolgheri alti e stretti, ma repubblica, ciccia): questo padre che parla di rispetto per i mestieri e le professioni, esalta la nobiltà degli umili, incita il figlio ad amare i muratori, ma si demistifica in quella terribile pagina del 20 aprile (giovedì) in cui esorta il figlio a gettare le braccia al collo a Garrone quando tra quarant’anni lo ritroverà col viso nero nei panni di un macchinista, “ah non m’occorre che tu lo giuri, Enrico, sono sicuro, fossi tu anche un senatore del Regno” – e non lo sfiora neppure il sospetto di quel che potrebbe (dovrebbe) accadere, che cioè Enrico possa ritrovarsi nei panni di un macchinista ad incontrar l’amico Garrone senatore del Regno (conoscendo Garrone, arrivato alla camera alta per via Acli, va bene, ma ciononostante è il principio che conta, vero? ).

Che poi chi sia questo padre, questo Alberto Bottini dalla oscura professione (non la dice neppure quando va a visitare il vecchio maestro a Condove), viene fuori abbastanza bene pagina per pagina, e si esemplifica infine in quelle linee in cui questo squallido filisteo protofascista esplode nell’elogio dell’esercito: “Tutti questi giovani pieni di forza e di speranze possono da un giorno all’altro essere chiamati a difendere il nostro Paese, e in poche ore essere sfracellati tutti dalle palle e dalla mitraglia. Ogni volta che senti gridare in una festa: Viva l’Esercito, viva l’Italia, raffigurati, di là dai reggimenti che passano, una campagna coperta di cadaveri e allagata di sangue, e allora l’evviva dell’Esercito ti escirà più profondo dal cuore, e l’immagine dell’Italia ti apparirà più severa e più grande”.

E la domenica 11 ottobre, e il martedì 14 costui scriverà ancora una lettera guerrafondaia al figlio, parlando di Roma meravigliosa e eterna, di Patria sacra, di sangue da donare e ultimo bacio alla bandiera benedetta; e sempre senza la minima chiarezza ideologica, sì che a distanza di pochi giorni intesse con il medesimo tono l’elogio di Cavour e di Garibaldi, dimostrando di non aver capito nulla delle forze profonde che divisero il nostro Risorgimento. E ti educava così questo figlio alla violenza e alla retorica nazionale, all’interclassismo corporativista e all’umanitarismo paternalista, sì che svolgendosi la vicenda nell’ottantadue, possiamo immaginarci Enrico interventista quarantenne (e quindi a casa, da tavolino), all’inizio della guerra, e professionista fiancheggiatore delle squadre d’azione nel ventidue, lieto infine che il Paese sia andato in mano a un uomo forte garante dell’ordine e della fratellanza.

Il Derossi a quell’epoca era già morto sicuramente in guerra, volontario, caduto scagliando la sua medaglia di primo della classe in faccia al nemico, Votini era passato spia dell’Ovra e Nobis, che doveva avere possedimenti in campagna, e già da piccolo dava dello straccione ai figli di carbonai, agrario fiancheggiatore delle squadre, sicuramente era già federale. C’è da sperare che il muratorino e il Precossi si fossero almeno presi il loro olio di ricino e tramassero nell’ombra; e forse Stardi, sgobbone com’era, si era letto tutto il Capitale, senonaltro per puntiglio, e quindi qualcosa aveva capito; ma Garoffi di certo si era allineato e non faceva politica, e Coretti, con quel padre che gli passava calda calda la carezza del Re, chissà che non facesse la guardia d’onore all’Uomo della Provvidenza.

Questo il clima: ed Enrico ne era l’esponente medio, paro paro. Da un ragazzo di quella fatta non possiamo aspettarci qualche lume su Franti: anzi doveva esistere tra i due una sorta di incomprensione radicale per cui se Franti un giorno avesse raccolto un passerotto da terra e gli avesse sminuzzato briciole di pane, Enrico non lo avrebbe mai detto.

Logico che Franti, se raccoglieva passerotti, li portasse a casa per metterli in padella, perché l’unica volta che Enrico si tradisce e ci mostra la madre di Franti che si precipita in classe a implorare perdono per il figlio punito, affannata “coi capelli grigi arruffati, tutta fradicia di neve”, avvolta da uno scialle, curva e tossicchiante, ci lascia capire che Franti ha dietro di sé una condizione sociale, e una stamberga malsana, e un padre sottoccupato, che spiegano molte cose.

Ma per Enrico tutto questo non esiste, egli non può capire il pudore di questo ragazzo che di fronte all’impudicizia feudale della madre che si getta, davanti alla scolaresca, ai piedi del Direttore e di fronte all’intervento melodrammatico di quest’ultimo (“Franti, tu uccidi tua madre!”, eh via, dove siamo?), cerca un contegno nel sorriso, per non soccombere nello strame: e lo interpreta da reazionario moralista qual è: “E quell’infame sorrise”.

Ma se vogliamo giocare a questo gioco allora giochiamo. Franti non ha sostrato, non si sa come nasca e come muoia, egli è l’incarnazione del male? Ebbene sia, accettiamolo come tale e come tale vediamolo, elemento dialettico nel gran corso della vita scolastica deamicisiana, momento negativo in tutta la sua evidenza trionfante. Ma prendiamolo come tale, e non lasciamoci confondere dai piccoli particolari di contorno: che se Franti non ha sfondo sociologico non devono averlo neppure le persone di cui egli pare prendersi beffa, la mamma di Crossi che egli scimmiotta nella sua condizione di erbivendola, e il muratore caduto sul lavoro al passaggio del quale Franti sorride: se facciamo della demagogia sul muratore e sull’erbivendola, allora facciamola anche su Franti e sulle determinazioni economiche della sua perfidia.

Se no accettiamolo come un principio senza fondo e senza storia, e affrontiamolo pensando che di lui Enrico ci abbia parlato come gli storici romani dei cartaginesi: che erano popolo industre e laborioso, gran mercanti e navigatori, ma siccome non possedevano un’industria culturale non commissionavano elogi e libelli, mentre i romani, meglio organizzati quanto a uffici studi, avevano buon gioco a affidare alla storia terribili notizie sul conto dei nemici, dicendo che mettevano i bambini nel ventre di una statua infuocata; che se poi loro, i conquistatori, distruggevano Cartagine e spargevano sale sulle rovine, quello era ben fatto.

Ciò che Franti fa è vario e assai complesso: sale su un banco e provoca Crossi, e fa male, ma quando Crossi gli tira un calamaio egli fa civetta, e il calamaio va a colpire il maestro che entrava. Civetta meritoria quant’altre mai, dunque, perché questo maestro è lo stesso ributtante leccapiedi che in un diverbio tra Coraci (il calabrese) e Nobis, dà ragione a Coraci e torto a Nobis, ma a Nobis dà del voi mentre a Coraci dà del tu. Dà del tu anche a Franti, naturalmente, perché costui non ha un padre distinto con una gran barba nera.

Più avanti vediamo Franti che ride mentre passa un reggimento di fanteria; Enrico tiene a precisare che Franti “fece una risata in faccia a un soldato che zoppicava”, ma non si vede perché in una sfilata preceduta dalla banda (come Enrico ci dice), qualche colonnello autolesionista avrebbe infilato un soldato che zoppicava. Dunque verosimilmente il soldato non zoppicava, e Franti irrideva la sfilata tout court: e vedete che la cosa cambia già aspetto.

Se poi si considera che, istigati dal direttore, i ragazzi salutano militarmente la bandiera, che un ufficiale li guarda sorridendo e restituisce il saluto con la mano e un tizio che aveva all’occhiello il nastrino delle campagne di Crimea, un “ufficiale pensionato”, dice bravi ragazzi, allora ci accorgiamo che il riso di Franti non era poi così gratuitamente malvagio ma assumeva un valore correttivo: costituiva l’ultimo grido del buon senso ferito di fronte alla frenesia collettiva che stava prendendo i ragazzi che già cantavano “battendo il tempo con le righe sugli zaini e sulle cartelle ‘ e con “cento grida allegre accompagnavano gli squilli delle trombe come un canto di guerra”. E’ in circostanze del genere che Franti sorride e ride: “Uno solo poteva ridere mentre Derossi diceva dei Funerali del Re; e Franti rise”. Franti sorride di fronte a vecchie inferme, a operai feriti, a madri piangenti, a maestri canuti, Franti lancia sassi contro i vetri della scuola serale e cerca di picchiare Stardi che, poverino, gli ha fatto solo la spia. Franti, se diamo ascolto ad Enrico, ride troppo: il suo ghigno non è normale, il suo sorriso cinico è stereotipo, quasi deformante; chi ride così certo non è contento, oppure ride perché ha una missione.

Franti nel cosmo del Cuore rappresenta la Negazione, ma – strano a dirsi – la Negazione assume i modi del Riso. Franti ride perché è cattivo – pensa Enrico – ma di fatto pare cattivo perché ride. Quello che Enrico non si domanda è se la cattiveria di chi ride non sia una forma di virtù, la cui grandezza egli non può capire poiché tutto ciò che è riso e cattiveria in Franti altro non è che negazione di un mondo dominato dal cuore, o meglio ancora di un cuore pensato a immagine del mondo in cui Enrico prospera e si ingrassa.

Per questo Enrico deve rifiutare Franti: perché se Franti appare un inadattato al mondo in cui vive e lo coinvolge in un sogghigno epocale (Franti mette tra parentesi qualsiasi fatto che invece coinvolga emotivamente gli altri) l’unico modo di esorcizzare la scepsi negativa di Franti è quello di denunciare Franti come strega. E di non accettarlo a priori.

E infatti nel gran mare di languorosa melassa che pervade tutto il diario di Enrico, in quell’orgia di perdoni fraterni, di baci appiccicaticci, di abbracci interclassisti, di galeotti redenti e gaudenti in maschera che regalano smeraldi a bambine smarrite tra la folla, tra madri che si sostengono a vicenda, maestrine dalla penna rossa, signori che abbracciano carbonai e muratori che biascicano lagrime di riconoscenza sulla spalla di ricchi possidenti, là dove tutti si amano, si comprendono, si perdonano, si accarezzano, baciano le mani a voscienza, leccano il cuore a tamburini sardi, cospargono di fiori vedette lombarde e coprono d’oro patrioti padovani, una sola volta appare una parola di odio, di odio senza riserve, senza pentimenti e senza rimorsi: ed è quando Enrico ci traccia il ritratto morale di Franti: “Io detesto costui. È malvagio. Quando viene un padre nella scuola a fare una partaccia al figlio, egli ne gode; quando uno piange, egli ride. Trema davanti a Garrone e picchia il muratorino perché è piccolo; tormenta Crossi perché ha il braccio morto; schernisce Precossi che tutti rispettano; burla persino Robetti, quello della seconda, che cammina con le stampelle per aver salvato un bambino. Provoca tutti i più deboli di lui, e quando fa a pugni, s’inferocisce e tira a far male. Ci ha qualcosa che mette ribrezzo su quella fronte bassa, in quegli occhi torbidi, che tien quasi nascosti sotto la visiera del suo berrettino con una faccia invetriata, è sempre in lite con qualcheduno, si porta a scuola degli spilloni per punzecchiare i vicini, si strappa i bottoni della giacchetta e ne strappa agli altri, e li gioca, e ha cartella, quaderni, libri, tutto sgualcito, stracciato, sporco, ha la riga dentellata, la penna mangiata, le unghie rose, i vestiti pieni di frittelle e di strappi che si fa nelle risse. Dicono che sua madre è malata dagli affanni che egli le dà, e che suo padre lo cacciò di casa tre volte: sua madre viene ogni tanto a chiedere informazioni e se ne va sempre piangendo. Egli odia la scuola, odia i compagni, odia il maestro. II maestro finge ogni tanto di non vedere le sue birbonate, ed egli fa peggio. Provò a pigliarlo con le buone, ed egli se ne fece beffa. Gli disse delle parole terribili, ed egli si coprì il viso con le mani, come se piangesse, e rideva. Fu sospeso dalla scuola per tre giorni ed egli tornò più tristo e insolente di prima. Derossi gli disse un giorno: – Ma finiscila, vedi che il maestro ci soffre troppo, – ed egli lo minacciò di piantargli un chiodo nel ventre”.

È naturale che in questo crescendo di accuse e di infamie la nostra simpatia vada tutta a Franti (pensate, “si copri il viso con le mani, come se piangesse, e rideva!”. Anche De Amicis non rimane indifferente di fronte a tanta grandezza, e mai la sua scrittura è stata più tacitiana, nobilitata dalla materia): ma è vero del pari che tanto accumularsi di nefandezza è troppo wagneriano per essere normale, sfiora il titanico, deve avere un valore emblematico e riecheggiare un momento di civiltà; una figura della coscienza universale, lo voglia o no l’autore; e se la nostra dotta memoria cerca solo per un poco ecco che questo ritratto finisce per evocarne un altro, quasi parallelo: ed è il ritratto di Panurge.

“Altre volte poi disponeva, in qualche bella piazza per dove la detta ronda doveva passare, una striscia di polvere da sparo, e al momento giusto ci dava fuoco, divertendosi poi a vedere i gesti eleganti di quei poveretti che scappavano, credendo di avere ai polpacci il fuoco di Sant’Antonio. In quanto poi ai rettori dell’università e teologi, li perseguitava in altri modi; quando ne incontrava qualcuno per la via, non mancava mai di far loro qualche brutto scherzo: ora mettendogli uno stronzo nelle pieghe del berretto, o attaccandogli delle code di carta e strisce di cenci dietro la schiena, o qualche altro fastidio… E soleva portare un frustino sotto il vestito, col quale frustava senza remissione i paggi che erano in giro per qualche commissione, per farli andare più svelti. E nel mantello aveva più di ventisei taschette e ripostigli sempre pieni: l’una di un piccolo dado di piombo e di un coltellino affilato come il trincetto di un calzolaio, che gli serviva per tagliar le borse; l’altra, di aceto, che gettava negli occhi a quanti incontrava; l’altra di lappole, con attaccato piumetti d’oca o di cappone, che gettava sulle vesti e sui berretti dei pacifici cittadini; e spesso attaccava anche lor dietro due belle corna, che quelli si portavan per tutta la città, e qualche volta per tutta la vita. E ne metteva anche alle donne, sui loro cappucci, di dietro, ma fatti a forma di membro virile; e in un’altra, teneva una quantità di cornetti, tutti pieni di pulci e pidocchi, che trovava dai poveri di Sant’Innocenzo, e con delle cannucce, e piume per scrivere, li gettava sui colletti delle più azzimate giovinette che trovava per la via, e così in chiesa…” (e via di questo passo, nella bella traduzione di Bonfantini; e poi basti pensare alla beffa dei montoni per vedere in Panurge un Franti ante litteram, o in Franti un Panurge post, che è poi lo stesso).

Ora Panurge non nasce e non arriva a caso: non è gigante né Dipsodo, e non entra nella regale società pantagruelica con l’aria di chi voglia sovvertire un ordine dalle radici; la società in cui vive l’accetta e vi si integra – ci beve e ci si ciba, chiedendo anzi ristoro in molte lingue – vive la vita di corte e segue il sovrano nei suoi viaggi, accetta dispute con dottori d’oltremanica e frequenta la borghesia dei dintorni. Ma si integra à rebours, ogni suo gesto appare sfasato rispetto alla norma, accetta le convenzioni (la messa) per sovvertirle dall’interno (occasione per distribuir pidocchi), intraprende discorsi ma per turlupinare l’interlocutore, veste come gli altri ma fa delle sue vesti nascondiglio per i suoi trucchi, nessuno dei quali mira specificatamente a un utile particolare, ma tutti nell’insieme a una deformazione degli umani rapporti.

Proprio per questo, se Gargantua et Pantagruel è il libro che chiude un’epoca e ne apre una nuova, esso lo è proprio per la centralità che vi ha Panurge, poiché il Gargantua è, rispetto alla cultura tardomedievale che si sfa, proprio quel che Panurge è per la corte di Pantagruel, qualcosa che si installa dentro a un ordine e lo mina dall’interno deformandone la fisionomia con atti di gratuita iconoclastia. Compagno di Panurge in questa impresa, è il Riso. Anche Panurge, l’infame, rideva. Ecco dunque profilarsi l’idea di un Franti come motivo metafisico nella sociologia fasulla del Cuore.

Il riso di Franti è qualcosa che distrugge, ed è considerato malvagità solo perché Enrico identifica il Bene all’ordine esistente e in cui si ingrassa. Ma se il Bene è solo ciò che una società riconosce come favorevole, il Male sarà soltanto ciò che si oppone a quanto una società identifica con il Bene, ed il Riso, lo strumento con cui il novatore occulto mette in dubbio ciò che una società considera come Bene, apparirà col volto del Male, mentre in realtà il ridente – o il sogghignante – altro non è che il maieuta di una diversa società possibile. Per cui bene aveva fatto Baudelaire a identificare il Riso con il Diabolico ed a vedervi il principio del Male. Agli occhi di Colui che tutto sa, il riso non esiste, e scompare dal punto di vista della scienza e delle potenze assolute: è chiaro: dal momento che di un ordine esistente si ha certezza e corresponsabilità, dal momento che vi si assente dogmaticamente o vi si aderisce consustanzialmente, quest’ordine non può essere messo in dubbio, e il primo modo per credervi è di non riderne.

Il riso, dice Baudelaire, è proprio dei pazzi: di coloro che non si integrano all’ordine, dunque. Per colpa loro, nel caso dei pazzi; ma nel caso sia colpa dell’Ordine? Chi sarà allora il Ridente? Colui che ha avuto coscienza della caduta, e quindi della provvisorietà dell’ordine dato. Il cattivo dunque, colui che ha colpevolmente mangiato all’albero del bene e del male? Ma questa è l’interpretazione del Ridente data da chi non ride, e accetta l’Ordine. Per lo scolastico messo alla berlina da Panurge, nel dialogo con Thaumaste fatto a gesti e a sberleffi, il gioco di Panurge è un attentato diabolico. Per noi, nati da Rabelais, il gioco di Panurge è allegra profezia di una nuova dialogica, e comunque messa a punto della vecchia, resa dei conti.

Chi ride è malvagio solo per chi crede in ciò di cui si ride. Ma chi ride, per ridere, e per dare al suo riso tutta la sua forza, deve accettare e credere, sia pure tra parentesi, ciò di cui ride, e ridere dal di dentro, se così si vuol dire, se no il riso non ha valore.

Ridere del piegabaffi, oggi, è un gioco da ragazzi; ridete dell’usanza di radersi, e poi discuteremo. Chi ride deve dunque essere figlio di una situazione, accettarla in toto, quasi amarla, e quindi, da figlio infame, farle uno sberleffo. (Franti a parte, solo di fronte al riso la situazione misura la sua forza: quello che esce indenne dal riso è valido, quello che crolla doveva morire. E quindi il riso, l’ironia, la beffa, il marameo, il fare il verso, il prendere a gabbo, è alla fine un servizio reso alla cosa derisa, come per salvare quello che resiste nonostante tutto alla critica interna. Il resto poteva e doveva cadere.)

Tale è Franti. Dall’interno idilliaco della terza classe in cui alligna Enrico Bottini, egli irraggia il suo riso distruttore; e chi si aggrappa a ciò che egli distrugge, lo chiama infame. Fatto nascere dall’immaginazione di De Amicis e dalla visione astiosa di Enrico come principio dialettico, Franti viene troppo presto eliminato di scena perché si possa intravvedere quale reale funzione avrebbe egli svolto in questo quadro: se il comico è l’Ordine che, accettato ed esasperato a bella posta, esplode e si fa Altro, Franti non ha neppure abbozzato il suo compito.

Tenuto a freno dalla visione sospettosa di Enrico, non ha saputo espandersi come dialettica voleva: e solo noi possiamo ora intravvederne e svilupparne i germi liberatori e correttivi. Troncato sul nascere, il “Principio Franti” non si è risolto, come avrebbe dovuto, nella forma compiuta del Comico: e “comica” rimane solo la dialettica Franti-Enrico vista da noi, ora, e come tale messa in rilievo. Bloccato nella situazione Cuore nella misura in cui Enrico lo aveva immobilizzato – escludendo dogmaticamente che Franti potesse avere coscienza del significato dei suoi gesti – l’Infame, anziché sacerdote dell’epoché ironica, rimane soltanto un non-integrato e uno schizoide.

Ma di lui – e da lui – ci rimane un monito, acché la sua infamia sia la nostra virtù. Saremo capaci di ridere, a ciglio asciutto, di nostra madre? Eliminato dal contesto fantastico in cui viveva, Franti è accantonato dal cronista dell’Ordine e della Bontà: ed è supposto finire all’ergastolo, dove appunto si raccolgono i non-integrati. Franti è così rimasto come un abbozzo di Comico possibile: per riuscire egli avrebbe dovuto assumere – ostentando buona fede – i panni di Enrico e scrivere lui stesso il Cuore. Col sogghigno – invece che col singhiozzo – facile. Siccome non ha raccontato, ma è stato raccontato, non ha assunto la funzione di giustiziere comico, ma è rimasto come un’ombra, una tabe, una falla nel cosmo di Enrico, una presenza inspiegabile e non risolta.

Noi sappiamo però che, al di fuori del libro, gli è stata lasciata un’altra possibilità (di cui Enrico non aveva avuto mai sentore): perché l’Ordine o lo si ride dal di dentro o lo si bestemmia dal di fuori; o si finge di accettarlo per farlo esplodere, o si finge di rifiutarlo per farlo rifiorire in altre forme; o si è Rabelais o si è Cartesio; o si è, come Franti ha tentato, uno scolaro che ride in scuola, o un analfabeta di avanguardia. E forse Franti, con la memoria accesa del gesto di papà Coretti che dava al figlio, con la mano ancor calda, la carezza del Re (impeditogli da Enrico di sorridere ancora una volta, cancellato con un tratto di penna), si apprestava in una lunga ascesi a esercitare, all’alba del nuovo secolo, sotto il nome d’arte di Gaetano Bresci.

 

 

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il mondo nato per caso…

“L’umanità non sopporta il pensiero che il mondo sia nato per caso, per sbaglio, solo perché quattro atomi scriteriati si sono tamponati sull’autostrada bagnata. E allora occorre trovare un complotto cosmico, Dio, gli angeli o i diavoli.”

Umberto Eco
Il pendolo di Foucault

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l’eco di umberto…

20/02/2016

l’eco delle tue letture illuminanti non si spegnerà tanto facilmente…arrivederci e non addio, perchè chi lascia al mondo una parte di sè e della sua opera non muore finchè qualcuno la farà propria…

miko somma

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la fiducia?…

fiducia ed ancora fiducia, strumento legittimo eppure così abusato, ieri come oggi e pensate che questa tabella è ormai vecchia e così il dato di renzi andrebbe aggiornato…

ora il perché pubblico questa tabella è in diretta relazione con “voci del web” che dicono a sproposito che sul ddl cirinnà il governo avrebbe dovuto mettere la fiducia per vincere le resistenze (e comunque i numeri non li avrebbe avuti comunque)…questa cosa non è possibile per una serie di motivi che non spiego perché sono chiari e potrete desumerli dai seguenti link, l’uno per la questione di fiducia al senato (eccovi il link all’art. 161) http://www.senato.it/1044?articolo=1165&sezione=159 , l’altro per ciò che attiene alla camera (eccovi il link all’art. 116) http://nuovo.camera.it/438?shadow_regolamento_capi=1069… poi a voler essere anche più pignoli eccovi il link alla legge 400/88 che in minima parte regola la questione della fiducia http://presidenza.governo.it/normativa/legge2308_400.html

così meglio chiarire subito una cosa…così come è, ovvero un ddl (un disegno di legge, un atto squisitamente parlamentare che viene “studiato” in commissione e quindi dopo le opportune votazioni, portato in aula per il voto dell’assemblea), sulla cirinnà non è applicabile la fiducia, procedimento riservato ai soli atti del governo (che appunto in virtù di un suo intervento diretto nella materia legislativa chiede la fiducia al parlamento, ovvero da chi per la nostra costituzione detiene la funzione legislativa)…

così l’unica possibilità di applicare questo metodo odioso quando se ne abusa (e se ne è abusato tanto da parte di questo governo, come di altri) è che sulla cirinnà si applichi un maxiemendamento governativo che ne sussuma il testo, facendolo così suo, e riportandolo in aula per una votazione dove a quel punto si potrebbe porre la questione di fiducia…

cosa questa che ha un risvolto politico molto chiaro, a ben vedere la compagine governativa, e che significherebbe piegare il testo della legge al volere di alfano che in qualche modo si ergerebbe a paladino della causa del no alla cirinnà…questioni squisitamente politiche quindi sconsiglierebbero al governo questa prassi…

ed oltretutto renzi non rischierebbe mai la caduta del governo (quando c’è una bocciatura sul voto di fiducia, si torna dal presidente della repubblica e si rassegnano le dimissioni nell’evidenza di una maggioranza parlamentare che non sostiene più il governo) per una legge che nel suo pensiero è molto meno importante di se stesso e della sua sopravvivenza…

quindi rassegnarsi ad una legge senza art 5 è il messaggio silente che si manda da palazzo chigi…è più chiaro adesso?

 

 

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tutto il potere a renzi…

partendo da una osservazione sul profilo facebok di andrea colli di possibile e “rubando” la grafica relativa, eccovi una parte del giglio magico (purtroppo non tutto e purtroppo non l’unico, vista la tendenza che ha ormai preso l’intera politica italiana) con cui matteo renzi sta letteralmente “renzizzando” il paese, ovvero costruendo una filiera di potere che risponda a lui direttamente e non solo alla figura istituzionale del presidente del consiglio, ma soprattutto eccovi il pensiero del politologo calise sul fenomeno… 

calise nel suo libro “la democrazia del leader”  (laterza) ha notato in questo metodo qualcosa di più che una evoluzione della tradizionale propensione italica per le clientele e il familismo, ovvero una mutazione dell’assetto istituzionale come evoluzione del processo di accentramento del potere che con berlusconi aveva preso la forma del “partito personale”, senza tuttavia mai mutare la natura dell’esecutivo, mentre renzi, invece, sta rapidamente trasformando la presidenza del consiglio, con una visione presidenziale e americana del ruolo dell’esecutivo…

ma lasciamo allora a calise ed alle sue parole l’osservazione del fenomeno…

dalla prefazione…”La crisi dei partiti, già indeboliti nei loro ancoraggi sociali e ideologici, che subiscono lo smembramento interno sotto i colpi della personalizzazione; la centralità decisionista dell’esecutivo e del premier che mettono fuorigioco il parlamento; la colonizzazione mediatica della vita quotidiana che muta drasticamente i circuiti della partecipazione e scalza i partiti dal loro presidio secolare della discussione. In La democrazia del leader, Mauro Calise mette a fuoco gli snodi del processo che ha trasformato la democrazia rappresentativa in democrazia del leader.”

IL RITORNO DEL POTERE MONOCRATICO
La fine dei partiti e la personalizzazione della politica 
La democrazia del leader 

Nell’analizzare la crisi attuale dei partiti, risulta subito evidente come siano venute meno le basi sociali della loro forza e coesione. Il deficit di rappresentanza è il fenomeno su cui tutti concordano, e l’appello più comunemente rivolto agli attori politici è di ritrovare un canale più diretto ed efficace di espressione delle domande sociali. Ciò che, invece, si fa difficoltà a comprendere è che ancora più drammatica è la crisi che si realizza sull’altro fronte della vita di partito, e cioè la dissoluzione della sua capacità ordinamentale. Il partito come corpo politico sta cedendo sotto i colpi del fenomeno che sta improntando il nuovo millennio: la personalizzazione del potere.

In una prospettiva weberiana, e kantorowicziana, sarebbe più appropriato parlare di ri-personalizzazione. Una sorta di «reconquista», da parte dei moderni prìncipi di ogni ordine e grado, dell’autonomia – di rappresentanza e decisione – cui avevano abdicato a favore del secondo corpo, quello del potere spersonalizzato e collettivizzato. Con una novità importante, rispetto al passato. Nella tipologia weberiana, potere patrimoniale e potere carismatico si presentavano come appartenenti a contesti diversi, e si riproducevano con logiche molto differenti. Un tratto tipico dell’autorità carismatica era quello di contrapporsi alla routine e alla conservazione dei regimi tradizionali basati sul controllo patrimoniale. Nei processi contemporanei di personalizzazione politica, assistiamo invece, frequentemente, all’unione di patrimonio e carisma, con una sinergia dei due fattori. Ciò è dovuto anche alle profonde trasformazioni che i due termini hanno subìto rispetto alla classificazione sociologica degli inizi del Novecento.

Nell’accezione contemporanea di carisma, siamo certo lontani dalla definizione weberiana di un sentimento basato sulla «devozione alla eccezionale santità, eroismo o carattere di un individuo, e ai princìpi normativi e ordinamentali da lui incarnati». Al più, il carisma dei nostri leader riesce ad ispirare nell’elettorato un sentimento di fiducia, talora di entusiasmo e – a fasi alterne – di approvazione per le politiche che propone. Qualità che, molto prosaicamente, si condensano nell’attitudine a «bucare lo schermo». Una dote fondamentale in un’epoca in cui le principali attività di comunicazione politica ruotano intorno alla possibilità di accedere al mezzo televisivo. E agli altri media – dai giornali alla Rete – che ne sono satelliti. Non c’è ascesa di leader, oggi, che non sia strettamente intrecciata al suo successo mediatico. Un rapporto tanto più decisivo perché basato sul medesimo linguaggio. Il messaggio personalizzante del leader si sposa alle esigenze della media logic, divenuta, nel tempo, sempre più focalizzata sul protagonismo – nel bene e nel male – del singolo individuo.

Sviluppatosi originariamente come arena di discussione critica sui principali eventi di interesse pubblico, il sistema dei media tende oggi a privilegiare la notiziabilità legata a personalità di spicco, meglio fungibili per le crescenti esigenze di spettacolarizzazione di un pubblico di massa. In questa chiave, la personalizzazione politica può essere anche vista, in parte, come un adeguamento agli imperativi dell’ambiente comunicativo. Se l’ascesa dei partiti corporati era stata, in larga misura, dovuta al loro controllo capillare dei principali circuiti di comunicazione territoriale, la massmedializzazione delle reti e dei codici di circolazione delle informazioni e dei simboli ha reso molti di quei circuiti obsoleti. Promuovendo l’ascesa dei leader di partito nelle vesti di comunicatori carismatici.

La personalizzazione della comunicazione di partito rafforza il leader verso l’esterno, trasformandolo nel principale depositario del richiamo elettorale. Ma ne consolida anche il primato nei confronti dell’organizzazione interna, che diventa sempre più subalterna al capo. Sia nell’elaborazione della piattaforma di partito, che spetta al leader comunicare efficacemente, sia nella concreta implementazione degli obiettivi di policy, soprattutto se il partito è al governo. In questo caso, infatti, il trend della personalizzazione comunicativa si salda a quello della personalizzazione decisionale, con il peso crescente dei ruoli monocratici, che si tratti di presidente, semipresidente o primo ministro. Con una saldatura delle due funzioni del leader, quella di comunicatore e quella di decisore.

Ma un passo avanti ancora più importante, per la trasformazione della natura originaria del partito come corporazione, avviene se il peso mediatico del leader come comunicatore si fonde con il suo controllo delle principali leve di finanziamento dell’organizzazione. Quando cioè la personalizzazione carismatica si unisce a quella patrimoniale. Il precedente che ha fatto storia è rappresentato dal third party con cui il miliardario texano Ross Perot tentò, nel 1992, la scalata alla Casa Bianca. Oltre ad aver creato ex novo la rete di club sul territorio, Perot investì ingentissime risorse finanziarie nell’acquisto di spazi televisivi che gestì in totale autonomia, con il format degli infomercials. Bypassando il dibattito e l’analisi critica delle proprie proposte, trasformate in un messaggio unidirezionale formulato con un utilizzo professionale delle tecniche pubblicitarie. Il modello ideato da Perot ispirò e spianò la strada alla creazione, pochi mesi dopo, di Forza Italia.

Nell’analisi del successo di Silvio Berlusconi si tende a sottolineare la sua piena disponibilità del proprio network televisivo, unita alle indubbie doti di grande comunicatore e alla conoscenza dei palinsesti maturata in anni di esperienza imprenditoriale nel campo. Ma non meno importante, per la riuscita di una operazione così complessa e in tempi così brevi, si rivelò l’utilizzo della penetrazione territoriale di due importanti società facenti capo al Cavaliere. Mediolanum e Publitalia offrirono «chiavi in mano» al nascente partito una leva di quadri aziendali già inseriti in una line gerarchica e, al tempo stesso, dotati di un background particolarmente qualificato per la nuova impresa berlusconiana. Esperti di relazioni pubbliche e in contatto con segmenti chiave del mondo imprenditoriale e commerciale, i nuovi professionisti provenienti dal mondo della grande azienda disponevano di un know-how, tecnologico e organizzativo, del tutto inedito nel panorama politico italiano. In linea con le tendenze alla specializzazione delineate nelle analisi più lungimiranti sulla trasformazione dell’organizzazione di partito, e in contrasto con l’immagine del vecchio ceto politico finito sotto processo o in contumacia.

L’ampiezza e la solidità del controllo patrimoniale sull’organizzazione registrato con Forza Italia rappresentano un caso limite, o, più precisamente, idealtipico della personalizzazione del partito. Dando luogo a quella fusione tra partito e persona nota, appunto, come partito personale. In altri casi, l’elemento carismatico o quello patrimoniale possono svolgere un ruolo meno determinante, rendendo il processo di trasformazione meno radicale e duraturo. È importante, però, sottolineare che le risorse finanziarie e/o aziendali non costituiscono l’unico asset patrimoniale a disposizione di un leader intenzionato a formare un proprio partito, o ad appropriarsi di uno già esistente. Un ruolo altrettanto influente può essere svolto da risorse istituzionali cui il leader abbia accesso, a livello sia locale che centrale.

Nel primo caso, il riferimento è ai circuiti notabiliari, incentrati sul gatekeeping di risorse territoriali che, in origine, erano prevalentemente legate a una posizione di prestigio sociale e che, col tempo, sempre più dipendono dall’occupazione di cariche consiliari o assessorili negli enti locali, o in strutture associative di tipo sindacale o cooperativo. Col passaggio dal cosiddetto clientelismo verticale – basato su una relazione a due – a quello orizzontale, che consente di raggiungere un numero più ampio di clienti-elettori e di inquadrarli in dinamiche relazionali sufficientemente stabili. In origine, il clientelismo orizzontale faceva capo alle organizzazioni di partito che, dal centro, controllavano il flusso delle risorse verso la periferia. Dopo lo smottamento di Tangentopoli, molti potentati locali hanno avuto l’occasione – e la tentazione – di mettersi in proprio, cercando in qualche caso di sbarcare anche sulla scena nazionale. Complice un sistema elettorale che premiava formazioni con un peso potenzialmente decisivo nel determinare la vittoria finale di questa o quella coalizione.

Ancora più pesante, sul piatto della personalizzazione partitica, si è rivelato il controllo dell’istituzione di governo per eccellenza, la presidenza del Consiglio. A partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, l’Italia ha recuperato almeno in parte il suo ritardo storico nel dotare il primo ministro di un ufficio e di prerogative adeguati alle tendenze da tempo consolidate nelle principali democrazie occidentali. Con un certosino processo di riforma culminato nella legge 400 del 1988, la presidenza del Consiglio italiano si è andata trasformando nel fulcro operativo del governo. Sia sul piano organizzativo, che ha registrato un progressivo ampliamento di risorse umane qualificate e di apparati serventi, sia su quello legislativo. Il rafforzamento dell’organo monocratico, infatti, ha coinciso con il progressivo spostamento di un ampio ventaglio di funzioni normative dal parlamento all’esecutivo. Il fatto che il rafforzamento del premier avvenisse contemporaneamente al processo di destrutturazione dei tradizionali partiti corporati ha creato l’opportunità perché i presidenti del Consiglio utilizzassero le accresciute risorse istituzionali a loro disposizione per formarsi un proprio partito personale, o consolidarne uno già esistente.

Il fenomeno della patrimonializzazione delle risorse istituzionali di governo è un trend crescente in molti regimi politici contemporanei. Può avvenire per vie familiari, come è accaduto ripetutamente sulla scena presidenziale americana, dai Bush ai Clinton, o ai fini di una carriera imprenditoriale e/o consulenziale privata, come si registra sempre più frequentemente nel fenomeno cosiddetto dei leaders in business. Nel caso italiano, si è assistito ad una finalizzazione di queste risorse – di autorità, di potere, di immagine – alla creazione di partiti personali del premier, che hanno avuto, in alcuni snodi politici, un ruolo di primo piano.

Mauro Calise, La democrazia del leader

ed allora eccovi una seppur parziale carrellata fotografica ed in qualche modo curriculare carrellata del giglio magico con cui renzi sta “occupando” il paese…

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saviano…

Roberto Saviano

Sul Ddl Cirinnà, al Senato lo spettacolo più ignobile.
Il Pd che non sa cosa significhi trovare un accordo per il bene di questo Paese. Partito di beghe e franchi tiratori, unito solo per difendere sodali. Un’opposizione morta e retrograda, che propone emendamenti ridicoli dettati da vuoto conservatorismo. E il Movimento5stelle che ha dato prova di essere incapace di comprendere, al di là di ciò che teoricamente sembra giusto o sbagliato, quel che davvero conta. Questo Ddl era sacrosanto (unioni civili alla tedesca con adozione del figlio del partner) e doveva passare al Senato, subito. Siete lì per fare il meglio per chi vi ha votato e per chi vi voterà, non per fare i vostri inutili, volgari interessi. I danni che state facendo al Paese sono incalcolabili e vi sopravviveranno. E nessuno che abbia un moto di pudore, nessuno che provi vergogna per quelle riforme a costo zero che renderebbero il nostro Paese un luogo migliore, non più ricco ma sicuramente più civile. Che nessuno si senta eccezione: appena entrate in quelle aule diventate come chi fino a un attimo prima disprezzavate.

 

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l’assessore ed il fungo urbano…

bene, proviamo a ricostruire quanto sta accadendo ora, ma proprio ora, su facebook in un gustoso e costruttivo siparietto che si sta svolgendo sul profilo di un noto giornalista della gazzetta, massimo brancati, a cui chiediamo scusa per tutta questa pubblicità nonostante egli sia un personaggio pubblico, ma che credo comunque ben comprenda il valore della cronaca ed il dovere di cronaca…

antefatto: stamane vedo questa prima pagina della gazzetta del mezzogiorno, nella sua edizione lucana…ed ovviamente tale prima pagina è riportata ovviamente dal buon massimo brancati…

ed incuriosito, ovviamente noto la parte centrale, la foto-notizia a centro pagina…

così confeziono uno dei miei post che, oltre a riportare la foto-notizia come “fatto”, sdrammatizzando (ma neanche troppo) recita…

dalla gazzetta di oggi…
una start up innovativa che dobbiamo alla tenacia illuminata del sindaco de luca, dei suoi immensi assessori, dei “responsabili” consiglieri che lo sostengono…
coltivare funghi sui bus potentini…c’è l’ok dell’assessore all’agricoltura braia-n di materah…

ovvio è il taglio ironico della considerazione e tutto potrebbe essere finito qui, anche perché seguendo la discussione sulla pagina di brancati mi pare che tutto sia stato già ampiamente metabolizzato da una città ormai adusa a tutto…ma accade che…e qui mi limito a riportare tutti i commenti che si sono susseguiti dopo un mio commento al post, ovviamente riportando solo le iniziali di chi, non avendo ruoli pubblici, ha diritto di essere rispettato nella sua privacy sui social (che poi di che privacy si godrà mai sui social, commentando un post altrui, proprio non si sa, ma insomma rispettiamola…)

Miko Somma trovo interessantissima la coltivazione di funghi sui bus potentini…cos’è, una start up innovativa?

risponde dopo un po’ gerardo bellettieri, assessore della giunta de luca, e come tale non proteggibile in termini di privacy…

Gerardo Bellettieri dall’inchiesta interna attivata si evidenzia con assoluta certezza che questa foto riprende una poltrona montata su podestre, non presenti sugli autobus urbani, la poltrona è in velluto tipica degli autobus turistici o di linea extraurbana per cui non presenti nel nostro parco vetture.
Si tratta dell’ennesimo attacco mediatico

gli risponde nella gerarchia dello stesso commento brancati…

Massimo Brancati No. Attenzione nessun attacco mediatico. Piuttosto è Trotta che si arrampica sugli specchi. Questo è il pollicino verde del trasporto urbano, l’ho fotografato personalmente stamattina. Mancano solo i funghi che sono stati trovati su un mezzo gemello. Trotta non ci prenda in giro

ed ancora bellettieri che prosegue imperterrito dandoci una spiegazione tecnica che proprio ci mancava, cosa della quale lo ringraziamo, così la prossima volta che prendiamo mezzi pubblici potremo usare il termine senza tema di essere compresi male dall’anziano a cui cediamo il posto “prego si accomodi pure sul podestre, al mio posto…”

Gerardo Bellettieri Podestre=è il pavimento rialzato dove sono montati i sedili negli autobus che hanno le poltrone come i pullman turistici o extraurbani

e continua il sottoscritto…

Miko Somma bellettieri, che era un bus extraurbano lo si era già capito, ma #stiasereno che non cascava comunque la giunta per due funghetti…e se la faccia una risata ogni tanto, no? 😀 …e per onor del vero, dopo aver dato notizia ironica e leggera sul mio blog della cosa, pubblico anche la sua precisazione

ed in effetti pubblico sul blog l’intera conversazione, dando così atto a bellettieri che si trattava di un bus urbano (ed evidentemente mi sbagliavo proprio, avendo letto in ritardo la risposta sulla questione di brancati)…ma la cosa continua perché mi risponde subito brancati in gerarchia al mio commento, precisando quanto aveva già a sua volta commentato…

Massimo Brancati Miko è un bus a metano di Trotta

al che, evidentemente essendosi dislocato il senso cronologico, debbo precisare ad ulteriore commento…

Miko Somma Non so, non essendoci ancora salito sui bus trotta (a proposito sarebbe interessante conoscere meglio alcuni dettagli del contratto), ma a prima vista sembra un bus extraurbano quindi le osservazioni di costui potrebbero anche essere plausibili…ma detto tra noi credo più a te, che da giornalista un controllo delle fonti lo avrai fatto che a bellettieri ed alle sue verifiche che sanno di sindrome da accerchiamento….cmq staremo a vedere se alla fine faremo un risotto o uno spaghettino… 😀
 
ed ancora ricommento, sdrammatizzando la questione… 
 

Miko Somma E se alla fin fine avessi ragione tu, al povero bellettieri non resterebbe che ammettere di non conoscere il parco mezzi con cui si fa il trasporto pubblico….ancora peggio di due funghetti… 😛
 
ed interviene una tizia a me sconosciuta che commenta invelenita qualcosa sui giudici e sui “giornalisti social”…
 
M. I. S. Miko Somma…..nessuno ti ha chiesto di fare da Giudice terzo ed imparziale. Per fortuna, esustono i Tribunali con personale competente ed autorizzato a dirimere controversie. Pertanto che tu o altro giornalista sociale ci crediate o meno è un problema del tutto secondario o quasi inesistente!
 
vabbeh, cose che capitano sui social, e te ne fai una ragione (ma ha qualche grado di parentela con qualcuno che nessuno stava attaccando costei?), ma insomma, non mi pareva proprio congruente come risposta, così, come a volte capita, al veleno altrui rispondo con stile netto…
 
Miko Somma Io rispondo ad un post con la libertà che mi è concessa dalle leggi della repubblica italiana e giudico come mi pare, sempre secondo le stesse leggi di uno stato democratico ed antifascista…e sempre secondo le stesse leggi della sua opinione posso pure “fregarmene”, non le pare?..
 
siete lettori attenti, così avrete notato che al tu, impropriamente datomi, rispondo sempre con un assai formale e distaccato “lei”…e qui arriva di nuovo bellettieri che mi risponde coppe a bastoni, politicizzando a suo modo la questione dei funghi, dei autobus di trotta e del mio commento e continuando con questa pratica del tu…
 
Gerardo Bellettieri Sindrome da accerchiamento, mi fai ridere
 
ed ancora ricommenta l’acronima avvelenata che riporto comunque pur non avendo ancora compreso, dopo i tribunali, di che cosa stava blaterando (sono un sempliciotto e magari mi sfuggono particolari che non conosco)…
 
M. I. S. La verità fa male sempre e comunque, godetevi questo momento di celebrità al pari dei funghetti che crescono “sovrani” nel villaggio dei Puffi!
 
indi, sorvolando come uno dei fratelli wright al primo volo, il commento di costei, rispondo direttamente a bellettieri…
 
Miko Somma E rida pure, bellettieri, ne ha facoltà…ovviamente rido anche io, ma sarebbe più interessante che lei dia qualche risposta di merito all’osservazione di brancati che invece ci dice che trattasi di bus a metano trotta che a quanto so io non hanno tratte extraurbane in concessione….attendo con pazienza le sue verifiche interne e magari le attende anche la gazzetta
 
il buon brancati tenta in modo maturo di stemperare la polemica…
 
Massimo Brancati Si sta ingigantendo quella che era una curiosità. Trotta avrebbe fatto meglio ad ammettere il caso spiegando che è qui da un paio di mesi e che deve organizzarsi meglio anche per garantire la pulizia dei bus. È chiaro che di fronte ad una smentita non ci resta che ribadire con forza quanto abbiamo pubblicato
 
ed allora io, non pago delle risposte di bellettieri, che prima interviene quasi la trotta fosse azienda del comune (gli uffici che verifica avranno mai fatto, visto che gli autobus sono di trotta, su google?) e come tale da difendere, e non invece mera concessionaria e quindi come tale azienda esterna al comune ed a cui semmai rivolgere domande in caso di disservizi…
 
Miko Somma Ed io da “giornalista sociale”(non sapevo di esserlo) ripubblico tutto sul mio blog…ma ciò che appare assurdo è che bellettieri si travesta da trotta, quando in realtà dovrebbe forse farsi carico di una domanda istituzionale a trotta ovvero “ma gli autobus sono puliti?”….
 
e qui avviene il “miracolo”, chissà se dovuto alle mie parole (cosa che non credo assolutamente, vista la mia pochezza comunicativa ed il mio basso profilo politico e forse anche intellettivo), o ad una rapida ed istituzionale “riconversione sulla via di damasco” dell’assessore che cambia d’improvviso tono e ruolo e da sperticato difensore della trotta, che ritorna ad essere una ditta concessionaria di un servizio (pagato dal comune di potenza), ritorna ad essere assessore…
 
Gerardo Bellettieri Non mi travesto assolutamente da Trotta ma sto proprio cercando la verità a tutela dei cittadini; infatti, sono in attesa di una relazione dal gestore al fine di capire la fattispecie se qua e prendere gli opportuni provvedimenti.
 
ecco queste cose capitano sui social…a parte l’evidenza che la fattispecie semmai è de quo e non certo se qua (ma si sa che le tastiere inducono ad errori, soprattutto quando si cita il latino, lingua morta per alcuni), attendiamo allora tutti con ansia la verifica che l’assessore ha avviato (tramite gli uffici della ricerca su google?), le risposte del gestore e gli eventuali provvedimenti che spero non si limitino ad una allegra spaghettata al fungo urbano…
 
ed allora…THAT’S ALL FOLKS!!!!
 
miko somma
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le nomine indipendenti…

ansa – Direttore di Raiuno Andrea Fabiano, che sarebbe il piu’ giovane direttore della storia all’ammiraglia, nato nel 1976, di Raidue Ilaria Dallatana, di Raitre Daria Bignardi, di Rai4 Angelo Teodoli, e di Rai Sport Gabriele Romagnoli. Questi, a quanto si apprende, i direttori proposti del direttore generale Campo Dall’Orto al Cda che si riunirà giovedì’ 18 febbraio. Nelle intenzioni del direttore generale Campo Dall’Orto, le scelte delle nuove direzioni proposte ad Cda – a… quanto si apprende – sono ”basate su competenza esperienza e merito, autonomia dai partiti (*), guidate dalla volontà di rinnovamento proprio attraverso la competenza e nel segno della valorizzazione delle risorse interne”….

* forse saranno anche autonomi dai partiti, ma da certe persone oggi al potere no…prosegue l’occupazione della rai in vista del suo svuotamento come da piano di rinascita democratica

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l’ignorantone e le bufale della rete…

Figuraccia argentina: Renzi cita Borges, ma non è Borges

dal sito https://mazzetta.wordpress.com/2016/02/17/figuraccia-renzi-cita-borges-ma-e-robetta-dellinternet/ che volentieri citiamo come fonte, vi trasmetto questa “chicca” del nostro presidente del consiglio che, non pago di inventarsi lingue straniere che non domina affatto, ora si inventa anche poesie, inanellando figuracce colossali…e così dopo le statue celate, le attribuzioni sbagliate…i collaboratori del terzo millennio del presidente del consiglio “toppano” ancora l’ignorantone ci casca un’altra volta…

partiamo da un incipit e per la lettura completa e la visione del video, vi rimando al link…

I giornali argentini, e figurarsi quelli italiani, hanno pietosamente sorvolato sulla citazione di una poesia di Borges all’Università di Buenos Aires da parte di Matteo Renzi. La poesia, intitolata «L’amistad» (l’amicizia) secondo le informazioni fornite a Renzi o «a los amigos», secondo la vulgata reperibile in rete, non è però del gigante della letteratura mondiale, come ha detto Renzi tessendo le lodi del testo dopo averlo declamato in uno spagnolo imbarazzante. Piuttosto appare uno di quei casi nei quali un testo, una frase o un aforisma sono attribuiti in rete a questo o a quello, sbagliando di brutto, e diffuse copiosamente perché comunque piacciono al popolo delle condivisioni compulsive….(continua al link)

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