globalizzazione, istruzioni ragionate per la fuoriuscita (parte III)

Fin qui l’analisi che non intendo dilungare oltre perché presumo ormai fin troppo chiara ai lettori, ai quali credo solo di aver fornito una chiave di lettura “globale” di questo fenomeno che ovviamente non è il male assoluto (non facciamo l’errore di totemizzare ciò che non capiamo fino i fondo, errore di troppi, perché perderemmo la ragione critica dell’interazione tra cause ed effetti), avendo comunque prodotto anche taluni, innegabili effetti positivi (la fuoriuscita dalle forme più estreme di precariato esistenziale per tanti abitanti del terzo mondo lo è senz’altro, seppur nelle forme condizionanti che abbiamo descritto), ma le cui conseguenze pratiche oggi presentano un conto il cui saldo potrebbe essere davvero crudele per buona parte dell’umanità.

Occorre venire fuori a cominciare sin da ora da questo circolo vizioso, la cui continuazione procrastina il momento in cui presenterà quel conto sotto forma di

A),una crisi irreversibile del sistema finanziario (crollo del sistema a causa della catena di mancata solvibilità dei debiti) dai tempi e dalle conseguenze imprevedibili,

B), molto prevedibilmente di una crisi ambientale, legata ai cambiamenti climatici indotti da un uso folle delle risorse e dei cicli produttivi, che genererà in modo sempre più massiccio ondate migratorie incontrollabili che in qualche modo somiglieranno alle ondate migratorie preistoriche di esseri umani in cerca di migliori condizioni di sopravvivenza,

C), sotto forma di sempre più numerose e crudeli guerre locali che “ingessano” le dinamiche di soluzione delle relative problematiche con aspettative di ripresa dei PIL interessati dalle inevitabili ricostruzioni,

D), aspetto questo forse anche peggiore, da un “impazzimento etico-etnico-sociale” che trasformerà l’idea stessa di civiltà in un vago ricordo,

E) un insieme di tutte o parte delle possibilità (che voglio ricordare, sono già in cammino contemporaneamente) che origineranno un ciclo di tensioni ed incertezze il cui spessore è difficilmente misurabile, ma che prevedibilmente potrebbero assumere il carattere di una catastrofe planetaria.

Puro catastrofismo? Non direi, visto che ormai la sperequazione della ricchezza originata dai fenomeni di globalizzazione è arrivata a preoccupare persino “tavoli” di stampo liberista come quelli di Davos e del suo forum economico, che oggi analizzano non le cause (che a tutti sono ben chiare), ma le conseguenze presumibili di un processo storicizzatosi in un ciclo socio-economico che si postula irreversibile e  di cui si vorrebbero emendare solo alcuni effetti, senza chiedersi se non sia la stessa natura di quel processo ad essere inemendabile.

Ma allora, se ci sono, quali sono le proposte in campo per organizzare una o più formule di fuoriuscita dal fenomeno che saranno necessariamente composte da pressioni ed azioni, ovvero da comportamenti collettivi influenzabili attraverso una cultura ragionata del consumo e tali da influire a monte sulle scelte produttive e di mercato (boicottaggi ragionati e selettivi, richieste di “differenza” merceologica e di controllo della qualità etica delle produzioni, azioni legali collettive, etc.), in buona misura già esistenti e comprensibili dai consumatori, ma che occorrerebbe razionalizzare e far procedere con una strategia mirata, e da prese di posizione culturali e politico-elettorali passive ed attive (campagne di conoscenza ed orientamento, voto contrario ai partiti che rappresentano la globalizzazione, autorganizzazione dal basso di movimenti politici antagonisti), ovvero un complesso di reattività popolari tali da costringere i grandi potentati politici nazionali ed internazionali a procedere a revisioni più o meno coerenti del fenomeno stesso ed aggiustamenti graduali dei suoi effetti.

Ed ovviamente ogni pressione ed azione organizzata dal basso non potrà non considerare che giunti in questa fase delicata che si svolge sul ciglio di un burrone finanziario dalla profondità incalcolabile, la necessità più evidente è quella certo di comportamenti radicali e fuori da ogni equivoco, ma razionali, tali cioè da portare a cambiamenti positivi evitando il collasso dei cicli economici di intere aree del globo che inevitabilmente riguarderebbero in primo luogo le aree maggiormente sensibili ai cambiamenti produttivi, ovvero i paesi del terzo mondo (come esempio, se tutti smettessimo di comprare ananas all’improvviso, le multinazionali che ne controllano la produzione avrebbero certo un notevole danno, ma ristrutturerebbero in tempi rapidi la loro azione, mentre il peggior peso sarebbe per gli addetti e le popolazioni dei paesi del terzo mondo ad oggi interessati da monocolture del frutto, che seguendo l’esempio, andrebbero invece aiutati in larga scala ad organizzare cooperative per continuare la produzione e vendita, sulla base del modello oggi esistente del commercio equo e solidale, a gruppi di acquisto sensibili alle dinamiche, ad oggi costituiti dai sempre più numerosi gruppi di acquisto che andrebbero però messi in rete sinergica con i primi, sostenendone gli sforzi di riorganizzazione). Il modello di cambiamento dunque già esiste, necessita però di implementazione e di connessione ad un contemporaneo movimento politico autorganizzato. 

Nell’eccezione socio-economica e culturale, gli universi che contestano l’odierno modello di globalizzazione, nelle ormai numerose ragioni di critica, non manifestano però ancora modelli politici e sociali coesi e lineari che ne organizzino la necessità di fuoriuscita in forma di modelli alternativi “globali” anch’essi (dal momento che il problema è globale, anche le soluzioni dovrebbero essere tali) e ciò è in parte dovuto sia alla frammentazione del quadro critico (ci sono idee differenti che concorrono anche in modo molto contradditorio, ed a volte molto distante, alla definizione di critica al modello della globalizzazione), sia alla mancanza di organicità ideale delle eventuali rappresentanze (non esistono punti di riferimento politico precisi e coerenti alla critica di questo modello economico, tali da essere inquadrati come precisi interfaccia), sia alla sfiducia nei confronti del mondo politico in generale (sentito come distante, poco chiaro o desideroso solo di sovra-determinare), sia all’oggettiva incapacità della politica e dei movimenti di elaborare momenti di costruzione comune delle ragioni ideali in forme pratiche (sia esso un “momento” antropologico di incapacità al dialogo o una differenza semantica, ovvero di linguaggio comune, tra movimenti e rappresentanza).

Nonostante infatti il modello della globalizzazione sia contestato sempre più spesso e coinvolga sempre più persone, seppur spesso con poca consapevolezza, è solo molto blandamente che alcuni movimenti (no-global e new-global) accennano a possibili soluzioni politiche di fuoriuscita o di mitigazione dei suoi effetti (nel sostegno al superamento ed alla critica persino delle autorità religiose, quali papa Francesco e prima di lui papa Benedetto XVI), attraverso soggetti politici identificabili. Siamo cioè ancora alla fase culturale della critica alla globalizzazione od ai primordi difficili di una sua ancora poco visibile identificazione politico-ideale (e che non vorremmo fosse letta, come alcuni fanno in sostanziale buona fede, in Trump o in politicanti populisti e destrorsi che oggi cavalcano il disagio, ovvero gli effetti, dopo aver cavalcato le cause, ovvero quel pensiero che ha imposto la globalizzazione come sistema unico dopo il crollo delle economie di stato). 

E ciò mentre è ancora oggettivamente forte il sostegno di molti gruppi politici e di opinione liberisti, ultraliberisti, in casi estremi definibili anche come anarco-capitalisti, ma anche di una parte sostanziale delle sinistre di governo europee ed americane, all’interezza o alla quasi interezza del processo di globalizzazione.

Ed in ogni caso il dibattito, sia quello radicalmente critico, sia quello a vario titolo e sfaccettatura a sostegno della globalizzazione e dei suoi “sostanziali effetti benefici”, pare incentrarsi soprattutto sul ruolo che questa gioca nel rapporto tra paesi ricchi e paesi poveri nella creazione di crescita economica, così creandosi un limite oggettivo al dibattito stesso, poiché questo non tiene conto (o lo fa solo minimamente) delle condizioni sociali ormai esplosive createsi nel cosiddetto primo mondo. 

Se infatti secondo molti fautori della globalizzazione (o semplici succedanei culturali, quali appunto le sinistre europee post-blairiane, come quella francese di Hollande e quella italiana di Renzi, ma in generale dell’intero arco politico del Partito Socialista Europeo) questa rappresenterebbe la soluzione alla povertà del terzo mondo, tesi che non intendo ulteriormente approfondire, avendola demolita finora nell’esposizione, e secondo molta sinistra intellettuale o post-intellettuale, tale processo sia ormai irreversibile e si sia destinati a conviverci, per gli attivisti no-global essa ha causato invece un impoverimento maggiore dei paesi poveri, attribuendo sempre più potere alle multinazionali, favorendone lo spostamento della produzione dai paesi più industrializzati a quelli in via di sviluppo, diventate zone franche in cui tutti i diritti umani non sono garantiti e dove i salari sono più bassi, senza dare reali benefici alla popolazione del posto, anzi distruggendone buona parte dell’economia locale, mentre, nel contempo, i new-global asseriscono che uno stato nazionale, limitato entro i propri confini, non riesce più a dettare regole ad imprese transnazionali, capaci di aggirare con la loro influenza ogni barriera politica e condizionare le decisioni dei governi, e che solo l’abolizione dei cosiddetti paradisi fiscali consentirebbe un riequilibrio di una situazione compromessa dallo spostamento di risorse fiscali utili a perequare gli squilibri stessi, nell’evidenza che oggi le multinazionali pagano le tasse dove minore o quasi nulla è la tassazione (sottolineo che gli attivisti new global non sono contro la globalizzazione ma per un diverso modello di questa, più solidale, che tenga più conto delle diversità culturali e non cerchi di omologare tutto il pianeta sul modello occidentale, criticandone l’attuazione selvaggia senza limiti allo sfruttamento delle risorse umane e ambientali, tesi in parte condivisibile).

Ma in entrambe le tesi critiche alla globalizzazione, le considerazioni sul cosiddetto primo mondo passano quasi in seconda linea, come se nei paesi ricchi ogni effetto perverso della globalizzazione sia o possa essere riassorbito in tempi medio-lunghi attraverso attente politiche di welfare che invece (è non è casuale) ormai segnano sempre più il passo, nella tendenza ad una riduzione sempre più marcata delle formule di protezione sociale, accada ciò per motivazioni ideologiche o anche solo per la mancanza di fondi di bilancio utili ad organizzare forme universali di sostegno reddituale e sociale alle fasce di popolazione finora non solo escluse da ogni beneficio, ma nei fatti impoverite.

Ed attenzione, perché forme politiche di rivolta effettive (seppur, a mio modo di vedere, inefficienti perché isolazioniste) alla globalizzazione riguardano invece proprio i paesi del primo mondo, come il voto statunitense ha di recente ben dimostrato.

Credo quindi che è proprio dal cosiddetto primo mondo che si debbano cominciare ad organizzare forme di fuoriuscita graduale dalla globalizzazione e ciò in considerazione del fatto che economie più ricche siano molto più condizionanti quantitativamente e qualitativamente gli assetti di esistenza, e quindi di rottura, di questo ciclo economico globale.

Attenzione ancora!!! Non sto affatto dicendo che la fuoriuscita dalla globalizzazione si guidi quasi antropologicamente o in virtù di supposte supremazie culturali, da un paese o da un gruppo di paesi occidentali, e che vi sia quindi una formula unica di fuoriuscita, ma sto solo affermando che sottrarre fette di economia ai processi di globalizzazione sia, in termini assoluti e relativi, più “pesante” e gravido di percentuali ed effetti immediati nei paesi ricchi che l’analogo processo nei paesi in via di sviluppo. E vado a spiegare.

Anche se dalla mia analisi precedente sembra che emerga netta più una mia idea no-global (a cui comunque sono stato per molti anni vicino), quindi legata ad una non meglio precisata formula di transizione e fuoriuscita, ed una sostanziale mia lontananza dalle idee new-global, di cui non condivido affatto l’accettazione del sistema, in medio statvirtus, direbbero i latini, forse nelle ragioni di entrambi ci sono mancanze programmatiche, ma anche molte idee condivisibili ed è forse da qui che occorre partire per arrivare alla formula politica di fuoriuscita. 

Ovvero se la mia principale critica alle idee no global è la mancanza di reali strutture politico-economiche alternative a questo modello, mentre è chiara ed accettabile la loro critica sistemica, quella che faccio ai new global è la parzialità della loro proposta che si limita ad emendare, o chiedere che venga graziosamente emendato, nell’assurdità di pensare a formule solidali di capitalismo, un singolo, seppur fondamentale aspetto, quello della tassazione, quindi del riequilibrio fiscale che limiterebbe gli accumuli finanziari e riequilibrerebbe le risorse.

Ovvero ci si affida a concetti di etica economica che con il turbo-capitalismo non hanno nulla a che spartire, dal momento che questa formula di capitalismo finanziario e globale non è etico e non potrà mai divenirlo, perché la sua stessa natura causale è fondato sulla mancanza di altra etica che non sia un antropologico profitto per il profitto fondato sull’homo hominis lupus di certo modernità che parte dalla fine degli anni ‘70, ma certamente condivido la necessità di arrivare presto ad un patto politico internazionale che limiti o annulli e sanzioni le possibilità di esistenza (o nuova creazione per attrarre  capitali di investimento) di paradisi fiscali, il grimaldello attraverso cui scardinare molti degli automatismi di accumulazione di enormi masse finanziarie. Cosa che però nell’attuale struttura dei rapporti tra poteri governanti pare quasi una favola con cui mettere a dormire i bambini, come dimostrano la guerra delle tassazioni di favore che ormai impazza nel mondo e nella stessa UE.

No, ho una mia umile, ma articolata proposta che parte però da un assunto che vorrei fosse chiaro, cioè che usciremo “globalmente” dalla globalizzazione solo e soltanto quando una vera conferenza internazionale, in qualche forma costituente, riconosca la follia tecnica ed umana del sistema e quando tutti i paesi del mondo cominceranno tutti insieme a decostruirla.

“E quindi mai?”, direte voi lettori, “E quando mai emissari diretti di quei poteri economici, quali ormai i governanti, specie quelli di ormai solo supposta sinistra, sono diventati metteranno fine a questo sistema iniquo ed anti-umano?” – beh, non avete tutti i torti, visti i personaggi e le idee i giro, ma qualche idea pratica “per portarsi avanti con il lavoro” esiste, ed ho cominciato, nel mio piccolo ben ragionato perché rimanga tale, a diffonderla proprio dalle pagine di questo blog e nella mia piccola ed apparentemente così marginale regione, la Lucania, un terzo mondo trapiantato nel primo, dove forti sono gli interessi delle multinazionali alla trasformazione della regione in ciò che oggi molti paesi poveri sono diventati (petrolio, agri-energie, acqua, etc.), ma dove è possibile sperimentare nel suo piccolo soluzioni pratiche molto più difficili altrove per differenti masse critiche di demografia, territorio, risorse, indici di sviluppo economico, scollamento sociale, etc.

E ritorniamo all’idea che la decostruzione della globalizzazione possa o debba partire proprio dai paesi ricchi, o meglio dalle entità regionali di questi, ovvero le istituzioni dotate di un certo grado di autonomia legislativa, quindi in grado di statuire, pur nei limiti oggettivi o della concorrenza con le leggi statali (o direttive di organi di governo sovranazionali) o della predominanza di queste, elementi istituzionalizzati di prassi anti-globalizzanti messe a sistema.

Mi avete sentito parlare spesso in questi anni di g-local”, sia nell’accezione corrente e comune che si dà a questo neologismo (am he starebbe ad indicare un globale fatto della sommatoria di tanti locali), sia in quella di una specie-specifica ricetta locale di sviluppo della regione affidata ad un programma ambizioso che, nella sua ovvia complessità, parla di g-coalizzazione, ovvero globalizzazione dei locali, contro la globalizzazione, fenomeno questo forse impossibile a cancellarsi davvero in ogni sua accezione e di cui però utilizzare uno dei suoi innegabili successi, la circolazione veloce delle idee, proprio per far conoscere quel programma e la sua necessaria discussione in ambiti più ampi di quelli che normalmente la politica consentirebbero.  

E voglio usare proprio quella libera circolazione delle idee per costruire in comune ed affermare un concetto basilare di questo “g-local”, ossia che ogni territorio, previo un cambiamento politico e di indirizzo, dovrebbe e deve costruire programmaticamente un suo progetto di economia circolare, ovvero una forma di multi-ciclo economico che nasce e chiude il rapporto produzione-consumo-reddito per intero o quasi per intero nel territorio stesso, qui generando gli effetti di moltiplicazione degli utilizzi del beneficio economico del denaro con cui ottiene un bene od un servizio, ma non un’economia chiusa in se stessa come si potrebbe a prima vista supporre (una forma di impossibile ed inutile autarchia che conduce alla depressione dei sistemi economici, una banale ricetta di destra che conduce ad isolazionismi antistorici ed inconcludenti rispetto al ciclo domanda/bisogno-offerta/consumo, perché alla propria realtà economica e culturale nel tempo che viviamo non si può più sottrarre il contatto con altre economie ed altre cultura), ma una economia che offre la sua ricerca di completezza di sostentamento primario alla ricerca di completezza altrui e riceve contemporaneamente completezza da quella altrui, in uno scambio tra le ragioni economico-produttive dei territori e delle loro potenzialità peculiari fondato sulla legge della domanda e dell’offerta depurata da ragioni altre che non siano la domanda e l’offerta, ovvero il rapporto tra bisogni reali e costo della produzione nella determinazione di un prezzo equo.

E, quasi logicamente, dovrebbe farlo a cominciare dal più elementare e fondamentale dei suoi processi produttivi e di consumo, l’agricoltura, ovvero la produzione di derrate alimentari.

Come alcuni sapranno nel progetto politico-programmatico che da anni porto avanti con COMUNITA’ LUCANA, l’agricoltura riveste un ruolo di primo piano sia per la rilevanza percentuale ed occupazionale che l’agricoltura ancora riveste nella nostra regione e potenzialmente è in grado di esprimere in un processo mirato di sviluppo, sia nella sua funzione primaria di essere un processo produttivo di cibo (non mi interessano forme agricole no-food fino a quando non sia raggiunta la piena autosufficienza alimentare di un territorio) e quando arriviamo ad immaginare che un territorio prima di esportare le sue risorse agricole, quindi il suo cibo, debba primariamente assicurarsi il pieno e completo auto-soddisfacimento del bisogno alimentare, parliamo di sovranità alimentare, ovvero della specifica capacità di un territorio (quindi dei suoi agenti, gli agricoltori locali) di provvedere nel territorio (quindi in quello specifico contesto climatico-ambientale, relazionale e produttivo) alle esigenze alimentari primarie di quel territorio (ossia ai bisogni primari della sua popolazione).

E per quanto banale, ricorriamo a qualche esempio pratico per spiegare alcuni concetti basilari. Date le produzioni consentite in un territorio dal clima e dal contesto produttivo (l’Italia, e nello specifico la mia Lucania), quanti possono affermare, negli acquisti generalisti di cibo, di mangiare patate provenienti dal proprio contesto regionale?

Certo qualche fortunato ha l’orto che cura da sé o il nonno che gli regala ortaggi, qualcuno vive in prossimità di zone agricole ed acquista direttamente dal contadino, ma in un contesto urbano è certo più semplice per gli acquisti di derrate alimentari rivolgersi al supermercato dove, per esigenze e scelte distributive e nell’occorrenza di tenere ragionevolmente basso il conto della propria spesa, non si troverà altra patata che una patata generica, magari prodotta in un’altra regione, magari in un altro paese o continente, e non si potrà non acquistarle perché se ne ha bisogno per mangiare, quindi soddisfare un insopprimibile bisogno primario e vitale.

E quella patata si acquisterà senza chiedersi se si stia trasferendo denaro ad un coltivatore, attraverso tutta la complessità di passaggi e cicli di una catena distributiva di cui l’agricoltore è magari l’ultimo anello, o se magari non si stia trasferendo il proprio denaro ad una multinazionale che controlla ognuno di quei passaggi direttamente od indirettamente.

Quindi si acquista nel paradosso di non sapere se per alimentare se stessi, si abbia a che fare più o meno direttamente con il produttore (ciclo breve domanda-offerta) o magari non si alimenti uno degli attori di quella globalizzazione che, per esigenze di costi da tenere bassi e profitti da tenere alti, magari ha fatto

  • ·         produrre la patata che il consumatore mangia a contadini egiziani pagati una miseria (e magari prima producevano solo per mangiare loro quella patata e non avevano necessità di comprarla da qualcuno magari più povero),
  • ·         trasportare ad una nave liberiana fino ad un porto tunisino dove viene lavata in condizioni di reperimento della risorsa idrica non ottimali a livello sanitario ed ambientale
  • ·         portare quindi in un porto turco per farla confezionare in una rete prodotta in Cina
  • ·         caricare su un tir polacco fino ad uno stabilimento greco dove viene confezionata,
  • ·         spedire in centro di smistamento in sicilia,
  • ·         affidare ad un trasportatore calabrese che quindi la conduce in un supermercato della tua città, supermercato che porta un nome italiano, ma la cui proprietà, per acquisizioni finanziarie, è della stessa compagnia che ha ordinato al contadino egiziano di produrre quella patata e via discorrendo.

Compresa la complessa catena che imprigiona il cibo, il suo prezzo finale e la necessità di mangiarlo non più alla legge di mercato che fa incontrare domanda ed offerta, ma alla voracità di una multinazionale che fa effettuare i vari passaggi lì dove esistono specifiche convenienze di prezzo, salario, minori tutele sanitarie ed ambientali, etc., e magari non controlla solo il ciclo di quella patata, ma controlla tutte le differenti qualità di patate presenti in quel supermercato, con ciò imponendo di fatto un cartello monopolistico?

Ma come spezzare allora quella catena, allontanando la multinazionale dal cibo e la delocalizzazione produttiva che, abbiamo letto in precedenza, implicita in quella stessa catena, imprigiona il bisogno di cibo in un sistema a cui non interessa altro che ricavarci non un ragionevole profitto, ma un profitto enorme e che si fonda sullo sfruttamento di tanti attori ed economie produttive, nonché sulla riduzione di ogni specificità locale di patata, per proseguire con l’esempio, a pura e semplice patata uguale in ogni dove e priva di quelle differenze che fanno un contesto produttivo diverso da ogni altro?

Bene, un primo passaggio per liberare il bisogno di cibo e ricondurlo in prossimità del luogo in cui si acquista, e quindi per spezzare quella catena è necessario dar modo ai contadini lucani di produrre patate buone ed acquistate a prezzi degni del lavoro per produrle, poi a qualche trasportatore locale di trasferirle, ad un prezzo congruo alla piccola distanza da percorrere, ad un mercato generale a controllo pubblico e di qui ad un supermercato, “costretto” da un meccanismo incentivante/disincentivante fiscalmente a carattere legislativo regionale, a vendere determinate quote di prodotti locali, nel chiudersi del ciclo produzione-consumo in soli tre-quattro passaggi 

Chi guadagna e chi perde? Facilmente osservabile è che ci perde la multinazionale che non gestisce più i passaggi di produzione e distribuzione, e chi ci guadagna è l’agricoltore, la piccola/media distribuzione locale, il supermercato che fidelizza i clienti al prodotto tipico e locale ed il consumatore finale che non paga più il costo della moltiplicazione assurda dei passaggi precedenti. ma non vi annoio e vi rimando alla prima parte del programma di COMUNITA’ LUCANA, ed a tutto il resto, invitandovi a leggerlo nelle sue stringenti relazioni tra punti verso un traguardo finale.

Ovviamente l’esempio è banale, ma illustra la prima modalità di battaglia contro la globalizzazione, ossia in una prima fase attuare una “g-localizzazione” di produzione e consumo alimentare, attuata territorio per territorio, secondo i contesti specifici e le masse critiche di abitanti, poi in seguito e per fasi graduali organizzare in rete le stesse “g-localizzazioni per assicurare che la gran quantità di patate che occorrono a Roma o a Milano sia assicurata da una rete delle potenziali eccedenze agricole delle singole regioni italiane (ovvero di quanto sia coltivabile oltre il fabbisogno di quel territorio) per provvedere così a mercati di milioni di abitanti che non avrebbero il territorio in misura adeguata per una grande produzione. Sconfitto il ricatto alimentare verso le grandi masse di popolazione urbana, chi ci guadagna e chi ci perde? Ci perde la grande multinazionale, ci guadagnano i cittadini, siano essi consumatori che produttori.

E dal momento che il costo di una patata in Italia è probabilmente dieci volte superiore al costo della stessa in Egitto, comprando patate italiane, commercializzate g-localmente, per dieci milioni di euro al giorno abbiamo sottratto dieci milioni di euro all’economia globalizzata che porta i suoi ricavi in qualche paradiso fiscale o i qualche operazione di borsa, dieci milioni che finiranno invece nei vari cicli economici locali, da cui ripartiranno con gli ovvi benefici ben distribuiti dei cicli economici brevi, ma uno soltanto all’economia egiziana che probabilmente, riconvertendosi sul mercato interno o vendendo in Italia la specificità della propria patata, sarà capace non solo di recuperare la cifra, ma di “liberare” la sua produzione da una multinazionale che obbliga i contadini a lavorare ad un reddito irrisorio per produrre quella stessa patata e riacquistare una sua sovranità alimentare. Chiudo con l’esempio della patata.

Questo indica che se ogni territorio dei paesi più ricchi fosse in grado di provvedere a ciclo breve alla maggior parte del proprio cibo, probabilmente ogni territorio dei paesi poveri farebbe altrettanto e non sarebbe più costretto a dipendere dalle multinazionali, che vedrebbero il proprio ruolo di influenza sulle grandi scelte agricole mondiali ridotto o annullato, con le masse finanziarie che, rimanendo in loco, svolgeranno effetti locali di ciclo virtuoso 

Se quindi il territorio di una regione fosse in grado, nei limiti delle legislazioni vigenti, di auto-organizzare su cicli locali o di prossimità buona parte della propria economia produttiva, sottrarrebbe la stessa ad ogni influsso delle multinazionali, ma siamo ovviamente nel campo del teorico, perché un paese manifatturiero come il nostro, e quindi anche economie manifatturiere locali, avrebbe sempre bisogno di merci estere, ed è proprio per questa oggettiva difficoltà di arrivare subito al cuore della globalizzazione chel’organizzazione di una economia del cibo diventa il primo tassello rapido (perché annuali sono i cicli agricoli e quindi di riorganizzazione) di una lotta più vasta e di medio-lungo termine alla globalizzazione controllata dalle multinazionali e dalla finanza. 

Lotta che deve partire dall’assunto che il commercio estero non è affatto un male, se affidato al mercato dove domanda ed offerta non sono condizionate dalle quotazioni fissate in un altrove speculativo di una merce, lotta che non può prescindere dalla convinzione che saremo forse liberi da questa globalizzazione quando solo e soltanto quella legge pura della domanda e dell’offerta (ovvero quanto x vale adesso nell’incontro tra chi produce e chi compra), depurata quindi dalle intromissioni della finanza organizzata intorno ai futures (ovvero alle scommesse su quanto x varrà domani nel condizionamento basato sull’accaparramento e la gestione totale dell’offerta per determinare il prezzo in nuovi oligo-monopoli di fatto), ritornerà a regolare le transazioni internazionali.

Arriviamo al nocciolo, incrociando i fili di altri ragionamenti fatti in altri articoli. Le attuali classi dirigenti politiche nazionali sono ormai da tempo una emanazione quasi diretta del pensiero e della prassi neoliberista che sponsorizza questa globalizzazione e contemporaneamente molte funzioni tipiche degli stati in termini di politica economica sono state delegate ad organi sovranazionali non perfettamente o per nulla democratici, organi dove maggiore è l’innesto di quelle pratiche e quelle teorie neoliberiste perché costruiti su misura della stessa globalizzazione e dei suoi processi, quindi non è possibile aspettarsi nulla o quasi che parta dal “centro delle decisioni” o dalle politiche nazionali nell’immediato, con buona pace di Trump che crede di poter fare a meno del mondo nella sua “ingenua” visione isolazionista o dei politici inglesi che credono di ristabilire un post-imperiale predominio anglosassone sull’economia mondiale. 

Rimangono ancora passibili di mutamenti politici sostanziali, le realtà dei governi locali di area vasta, quelli regionali per intenderci nella realtà italiana, dove esiste una potestà legislativa esercitabile autonomamente, entro certi vincoli di legislazione statale o comunitaria

Questi vincoli attualmente non stabiliscono ancora che in un territorio le merci debbano venire da un luogo o dall’altro, da un produttore o dall’altro (seppure qualcosa in tal senso è iniziata da tempo in sede UE), ma “solo” che in quel territorio si debba sottostare come altrove ad alcuni principi di libera concorrenza entrati nella legislazione, libera concorrenza che quando è esercitata senza protezioni incentivanti le produzioni locali è evidente che favorisca la produzione delle multinazionali che riescono a gestire un tenore dei prezzi su misura dei propri interessi di creare profitto o di impedire la comparsa di elementi produttivi realmente concorrenziali.

Il punto è quindi come “favorire” le produzioni locali, senza incorrere in divieti o sanzioni. Ogni aiuto finanziario o fiscale ad aziende italiane in libera concorrenza è sanzionato come aiuto di stato dalla unione europea, ma nessuna direttiva europea o legge nazionale impedisce ad una regione un regime fiscale incentivante verso una produzione che ottemperi a specifici parametri ambientali e/o sanitari indicati come prioritarioper la propria popolazione o territorio (finora nessuna legislazione ha potuto stabilire con chiarezza che le esigenze di produzione ed il profitto possano bypassare le esigenze di tutela ambientale o sanitaria).

E se quindi una forza politica territoriale che vincesse delle elezioni regionali, stabilisse programmaticamente che la produzione e distribuzione agricola (o anche in altri comparti) nel territorio amministrato debbano, per esigenze di tutela della salute e dell’ambiente, avvenire secondo determinati parametri biologico-funzionali in osservanza delle tutele stabilite ed accedano così a specifici incentivi locali, fiscali o infrastrutturali, tali da riequilibrare la sbilanciata concorrenza delle multinazionali per sbaragliare processi produttivi più virtuosi, ecco che un pezzo anche piccolo di globalizzazione si allontana da quel territorio.

E se sull’esempio di quel territorio anche altri territori seguissero questa strada, ecco che intere aree avrebbero allontanato pezzi di globalizzazione dalla propria produzione di cibo.

E quando intere aree di un paese si sarebbero allontanate dalle “vie maestre” protette fino a quel momento dai governanti dei paesi, proprio costoro non potrebbero che prenderne atto e porsi di fronte ad una scelta, ovvero se seguire il dettato dei propri ispiratori ideologici e perdere elettoralmente i propri territori, o seguire i territori e perdere quei cattivi ispiratori e consiglieri, fino a rinsavire sulla strada da percorrere per riconnettersi ai propri cittadini, quella che conduce lontano da questa globalizzazione a senso unico.Una politica centrale che finalmente cominci a seguire le indicazioni dal basso.

E certo sarebbe preferibile che, nel procedere di piccole vittorie di piccole forze politiche nelle regioni e nei territori, si possa a quel punto formare una coalizione federata dei territori che reclama un suo ruolo politico nei processi decisionali.

Il punto centrale del ragionamento diventa allora come organizzarsi per mettere in campo alternative programmatiche locali in grado di essere vincenti in un confronto con forze politiche nazionali, tenendo conto che sui territori occorre rispondere direttamente alle persone dei propri atti e progetti, in un accorciamento della filiera del consenso politico che, se non diviene certo più facile, diviene però più abbordabile per piccoli ed agili movimenti locali, ben radicati e riconoscibili dagli elettori, rispetto alla difficoltà di accedere nell’immediato ai grandi processi politici nazionali ed internazionali.

Parlo ovviamente da sinistra di una prospettiva di sinistra federata dei territori per recuperare un altro senso di sinistra, oggi neppure più percepita come esistente, una sinistra dei territori

  • ·         vera nelle idee programmatiche (che nei territori, come in altri ambiti, devono toccarsi con mano per essere credibili come progetti e come non accozzaglie dialettiche per il piccolo cabotaggio utile alla sopravvivenza di qualche poltrona),
  • ·         percepibile come forza politica popolare, ovvero che ascolti il popolo, ascoltandone i bisogni reali, equità sociale, lavoro per tutti, reddito bastevole ad una esistenza dignitosa, sicurezze, ambiente sano, solidarietà e senso della comunità, razionalizzandoli nel suo concorso per guidare verso un’altra direzione, e non gli umori,
  • ·         identificabile come un reale nuovo approccio alla politica nei volti, nelle pratiche, nelle parole, nei metodi, nell’assunto che le gambe delle persone servono per portare idee e non aspettative personali,
  • ·         pienamente coinvolta nelle dinamiche territoriali e di comunità, senza recitazioni di distinguo identitaristi rispetto alla comunità stessa, perché localmente i concetti di destra e sinistra assumono risvolti troppo pratici ed immediati perché si disputi sul sesso degli angeli
  • ·         coinvolgente e condivisa nella tutela dell’interesse locale, perché gli interessi nazionali o sono la somma armonizzata dalla buona politica degli interessi locali, quindi dei cittadini reali, o sono altro dal cittadino
  • ·         aperta ai contributi di idee da parte della cittadinanza, inclusiva e comprensiva delle dinamiche dell’individuo e di una collettività di individui

Non possiamo per pigrizia, debolezza, stanchezza, disillusione o spocchia non essere attori consapevoli di una lotta alla globalizzazione che oggi pare più materia per l’isolazionismo di un Trump o un “neo-albionismo” alla Brexit, per i lepenismi o i salvinismi, soluzioni politiche di una destra della paura e della paranoia del diverso, ormai votate da popoli socialmente stanchi di un sistema che impoverisce e che li ha impoveriti, ma di cui non riconoscono i colpevoli, limitandosi, quando possono, a votare un meno peggio che la rabbia delle proprie ragioni gli fa riconoscere nella melodia di qualche pifferario.

Se la prospettiva della sinistra governista è quella di cercarsi padroni o mentori a garanzia della sopravvivenza, a noi che ci speriamo ancora in una sinistra vera, quella del popolo e per il popolo, non resta che rimboccarci le maniche, calandoci in quella esigenza di giustizia e di equità che oggi sembra provenire dal profondo della società e che occorre intercettare da sinistra, per guidarla con il cuore e l’intelletto, e non lasciarla alla destra ed al ventre di una società stanca ed impaurita che ha perso ogni punto di riferimento.

Al lavoro, dunque. Organizziamo senza paura del compito e dell’esposizione di ciascuno di noi programmi politici locali che vadano con intelligenza e chiarezza contro la globalizzazione ed i suoi effetti di delocalizzazione delle scelte (una delle armi migliori del globalismo, allontanare le decisioni dai luoghi), riportando le scelte ai territori ed intercettando i bisogni di base dei cittadini, riportiamo il locale ed i locali a governare e costituire il globale, perché la Terra non è fatta di omogeneità, ma di differenze, e l’unione delle differenze non è mai l’omogeneità massificante di chi da cittadini ci ha fatti consumatori, ma la ricchezza dell’essere abitanti di un pianeta che non possiamo consumare.

Il sottoscritto da questa piccola regione ci sta provando e vi chiede collaborazione, offrendo collaborazione.

Miko Somma  

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