Come la guerra in Ucraina interseca gli idrocarburi lucani

C’è una guerra in Ucraina, spaventosa, crudele, violentissima, senza ragioni che ne giustifichino la durezza imposta da un autocrate senza sentimenti ad un popolo, quello ucraino, e c’è una guerra sull’Ucraina, combattuta dalla Russia contro i paesi Nato, forse contro l’intero Occidente.

Ci sono certo torti e ragioni in ciò che precede il conflitto in Ucraina e sono di entrambe le parti, ma c’è un paese aggredito, quindi un popolo non necessariamente identificabile nel suo leader, ed un paese aggressore che sostanzialmente si identifica in un uomo crudele e senza freni inibitori e nel suo apparato di potere costruito a sua immagine e somiglianza in oltre 20 anni di ininterrotto potere. Ho spesso scritto sui social cosa ne penso della guerra guerreggiata, non mi ripeterò, io sono con i popoli aggrediti, perché la violenza anche quando ha delle ragioni, le perde nello stesso momento in cui si esercita.

È diventato però sempre più evidente che quella parte di guerra non guerreggiata che già oppone la Russia di Putin ai paesi NATO, fatta per ora di sanzioni, blocchi finanziari, sequestri di beni e patrimoni di oligarchi e personale politico/amministrativo più prossimo al presidente russo, minacce di estensioni del conflitto, una guerra anch’essa fatta di ragioni e torti che si sono ormai persi nell’impossibilità del dialogo, quella guerra esiste e comincia a dare i suoi segnali.
Una guerra non guerreggiata che Putin conduce alla Nato, strumento ormai vecchio che andrebbe rivisto, ma segnatamente conduce con maggiore veemenza ai paesi europei ed UE più dipendenti dalle importazioni di gas russo, quelle forniture di cui si comincia a palesare il blocco visto il vagheggiare russo del pagamento in rubli come casus che porta direttamente verso un blocco inteso come atto di conflitto e di vendetta.

Facile immaginare che le conseguenze saranno immediate non solo in termini ulteriori di costo, costo che già intollerabili speculazioni di mercato, riconosciute persino dal ministro Cingolani, pasdaran del liberismo, hanno reso molto più oneroso di quanto molte economie familiari prostrate dalla pandemia possano sostenere, e che ora, senza forti interventi pubblici di limitazioni delle fluttuazioni di prezzo (che diverrebbero una irrisolvibile contraddizione nel liberismo imperante nei paesi UE), potrebbe esplodere.
Ma prima dell’esplosione, forse evitabile, forse no, la chiusura dei rubinetti del gas russo porterà inevitabilmente e direttamente a razionamenti che consentano alle riserve accumulate di non esaurirsi in tempi troppo rapidi, in grado di darci una relativa tranquillità nel ricercare soluzioni

Non sto parlando volutamente del rischio reale di razionamenti di alcune derrate, tipo i farinacei di cui Russia ed Ucraina sono i principali produttori e dei risvolti che l’accaparramento da parte occidentale delle derrate avrebbe sui paesi meno fortunati e meno in grado di sostenere costi aumentati non solo dalla mancanza degli stessi farinacei, ma della solita speculazione che spingerebbe in alto i prezzi, fino ad un punto dove l’afghano o l’haitiano o il ruandese non possono arrivare. Avrò forse modo di parlarne, ma non ora.
Razionamenti del gas e quindi dell’energia che in massima parte ricaviamo dalla sua combustione, che, in vista del prossimo autunno-inverno e senza cambiamenti netti della struttura di potere russa, ovvero di una deposizione di Putin, diverrebbero una drammatica costante che porterebbe al blocco di quella crescita economica residua al blocco attuale che sola può consentire di rientrare in parametri accettabili di controllo dei debiti pubblici, oltre naturalmente a fortissimi ed inediti disagi per una popolazione, quella italiana, come le altre, che non hanno ancora conosciuto la realtà dura del razionamento.
Perché, se stiamo al solo panorama italiano, i razionamenti degli anni ‘70 del 900 sembrerebbero una pacchia, visto che oggi sarebbero coinvolti non solo gli usi diretti degli idrocarburi (trasporti e riscaldamento), ma la stessa produzione di energia elettrica.

Ovvero, per andare al sodo, se di qui all’estate le scorte consentirebbero una relativa certezza, prima della stessa estate occorrerà verificare i seguenti punti
1) quanto quegli afflussi di gas da altri paesi trattati dal duo De Scalzi&Giggino Di Maio siano reali, realmente collettabili nella rete di trasformazione e distribuzione ed in che misura compenseranno quel 37,8% di import dalla Russia

2) quanto il gas liquefatto promesso dagli USA possa essere disponibile, vista la mancanza di adeguate infrastrutture di trasporto (liquefatori in USA, navi gasiere e gassificatori in Europa) e quanto possa compensare in termini percentuali quel 37,8% di gas russo che costituisce la nostra importazione

3) quale sarà il contributo percentuale derivante dalla riapertura di alcune centrali a carbone

4) quanto riusciremo a risparmiare come struttura paese, razionalizzando, razionando, innovando i processi produttivi e di consumo

5) quanto riusciremo a compensare in tempi drammaticamente così rapidi attraverso le fonti rinnovabili

6) quali saranno i settori sacrificabili

7) quanto e quale sarà il reale estratto nazionale in grado di sostenere la richiesta e segnatamente quale sarà il contributo lucano

Chiariamo che l’attuale consumo di gas metano nazionale si aggira sui 71 miliardi di mc, che la dipendenza dal gas russo è del 37,8%, ovvero 26,8 miliardi di mc, che il secondo fornitore è l’Algeria con il 28,4%, segue l’Azerbaijan con circa il 10%, più altre forniture minori, tra cui l’afflusso di quantità marginali di gas liquefatto e l’import bloccato dalla Libia
Ma occorre anche chiarire che al conto mancherebbero anche tra il 10 ed il 13% del petrolio occorrente al paese, la quantità che oggi importiamo dalla Russia, ovvero mancherebbero altri punti percentuali poco o dificilmente quantificabili in termini di apporto energetico sul settore elettrico, ma decisivi sul settore dei carburanti da autotrazione
Ma veniamo ai punti e ad alcune considerazioni
1) Il gran movimento del citato duo si è indirizzato verso una serie di paesi già connessi al nostro da gasdotti esistenti, ovvero Azerbaijan attraverso il TAP ed Algeria attraverso il Transmed. Il gasdotto Greenstream dalla Libia è nei fatti fermo da anni e difficilmente l’instabilità del paese sarà sanata in breve tempo, a meno di un vero e proprio intervento militare (ne parlerò in altro momento, poiché credo ciò accadrà in caso di un prolungarsi della crisi) e reso di nuovo disponibile per l’importazione.
Ora se teoricamente attraverso il tap importiamo il 10% dei 70 miliardi di mc di consumo nazionale di metano, quanto gas aggiuntivo può supportare la struttura, considerando che avremmo bisogno di circa 26,8 miliardi di mc a regime di consumi attuali? La compagnia costruttrice parla di una portata massima di 20 miliardi di mc (attualmente 10 miliardi), portata da verificare anche rispetto alla produzione, cosa questa che se accertata e praticabile potrebbe portare al teorico dimezzamento della quota di gas mancante dalla Russia, riducendo il fabbisogno a circa 13 miliardi di mc.
Domanda, visto che non siamo i soli a rifornirci attraverso il tap, di quanto effettivamente potremo beneficiare in maniera aggiuntiva attraverso questa via?
La quota di import attuale dall’Algeria è del 28,4%, ovvero 19,8 miliardi di mc, non sappiamo quanto aumentabile in termini produttivi, ma l’infrastruttura di trasporto reggerebbe fino a 30 miliardi di mc teoricamente, cosa che comporterebbe un aumento di quota import fino al 36%, comportando ciò una notevole compensazione, ma domanda dovendo tener di conto che il gasdotto Transmed serve anche la Spagna e di qui il Portogallo, di quanto potremmo realmente aumentare l’importazione?
Un completo recupero di di produzione e trasporto dal gasdotto Greenstream potrebbe portare 8 miliardi di mc annui, quindi circa un 12%, ma la direttrice è poco praticabile per il dissesto della Libia.
Insomma i conti sono stretti ed una sola variabile potrebbe far saltare i calcoli.
2) Occorre quindi capire quanto le importazioni di gas USA, (assicurate per 30 miliardi di mc, ma per l’intero continente) potranno ulteriormente compensare un quadro di approvvigionamenti realmente molto complesso ed al quale un qualunque elemento mancante od incompleto (teniamo conto che la Russia non rimarrà ferma) potrebbe arrecare un grave danno. Possiamo però stimare in una quota non abbastanza grande il gas USA che arriverebbe da noi, per le difficoltà tecnico-logistiche già citate, e per la maggiore facilità (e convenienza politica) di servire prima il Regno Unito dei paesi UE, ma quanto grande sarebbe la quota che residuerebbe per l’Italia?

3) Il discorso carbone sembra il meno praticabile, nonostante il governo abbia dichiarato che in caso di necessità potrebbero essere riaperte le nostre centrali a carbone, sette (cinque pubbliche, due private), di cui tre però già chiuse. Il paese non produce carbone significativamente e ricorrere all’importazione sembra molto complicato sia logisticamente che in termini ambientali, visto l’impatto del carbone, sia ancora in termini di percentuali prodotte (Nel 2021 l’Italia ha prodotto dal carbone il 4,3% del fabbisogno elettrico italiano e a circa il 4,9% della produzione totale netta di energia elettrica) che renderebbero probabilmente le riaperture degli impianti chiusi troppo costose rispetto ai risultati ottenibili. Davvero si intende praticare una soluzione così assurda come quella del carbone?
4) Il discorso risparmio risiede ovviamente nel breve periodo per la maggior nelle attitudini degli italiani a risparmiare obtorto collo, dato che interventi su un risparmio nei cicli produttivi e di distribuzione richiederebbe tempi significativamente più lunghi. Potrebbero essere necessari, visto che il tema petrolio inseguirebbe il tema gas, quindi massicci interventi contributivi per svecchiare sia il parco auto pubblico e privato, dando priorità all’auto elettrica o ibrida, quindi intervenendo massicciamente su contributi all’acquisto per equipararne i costi alle auto a combustibile, sia elettrodomestici ed attrezzature civili, sia ancora ed in genere strumentazioni di lavoro energivore. Appare tuttavia chiaro che i tempi non sarebbero congruenti con l’emergenza e che l’intervento primario dovrà passare dal razionamento, la cui portata è per ora poco prevedibile, poiché dipendente proprio da quanto l’approvvigionamento supplementare che si tenta di acquisire ormai da un mese sarà bastevole. Sono gli italiani disponibili alla riduzione non solo dei consumi privati, cosa che con gli aumenti sarà quasi ovvia, ma di quei consumi ad uso pubblico (pubblica illuminazione per cominciare) che fanno qualità della vita?
5) L’approvvigionamento da rinnovabili è ben poco incisivo nel breve periodo, visti i lunghi tempi di realizzo di strutture produttive, ma occorre da subito mettere in cantiere quei massicci interventi già programmati per raggiungere anche prima dei termini gli obiettivi europei. Probabilmente andranno facilitati gli interventi su misure incentivate quali i superbonus, ma occorre lavorare perché siano introdotte serie e concrete possibilità auto-produttive per le aziende ed i privati. Il governo è disponibile ad intervenire su un settore, quello dell’autoproduzione facilitata ed a compensazione, che le lobbies dell’energia considerano una proprietà privata?

6) Se non si riuscisse a compensare le importazioni, alcuni settori produttivi ad alto tasso energivoro saranno probabilmente sacrificati per qualche tempo, come acciaierie, cementifici e più in generale quei settori che producono scorte in grado di non causare traumi troppo intensi nelle forniture. Si è in grado di attivare strumenti di welfare bastevoli?
7) Veniamo allora al punto che interessa la nostra regione. Il governo conta di raddoppiare, quindi portare al 10% la quantità di estratto nazionale di metano, cosa che apparirebbe anche ragionevole se dall’equazione tra costi, anche ambientali, e benefici, si ricavasse un dato confortante nel breve periodo sulle percentuali, ma così non è.
La percentuale di estratto, considerando i soli giacimenti operanti e quelli in grado di essere operativi nel volgere di pochi mesi (pochissimi), davvero non sembrerebbe giustificare lo sforzo, ma la strada segnata è quella di un aumento produttivo certo negli impianti off shore, ma principalmente negli impianti in Basilicata, e questo sia in termini di estrazione di gas, sia, pur se alcuno ne parla, di estrazione di greggio, poiché la maggior parte dei pozzi sono a produzione mista, ovvero per avere più gas, occorre estrarre e trattare più petrolio.
Quindi se si pensa di produrre 3,5 miliardi di mc aggiuntivi, il posto ove cercarli è anche nella nostra regione che già oggi produce circa il 70% del gas estratto nel paese, quindi il raddoppio ci riguarderebbe da vicino, segnatamente nella val d’agri, dove esiste una quantità di gas rilevante, oltre naturalmente al petrolio, la cui produzione non potrebbe che non aumentare dagli attuali livelli a cui è ritornata, grazie alle destre al potere, direttamente investite dalle compagnie alle ultime elezioni. Perchè forse qualcuno credeva di votare per un cambio di parte politica?
Teniamo anche conto che le percentuali che ballano sono le stesse che riguardavano tutti gli idrocarburi estratti e da estrarre in Italia, quindi da noi, della strategia energetica nazionale del governo Monti, 2013, e che questa crisi sembra quindi aver fatto il regalo a chi, dalle compagnie alle lobbies parlamentari e di opinione, ovvero da Renzi a Cingolani, passando per Tabarelli di Nomisma energia
Può questa regione permettersi questo? Probabilmente no in termini ambientali, seppur le estrazioni a gas sono meno impattanti di quelle a petrolio, anche e soprattutto perché aumenterebbero le perdite in aria di metano come conseguenza dei processi estrattivi, le immissioni di sostanze di lavaggio e filtraggio, e via discorrendo la lunga sequenza che il sottoscritto e molti altri hanno spesso descritto, ma il vero prezzo, più occulto, ma forse più grave, sarebbe l’ulteriore servaggio della regione nei confronti del settore energia mascherato da iinteresse nazionale nel momento in cui questo risulterà più forte dei sacrifici richiesti al territorio ed alle sue vocazioni.
Perchè il maggior danno che fanno gli idrocarburi alla nostra terra è la perdita di potenziale agricolo e turistico, quindi di settori ad alto valore occupazionale e rinnovabile, che gli idrocarburi e la loro estrazione portano naturalmente ai territori, oltre all’asservimento al sistema energia di una terra che oggi già fornisce quasi il 10% del fabbisogno energetico del paese, ospitando meno dell’1% della popolazione del paese.
Se dovremo allora sacrificarci ancora per l’interesse nazionale che lo si riconosca a questa terra e se ne sia tutti coscienti

miko somma

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