è la sicurezza che fa da barriera alla crisi…

appare evidente ai più che la parola “flessibilità” in italia significa precarietà dei rapporti di lavoro e non certo quel dinamismo nel rapporto tra domanda ed offerta che potrebbe tradursi, come in effetti in molti casi europei si è tradotto, in una maggiore efficienza del mercato del lavoro che tenderebbe così a selezionare per le postazioni offerte figure sempre più professionali ed adatte alla specifica mansione richiesta attraverso una migliore selezione legata proprio alla sburocratizzazione del rapporto lavorativo stesso…ma questa è appunto un’altra storia ed un’altra declinazione della flessibilità…

da noi, sarà per il precedente storico che dalla legge 40 in poi più che produrre dinamismo occupazionale ha prodotto decine di categorie di lavoratori non più qualificati per le mansioni in grado di offrire, ma per tipologia di precarietà, sarà per quella tendenza “facilona” dell’imprenditoria italiana a credere che il costo del lavoro sia comprimibile all’infinito, quasi fosse un costo non strettamente attinente alla qualità del prodotto materiale od immateriale che poi quei lavoratori realizzano, ogni volta che la parola flessibilità viene pronunciata da un uomo di governo o da qualche “tecnico” in un convegno come “la soluzione” ai problemi del paese, a chiunque sano di mente e non abbacinato da quelle tendenze all’incantamento od alla distrazione delle masse che sembrano ormai divenute la cifra esiziale della parola politica, torna in mente quella “cottimizzazione” del lavoro che è ormai in atto da quasi due decenni e che in sostanza tende a comprimere attraverso il costo del lavoro, quel costo stesso dei diritti acquisiti dai lavoratori che in estrema sintesi è la declinazione della democrazia nel lavoro e nei rapporti ad esso legati che stupido sarebbe non supporre ancora legati strettamente ai rapporti di forza reali…

poi se vogliamo credere che la democrazia sia solo l’esercizio del voto, crediamolo pure con l’ingenuità del cittadino che “beve” anche l’idea che destra e sinistra non esistano più, che tutto sia uguale o al massimo con differenze di dettaglio, che l’unico sistema economico possibile sia l’attuale ricapitolazione del capitalismo…personalmente magari suggerirei di interrogarsi se democrazia non sia anche quel complesso di diritti e doveri che, discendendo dal principio di democrazia contenuto nelle leggi costituzionali, informano e costituiscono l’ossatura di quella regolamentazione della vita umana data da leggi ordinarie, regolamenti ed infine quella speciale declinazione pratica delle leggi, dei principi e del buon senso che sono contenute in una contrattazione generale che oggi viene messa in discussione per accedere a forme di contrattazione locale od aziendale che tolgono potere contrattuale alle categorie lavorative, quindi alla forza dell’unione di fronte a problematiche comuni che riesce a stabilire regole valide per tutti, restituendola a piene mani a quei micro-rapporti di tipo personale nei quali il potere contrattuale del singolo lavoratore o del piccolo gruppo di lavoratori sconta l’isolamento della istanza nel ricatto implicito spesso contenuto più dai territori e dai loro contesti specifici che nelle “mire schiavistiche” di questo o quell’imprenditore che userebbe quei difficili contesti per “fare cassa” sul lavoro e sui suoi costi…

ma non è del particolare di una contrattazione in fieri sottratta (o che alcuni auspicano si sottragga) alla rappresentanza generale che i sindacati nazionali nel bene e nel male rappresentano per le istanze dei lavoratori che vorrei discutere, quanto della tendenza che origina proprio da una cultura di fondo che vede nella compressione dei diritti acquisiti una via di creazione di nuove postazioni di lavoro e che in buona sostanza non produce o produrrà affatto lavoro “buono”, quanto appunto un esercito di precari che trascinano ancor di più verso il basso, in virtù della loro presenza sul mercato del lavoro in postazioni contrattuali volatili ed al ribasso dei diritti, quel complesso di diritti generali del lavoro che è eretto a garanzia e sorretto dalle regole democratiche…

il paradosso che precarizzare chi lavora produce lavoro per chi oggi non lavora è appunto un paradosso scolastico e modellistico indimostrabile ed indimostrato, poiché qualsiasi esperienza insegna che un imprenditore assume se ha del lavoro da far fare, delle commesse o delle prospettive di produzione legate ad un ordinativo, e non perché l’assunzione ed il costo del lavoro siano diventati nel frattempo meno costosi e meno stabili nei vincoli che ne nascono…ed il punto critico è che in un periodo di crisi ciò che manca è l’occasione di produrre, poiché in assenza di consumi, non avrebbe senso produrre ciò che rimarrebbe invenduto…

allora verrebbe in mente a chiunque che il lavoro si crea solo con il mercato dei beni, quindi con l’occasione di una ripresa dei consumi che agisca da stimolo alla creazione di posti di lavoro attraverso la necessità del dover produrre di più per soddisfare la domanda creatasi, ma ciò non pare all’ordine dell’attenzione di alcuni decisori, preferendosi così una diminuzione di fatto del conto di costo per ogni bene prodotto, attraverso la contrazione salariale che è insita nella precarizazione, per aumentare una competitività che è solo nel costo finale del bene e che se sul mercato estero pare non tenere conto che la concorrenza parte comunque da costi minori del lavoro non raggiungibili qui se non attraverso una contrazione stessa della democrazia legata ai rapporti di lavoro ed al complesso generale delle leggi a tutela che metterebbe a rischio il concetto stesso di democrazia, quindi di fatto non inseguibile, sul mercato interno non tiene affatto conto del fatto che precarizzare non induce al consumo da parte dei lavoratori, semmai al mantenimento di quel livello minimo degli stessi consumi che poi “stagna” l’economia in un troppo facilmente prevedibili zero virgola…miopia della visione o ideologia pura?…suppongo entrambe…ma allora come si risolve il dilemma sulla creazione di nuovi posti di lavoro?…

facciamo allora un esempio concreto ed anche banale…se sulla scorta delle necessità invocate a motivo di precarizzazione (pardon, flessibilità) ad un lavoratore “nuovo” dai 700 euro, questi sono senz’altro pochi per qualsiasi livello accettabile di consumi, ma lo diventano soprattutto nella precarietà del non sapere per quanto tempo si potrà disporre di quella cifra continuativamente e così nella tendenza a risparmiare anche quelle poche decine di euro magari sottraibili alla sussistenza minima e disponibili per qualche consumo, il livello generale dei consumi non potrà beneficiare molto dell’apporto di quel lavoratore e dei suoi consumi, ma probabilmente, rendendo meno precario il lavoratore e così dandogli certezza nel tempo sulla dazione di quella cifra, magari costui, se necessita di un’auto, acquisterà un’auto anche con 150.000 rate, ma la acquisterà…e nel conto generale dei consumi quell’auto acquistata peserà nel conto generale…

stesso discorso ovviamente per il lavoratore che già lavora e che se oggi risparmia per far quadrare il bilancio, ma qualche piccola spesa extra riesce ancora a permettersela, in un quadro di maggiore precarietà del suo rapporto di lavoro (leggi licenziabilità dei dipendenti pubblici o minore tutela dal licenziamento di quelli privati) probabilmente tenderà a non effettuare neppure quelle piccole spese che oggi riesce ancora a permettersi in previsione magari di tempi ancor più duri…

un cane che si rincorre la coda, in realtà, un circolo depressivo in cui annega ogni movimentazione dei consumi che pure il maggior lavoro disponibile creerebbe e ciò non perché non sia utile creare quel nuovo lavoro per aumentare la platea dei consumatori, ma perché troppo insicuro consumare beni oltre quelli necessari alla pura sussistenza in un clima di insicurezza e di precarietà del rapporto di lavoro e dove il risparmio non assolve neppure più il ruolo di creatore di liquidità da immettere sul mercato del credito per stimolare l’impresa, quanto il più classico “mettere i soldi sotto il mattone”…e l’economia così non riparte affatto, richiudendosi semmai in cicli con un raggio sempre minore fino alla stagnazione definitiva…

è così del tutto evidente che un’azione di rilancio dell’economia, se diamo per ammesso e non concesso che il problema del paese sia solo nell’assenza di consumi o non dobbiamo considerare questa come l’epifenomeno di dinamiche partite molto tempo prima della stessa crisi con il sostanziale blocco dei salari che permane sin dagli inizi del millennio, sia prodromica ad ogni politica del lavoro ed altrettanto evidente che una politica del lavoro non si costruisce soltanto sulla normazione ed a maggior ragione su quella al ribasso dei diritti, quanto sull’effettiva, più concreta e più rapida corrispondenza tra economia e mercato del lavoro, nell’intreccio di riforme tributarie ragionate e coerenti al principio che tutti devono partecipare alle spese della cosa pubblica, quindi ad una seria ed efficace lotta all’evasione ed all’elusione fiscale anche nelle sue pieghe finora colpevolmente inesplorate, e fondate sul principio di una riduzione del debito pubblico attraverso azioni di riacquisto dello stesso o di de-finanziamento del suo ammontare principalmente consistenti nella sottrazione dello stesso al mercato del credito e nel rientro del suo ammontare nel portafogli del cittadino italiano…

ed ovviamente potrei continuare a lungo nell’elenco di ciò che occorre al rilancio del paese a cominciare dallo stimolo a quell’innovazione qualitativa che è il solo brand reale e vincente di competitività delle merci italiane nel mondo, quindi alla ricerca ed alle reti di ricerca, all’università, e via discorrendo…

si tratta di azioni però a medio-lungo respiro, dovendosi incrociare tra loro sinergie tra riforme effettive (e non annunciate a spot) della pubblica amministrazione, della giustizia, della spesa pubblica, della sanità, probabilmente della finanza pubblica, mentre il dramma del paese è ora, oggi, cioè in quali risposte si mettono in campo nell’immediato alla stagnazione che rischia di far esplodere socialmente il paese e che non saranno i tagli alla spesa pubblica ad evitare, semmai innescandole, quando nel taglio delle spese correnti agli italiani sarà finalmente chiaro che saranno toccate anche sanità e pensioni, azioni a medio-lungo periodo che occorre però programmare e mettere in campo già oggi, ragionando e condividendone passaggi e definizioni con tutti gli attori politici e sociali, ma che appunto non risolvono il dramma recitato al tempo indicativo presente di esodati, cassintegrati, disoccupati, giovani senza lavoro, pensionati al minimo e tutta la platea generale del disagio economico che diviene sociale e riassume contorni di classe che sembravano dimenticati, nella creazione di un sottoproletariato che è fondamentalmente stupido e folle voler considerare per ciò che alcuni vorrebbero diventasse, una folla crumira la cui fame spingerebbe sempre più in basso i diritti generali dei lavoratori e con questi dei cittadini, fino forse a mettere in dubbio l’essenza stessa della democrazia per come la conosciamo…

così nell’urgenza della ricerca di una soluzione alla mancanza di lavoro non occorre essere dei keynesiani puri per comprendere che l’unico attore in grado oggi di creare una massa d’urto finanziaria in grado di garantire occupazione in tempi rapidi è lo stato, quindi la finanza pubblica, individuando settori ad alta valenza occupazionale immediata ed impegno finanziario compatibile con il bilancio in cui investire non solo denari, ma anche e soprattutto uno spirito collaborativo che coinvolga le entità territoriali, comuni e regioni, quindi quelle più prossime alla conoscenza del bisogno effettivo e meno accecate dalla modellizzazione di colui che cerca un lavoro…

e se questi settori sono facilmente intuibili nel dissesto idrogeologico da doversi sanare con un piano straordinario e non con interventi spot, troppo spesso parziali ed incompleti, appare anche logico che la massa d’urto finanziaria debba essere adeguata all’onere di rimettere in sicurezza buona parte del paese ed alla necessità di creare attraverso questa una forte base occupazionale che crei nuova occupazione, chiaro è che senza un piano decennale (tale cioè da creare una relativa sicurezza e costanza nel lavoro) che impegni almeno 2 miliardi/anno e che coinvolga dal basso le regioni, impegnandole alla ricerca di attori locali da impegnare, tutto finirebbe per essere un pannicello caldo…

uguale discorso potrebbe farsi per un piano straordinario per il recupero del patrimonio storico-artistico, impegnando cifre analoghe in periodi analoghi, avendo ben a mente che i due campi di intervento sono strettamente connessi sia in termini di alto tasso di occupazione, sia in termini di valenza economica di ritorno in tempi brevi per il sistema paese, essendo nel primo caso, quello del ripristino idrogeologico, il territorio ed il suo paesaggio il fine ultimo che transita attraverso la messa in sicurezza, e quindi la fruibilità del territorio stesso anche e soprattutto a fini turistici, nel secondo caso, quello del recupero del patrimonio storico-artistico, fortissima la valenza culturale e così turistica che si innescherebbe, tali entrambe in grado di assicurare un pacchetto immediato di occupazione di primo livello, quella connessa direttamente ai lavori ed alla loro esecuzione magari in micro-lotti tra loro strettamente coordinati per consentire anche a piccole imprese di intervenire negli appalti (ricordo che maggiore è l’appalto, maggiori le garanzie fideiussorie da prestarsi, cosa questa che richiedendo patrimoni su cui stabilire queste garanzie, di fatto già esclude intraprese giovanili), e di secondo livello, quella cioè che si innescherebbe direttamente come conseguenza delle opere in termini di maggiore fruizione turistica…e francamente appare deludente che su questi due capitoli l’investimento del governo sia esistente, ma scarso, molto più scarso di quanto annunciato e di quanto auspicabile…

e continuando su questo ragionamento, l’efficientamento energetico e le ristrutturazioni edilizie con contribuzioni in conto detrazione fiscale sono settori in grado di smuovere ottime masse finanziarie private che ad oggi risultavano bloccate, ma in grado di immettere immediata liquidità nei settori interessati, con buone valenze occupazionali, a patto che si continuasse ad investire denari nelle detrazioni fiscali, costose certo, ma i cui ritorni sia in termini brevi (occupazione), che medio-lunghi (l’efficienza energetica diminuisce il conto energetico di un paese che deve importare molto più di quanto potrebbe con case e strutture edilizie meno energivore), denari che a quanto pare si preferisce spendere altrove e per altre esigenze…

ovviamente i campi di intervento per favorire l’occupazione sono tanti e non potrebbero certo esaurirsi in un mero elenco, ma sarei ugualmente noioso se tentassi di costruire qui, in un articolo, un compendio di politica del lavoro, ma ciò che vorrei sollecitare all’attenzione dei lettori è che in un periodo di crisi, la crisi si combatte con le sicurezze, quindi i diritti, e non con la volatilità degli stessi, condizione questa che appare social-darwiniana, poiché sembra suggerire che i forti sopravvivono ed i deboli periscono, condizione questa che non appartiene ad una democrazia, perché forse il grado di esistenza di una democrazia si evince anche e soprattutto dalla cura per gli ultimi, che – guarda caso – sono ultimi anche e soprattutto nel grado di sicurezza che circonda le loro vite…

è la sicurezza che fa da barriera alla crisi…

nei prossimi giorni ritornerò sull’argomento

miko somma