l’opportunità di una scissione del pd…

L’opportunità di una scissione del pd

L’evidenza politica di un blocco perdurante nella politica italiana ruota da oltre un anno intorno ad una figura detestabile, quella di un piccolo dittatore senza freni morali alle sue smodate ambizioni, e di un altrettanto detestabile partito gelatinoso i cui margini di appartenenza paiono essere del tutto slegati da qualsiasi formula di idealità. Stiamo ovviamente parlando di Matteo Renzi e di quello che sempre di più è il “suo” pd, rieditando nella sua gestione formule proprietarie che già furono di Silvio Berlusconi e diktat imposti attraverso una buona conoscenza delle alchimie di tifoseria, conformismo e paura di non essere riconfermati in ruolo che paiono essere le sue chiavi di volta nella costruzione di un partito plebiscitarista più a misura dei suoi progetti che di ciò che ci si attenderebbe dalla politica, il dialogo e la condivisione nella libera pluralità delle opinioni.

Il punto è che il vincitore delle primarie, quindi il segretario di un partito ha imposto se stesso come continuazione di una formula di governo ideata dall’ex presidente della repubblica Napolitano ed a lui particolarmente cara, sovvertendo ognuno dei principi che pure erano stati alla base di quella scelta operata all’indomani dello stallo in Parlamento derivante da una sostanziale non-vittoria del pd alle elezioni del febbraio 2013, la governabilità del paese nonostante i numeri a disposizione, e lo ha fatto nella maniera violenta che tutti ricordiamo. I numeri interni al pd gli davano ragione e Napolitano gli dette ragione, nominandolo premier e inaugurandosi così una stagione di sfregi al Parlamento che trasforma da un anno ogni giorno la forma di governo del paese in un premierato forte senza alcuna regola.

Un premierato forte che, in attesa della conclusione dell’iter legislativo di modifiche costituzionali che sembrano avere quell’unico fine ed in attesa di una legge elettorale costruita su misura degli interessi di confermare il Parlamento come “camera di assenso” ad una tendenza decretativa che diviene improprio strumento di legislazione, si fonda ad oggi sul ricatto che si opera su deputati e senatori pd attraverso il mantra recitato dalla parola unità, che declinata caso per caso molto più spesso è il significante della continuità delle singole postazioni che il significato di una comunanza di intenti.

La parola unità cioè è stata la foglia di fico utilizzata per coprire la sostanziale dittatura renziana nel partito e lenire in forma di auto-medicamento la sofferenza di una componente ancora determinante dello stesso, impropriamente definita sinistra dem, se non nei numeri dell’assemblea nazionale, nei numeri in Parlamento in rapporto alla continuazione sia delle riforme costituzionali, sia del percorso della legge elettorale dopo la rottura del Patto del Nazareno, In altri termini oggi quei deputati e senatori pd servono più che mai per garantire una sopravvivenza del governo, non avendo Renzi la matematica certezza di un rientro al suo talamo di un Berlusconi ormai alle prese con una guerra interna al suo partito che ne mina i numeri in soccorso di una maggioranza che sul nome del Presidente della Repubblica ha rotto lo stesso patto.

Ma Renzi, dopo l’elezione del Presidente, più che aver fatto tesoro degli eventi e giocare così a ricompattare il partito attraverso una riduzione del suo ingombrante peso decisionale, lasciando spazio alla rappresentanza parlamentare, spinge sempre più sull’accentuazione di questo tratto monocratico, determinando sui decreti delegati al cosiddetto jobs act una ulteriore forzatura che pone questa volta però la minoranza dem di fronte ad un bivio non più ignorabile, avendo di fatto “toccato” violentemente e spudoratamente un tratto genomico alla sinistra, una certa visione del mondo del lavoro che, pur limitata dalla mediazione, si era affermata nei lavori delle commissioni parlamentari e nelle indicazioni che ne erano scaturite da riportarsi o di cui tenere conto all’interno dello spazio aperto che la legge delega affidava ai decreti attuativi.

Renzi ancora una volta rompe ogni patto, ma questa volta pone la sinistra dem di fronte ad un bivio non eludibile, poiché appunto sul lavoro e sulla sua regolamentazione si gioca una partita di identità dai toni significativi, una visione del mondo non ricomponibile in alcun appello all’unità, e non certo un semplice tassello di legislazione da digerire in nome di un interesse ulteriore, sia esso la bieca propria sopravvivenza personale almeno fino al 2018 o un più generale interesse a fare il modo che sui numeri del pd “tenga” il paese.

Il bivio cioè è oggi evidente nella sua biforcazione alla sinistra dem, e che ci sia giunti attraverso la volontarietà della provocazione continua del premier e del suo governo per mettere fuori dal partito ogni opposizione interna e così inseguire liberamente un progetto di partito-nazione che si palesa sempre più come una grande democrazia cristiana dopo gli ingressi della pattuglia ex scelta civica, o attraverso la semplice boriosa pervicacia caratteriale di uno “spadroneggiatore” e dei suoi accoliti che non trova più limiti, il punto oggi è che alla sinistra dem non resta che lo strumento della scissione per praticare una sopravvivenza della stessa idea di sinistra moderata che sarebbe irresponsabile far perire nella melma interna ad un partito democratico che nell’idea di Renzi non è un partito di sinistra.

In altri termini non ci sono più margini di trattativa o di dialogo, potendosi semmai discutere solo di tempi e modi in cui operare una scissione senza danneggiare il paese.

E se ciò può avvenire in molti modi, praticando una scissione secca, ma ricomponibile in una partecipazione a seguire ad un governo che “ritorna” dal Presidente della Repubblica e che deriva ipse facto dai numeri sottratti alla maggioranza dalla stessa scissione e dalla volontà di ricomporre un nuovo quadro di governo, o attraverso scissioni “federate” che servano a ricomporre in primis quei quadri di dialogo e partecipazione a sinistra che geneticamente le sono necessari per potersi ancora definire tale, il nuovo punto di gravità operativa ed agibilità politica che ne deriverebbe sarebbe assicurato proprio dai numeri parlamentari che oggi questa scissione può sottrarre al governo, così da determinare o una necessità per Renzi di salvare il suo governo con aperture fattuali a sinistra o di svelare un tratto di inconciliabilità genetica con la sinistra di cui il Presidente della Repubblica non potrebbe non tenere di conto nell’analisi della continuità di uno schema di governabilità del paese che non è stata opera sua ed il cui giudizio potrebbe non essere coincidente con la “necessità” individuata dal suo predecessore.

In sostanza che una scissione possa condizionare Renzi nella sua opera di governo, limandone le asperità ultra-liberiste e la relativa demagogia con la necessità di trovare sostegni reali e programmatici a sinistra, o che si mandi in crisi lo schema delle larghe intese, forse ritornando ad un voto che oggi più che mai appare necessario per ridare base di volontà popolare espressa in Parlamento al terzo governo consecutivo non direttamente sostanziato dalla stessa volontà popolare, una scissione nel pd è oggi più che mai necessaria per impedire una deriva liberista e semi-autoritaria che appare sempre più chiara.

Praticarla salva il paese, costruirla nelle sue basi teoriche aiuta a ritrovare ragioni che non siano più l’odiosa “necessità” che ha generato i mostri democratici di Matteo Renzi e delle sue scalate senza numeri elettorali, ma la sostanziale volontà di ricominciare a chiedersi insieme non se abbia senso ancora una sinistra nel XXI secolo, ma come e dove una sinistra nuova serve a dare un senso a questo secolo in questo paese, offrendo una opportunità di fuoriuscire dai pensieri unici.

E serve farlo ora, a Roma o nei territori la si praticherà di fatto con la costruzione di altre soggettività politiche.

Miko Somma