riflessioni sparse sul jobatta e sui 70.000 nuovi contratti…

avrete notato che sono diversi giorni che non pubblico molto sul blog, ma questo non dipende affatto dalla mancanza di argomenti o notizie da commentare e dissezionare alla ricerca della non banale e spesso non facile a distinguersi differenza tra significante (ciò che si dà ad intendere o che appare come significato) e significato, ma per semplice mancanza di tempo utile a causa di numerosi impegni personali…

cerchiamo di rimediare, ma devo premettere però ad incipit del seguente articolo che le mie convinzioni in economia divergono notevolmente dal luogo comune che crescita equivalga necessariamente a ricchezza diffusa, che la disoccupazione la si possa leggere solo dagli indici istat che prevedono che anche un solo giorno di lavoro in un dato periodo temporale fornisca la qualifica di occupato, che il lavoro si misuri solo in termini di produzione, che lo stato sia un’azienda o amenità del genere, etc etc etc…allora facciamo finta che le mie convinzioni in tema di economia siano più o meno comuni…

il punto è che “pare” che si sia aperta una nuova stagione all’insegna del jobs act (dai, chiamiamolo per comodità semi-ludica jobatta), che si sia cioè con alcuni provvedimenti di legge tuttavia molto contestati “aperta una finestra” in una stanza rimasta chiusa da troppo tempo, il complesso del mercato del lavoro e delle sue regole, e si sia finalmente ripreso a respirare con l’annuncio di quegli oltre 70.000 posti di lavoro che “avrebbero” invertito una tendenza proprio grazie alla decontribuzione approvata in legge di stabilità prima ed al jobatta poi, salvo poi scoprire il giorno dopo che i dati istat recitano altro e recitano che la disoccupazione continua ad aumentare in un clima economico in cui se segnali di ripresa di fiducia ci sono, ancora mancano però segnali netti e concreti di una ripresa economica vera e propria…così qualcosa non quadra all’osservatore medio che spesso rimane interdetto e si trova impantanato al bivio tra un’incredulità preconcetta (alla grillina o alla salvini/meloni per intenderci) od un’estasi fideistica molto “pompata” da quei media “appecorati” sui quali renzi costruisce le sue fortune comunicative che recitano di una italia che si costruisce più sugli # che prefigurano realtà immaginifiche che sulla “reale realtà” che giudica l’efficacia dei provvedimenti sui risultati concreti…

quel bivio cioè a cui sembrano voler portare le rispettive propagande, quella governista sfacciatamente ottimista anche di fronte a dati sul lavoro e sull’economia non proprio esaltanti in un quadro di ripresa che altrove galoppa o quanto meno si è rimessa decisamente in moto, e quella definibile come anti-governista e che ovviamente nel suo cliché deve recitare come cassandra di immani disastri irrimediabili, dell’invasione delle cavallette ed altre calamità  bibliche, forse perché fa comodo ad entrambe le parti avere molto più “cittadini tifosi” che cittadini convinti, per chi osserva lucidamente la realtà più che un bivio è invece un punto della geografia della comunicazione politica e niente di più…

perché se si immagina che quegli oltre 70.000 posti di lavoro siano nuovi posti di lavoro si sta lavorando nel campo dell’immaginifico o dell’onirico – quei numeri sono relativi a contratti a tempo determinato, quindi già esistenti, che grazie prima alla decontribuzione a cui accennavo, poi al jobatta ed al cosiddetto contratto a tutele crescenti, sono ora diventati appunto contratti a tempo indeterminato – soprattutto se poi li si mette in relazione alla doccia fredda dell’istat che, lavorando su dati reali, ci dice che la disoccupazione continua a falcidiare il mercato del lavoro nel paese, nell’ovvietà della crisi che continua…

e sia chiaro che trasformare in contratti stabili, quei contratti prima a tempo determinato, non mi pare affatto una cosa negativa, quindi non considero affatto marginale quella stabilità che in tempi rapidi significa l’ingresso di qualche decina di migliaia di lavoratori in quel recinto di maggiore sicurezza che spinge non solo verso maggiori consumi, ma più sostanziosamente verso progetti familiari che proprio grazie alla sicurezza acquisita possono trasformarsi in mutui per l’acquisto di una casa e probabilmente in figli, bene troppo prezioso per un paese in detanalità per non comprendere che il declino sociale lo si combatte, in questo sistema economico, mettendo al mondo dei cittadini italiani, ma occorre allora essere più chiari di quanto le propagande non siano…

la crisi continua, nonostante la propaganda renziana strombazzi i segnali di fiducia percepiti dagli indici che li misurano, perché gli ordinativi dell’industria continuano a registrare flessioni ed ovviamente a produrre disoccupazione, e qui non vorrei essere considerato un “gufo”, come inopinatamente proprio quella odiosa propaganda renziana tende a trasformare chiunque esprima dissenso motivato…

e la crisi continua perché sostanzialmente la domanda interna del paese rimane ancora bloccata, cioè i consumi interni sono fermi, nonostante i settori che producono export abbiano ripreso a tirare, in poche parole il paese funziona come paese manifatturiero, ma i beni prodotti sono richiesti da altri mercati che quello nazionale, dovendosi così registrare delle buone attività per le imprese che lavorano molto sull’export e sulla innovazione tecnologica, che infatti sono quelle che trasformano gli oltre 70.000 contratti da tempo determinato ad indeterminato, ma sostanziale stasi, se non peggioramento, per tutti i settori che hanno nel mercato interno il “core” della loro attività di produzione…

tutti i dati sono infatti concordi sul fatto che i settori produttivi che meno hanno sofferto della crisi, quindi meno hanno generato disoccupazione come conseguenza della contrazione degli ordinativi, sono proprio quelli che producevano per l’export, in barba così anche a quel differenziale di competitività che molti stolti e forse ipocriti ed interessati osservatori hanno stigmatizzato come il fattore più negativo e sul quale occorreva intervenire rendendo più competitive le imprese soprattutto attraverso la contrazione reale sia del monte salari (quanto cioè una impresa mette a bilancio per le spese del personale), sia del complesso dei diritti dei lavoratori, piuttosto che su una riorganizzazione funzionale di altri rilevanti campi di spesa per le stesse imprese (costo dell’energia, minore burocrazia impositiva, accesso al know-how, maggiore, migliore e più rapido accesso al credito)…

si è cioè preferito intervenire sulla pelle dei lavoratori, contraendo di fatto i salari ed i diritti, per rendere minore il costo per unità prodotta, che intervenire su settori certo più complessi (si pensi al costo dell’energia), più soggetti a pressioni lobbystiche (si pensi alle banche) e di cui spesso la decisionalità era stata delocalizzata in altra sede, quella europea con tutti i suoi vincoli, ma anche con quel suo concetto liberista e bilancista dell’economia che si rifiuta di comprendere che l’economia non vive di vita propria nei suoi numeri, ma vive come elemento funzionale alla società, soggetta ad valutazione e ad un indirizzo politico che la “usa” in campo sociale come elemento di riduzione degli squilibri…e dovrebbe essere chiaro quanto già questo ultimo concetto sia in contrasto con le perduranti visioni liberal che vedono nel mercato e nei suoi “aggiustamenti” darwiniani l’unico fattore di riequilibrio ammissibile…

ma non andiamo troppo lontano nell’analisi, restando al principale epifenomeno della crisi italiana, la disoccupazione al 12,7%, un evento estremo poiché tali numeri producono non solo sofferenza sociale ed economica, ma anche minori consumi che si riflettono sull’andamento complessivo dell’economia, generando minore gettito fiscale e maggiori oneri di assistenza per le casse pubbliche…e come la si combatte, con il jobatta e con la sostanziale demolizione del complesso dei diritti del lavoro che in esso ed anche prima di esso si è messo in campo?…personalmente continuo a pensare che il “metodo” scelto sia ideologia e non certo politica attiva…

perché se la logica suggerirebbe che è la sicurezza dei propri diritti a generare fiducia e propensione alla spesa ed all’investimento in chi già lavora, con ciò generando evidenti miglioramenti del ciclo economico (maggiori consumi) che non mancherebbero di produrre maggiore occupazione (maggiore occupazione per rispondere alla maggiore domanda che implica ovvia e maggiore produzione), perché si è preferito contrarre di fatto salari e diritti, adducendo a scusa la creazione di nuova occupazione, soprattutto giovanile, come pure recita il jobatta, se non per una pura scelta ideologica di stampo liberista?…

con un esempio banale potrei dire che se da un lato appare logico che fatto 100 il numero delle persone che hanno un lavoro, logica suggerisce che per arrivare a 110 occorre “aprire” il mercato e fare in modo che sia l’economia ed il sociale a creare i nuovi posti di lavoro, meno logico appare che per creare quegli ulteriori posti di lavoro si debba contrarre il complesso dei diritti generali, facendo entrare al lavoro quei 10 grazie ai risparmi operati sugli originari 100, con ciò generandosi una dinamica contrattiva che non lega più il numero dei posti di lavoro alla dinamica del mercato, ma alla necessità che costoro lavorino per creare così più mercato…

ma se tutti i 110 alla fine hanno meno sicurezze, il mercato complessivo che si crea è decisamente minore, perché minore è la capacità di spesa di tutti i 110, mentre probabilmente maggiore propensione al consumo, quindi maggiore mercato lo si otterrebbe con 100 persone che consumano a regime normale, dando così modo all’economia stessa di produrre i restanti 10 posti di lavoro…

in sostanza, secondo l’analisi che produco, se il problema economico del paese è più nel mercato interno, indebolito strutturalmente dalla reale e progressiva diminuzione del potere di acquisto in atto da oltre 10 anni e da “vizi” storici sul debito pubblico che genera sottrazione di risorse (gli interessi) da reinvestire nell’ammodernamento e nelle politiche sociali, che in quello legato all’export, a lume di ragione il problema della competitività, a cui si fa risalire la debolezza strutturale che da noi produce una crisi più ampia che altrove, non è certo legato alla minore capacità di produrre competitività (facile osservare che se l’export funziona vuol dire che le merci italiane convengono, quindi sono competitive nel rapporto qualità/prezzo), ma alla oggettiva mancanza di domanda interna od alla sua contrazione…

contrazione o mancanza che, per dirla in modo banale, spingendo ad acquisti a minor costo, favorisce prodotti importati e prodotti con minori costi per ora lavorata, con ciò spingendo le aziende italiane a dover competere con mercati a minori diritti lavorativi e salariali proprio “tagliando” la voce costo del lavoro…

un circolo vizioso in cui il paese si è ficcato sin dalla fine degli anno 90 dello scorso secolo, quando sull’onda degli entusiasmi facili della globalizzazione si è preferito, soprattutto per colpe delle classi imprenditoriali, o finanziarizzarsi, cedendo alle lusinghe di facili guadagni, poi rivelatisi tossici, o, piuttosto che lavorare a migliorare con investimenti sulla ricerca, la qualità del prodotto, mettersi, senza alcun costoso investimento da dover mettere in cantiere, a competere in fasce di prodotto con paesi verso i quali l’unico margine competitivo era dato dal minore costo del lavoro e dalla minore tutela ambientale e delle norme di sicurezza del prodotto, con ciò generando nel tempo richieste verso le classi politiche di procedere proprio in tal senso, eliminare il differenziale competitivo proprio sui salari/diritti e sulle norme ambientali (leggi jobatta e sblocca-italia)…

così se più che ingenerare cicli virtuosi di riforma dell’economia, tarando leggi puntuali sulla base dell’obiettivo economico e sociale che si intende perseguire (maggior lavoro, maggior sicurezza dei cittadini, quindi maggiore economia) in un contesto di diritto generalizzato ed universale di tutti gli attori economici in campo (impresa, lavoratori, consumatori), ci si affida solo al fumus ideologico di leggi che “dovrebbero” generare effetti di ciclo economico ed occupazionale perché contraggono i diritti dei lavoratori, che così diventano quasi beni strumentali delle aziende e non soggetti di diritto in un contesto di dignità che il lavoro deve assumere per non essere una forma moderna di schiavitù e di cottimo, ci si sta affidando al campo indimostrabile che minori regole e quindi maggiore arbitrio da parte dei datori di lavoro (che, come visto, sbagliano spesso i loro obiettivi) sia l’unica ricetta possibile per uscire dal pantano in cui ancora versa il paese…

così non meravigliatevi del fatto che si esalta questo mirabolante risultato (a parte l’ironia, però il dato è positivo), mentre si tende a far spallucce sui dati ista che invece sembrano dichiarare ben altro…sono certo misurazioni diverse, ma un dato credo emerga con una certa chiarezza…qualcuno a palazzo chigi (o forse – chissà – altrove) è convinto che per creare lavoro occorra comprimere i diritti di chi già lavora, che gli unici attori della ripresa siano le imprese che occorre aiutare, fornendogli libero arbitrio, che un paese debba accompagnare con politiche attive e passive solo i desiderata di chi fa impresa e non invece ascoltare e mettere in armonia differenti punti di vista che dovrebbero partire da un principio certo (ed evidentemente non pacifico), quello che la posizione dominante nel rapporto di lavoro sia proprio quella del datore di lavoro, ma – attenzione – non del piccolo datore di lavoro, quello che sta a contatto e lavora con i propri dipendenti, considerandoli spesso una parte della propria famiglia – quanto piuttosto quel mondo datoriale di marca confindustriale, quindi in sostanza in grandi gruppi…

perché pare proprio che questo jobatta sia stato costruito per loro e per le loro necessità di rendere funzionale la presenza dei lavoratori al prodotto ed alle dinamiche di vendita dello stesso, precarizzando così non tanto il contratto in quanto tale, quanto le regole stesse che dovrebbero “legare” il lavoratore all’azienda e non al manufatto o servizio che essa produce…

e sono molto comprensibili, ma dal solo punto di vista datoriale, sono quella flessibilità in entrata che diviene decontribuzione, quindi vantaggio fiscale per l’azienda, e quella flessibilità in uscita di cui l’abolizione dell’art. 18 e la parte del jobatta dedicata ai licenziamenti collettivi (che non sono stati cassati, come pure chiedeva la minoranza pd e non solo) sono parte fondamentale, prefigurandosi da un lato la possibilità di espellere un lavoratore o più lavoratori (fino a tutto il personale) per qualsiasi causa, anche ingiusta e discriminante (che so, attività sindacale sul luogo di lavoro o convinzioni politiche o altro, in una sequenza che lascia molto spazio all’arbitrio) cavandosela con un risarcimento più che risibile nel caso il lavoratore abbia un’età tale da non potersi prefigurare un altro suo rientro nel mercato del lavoro, dall’altro la possibilità concreta che si possano licenziare in tronco i lavoratori assunti ex ante ed ai quali non si applica la previsione del jobatta e riassumere con il meno garantito lavoro a tutele crescenti…

a tutto ciò si deve ovviamente aggiungere che la minore tutela sindacale nei luoghi di lavoro, che arriva sino all’esclusione del contratto nazionale per delegare a forme contrattuali locali dove è consentito ai soli sindacati che hanno firmato i contratti la formazione di nuclei sindacali attivi, non fa altro che precarizzare ulteriormente un rapporto di lavoro che si sbilancia paurosamente dalla parte datoriale…

ma fin qui è la storia di questa riforma, i cui effetti misureremo nel tempo, visto che in ogni caso e nonostante gli entusiasmi di un poletti che si sbilancia sino ad affermare che saranno creati fino ad un milione di posti lavoro (nostalgie dell’uomo del burlesque e delle sue promesse elettorali?), il dato dei 70.000 posti non riguarda affatto la creazione di nuovo lavoro…il vero dato rimane l’alea e l’incertezza che da oggi pervade il mercato del lavoro e che, nella concreta possibilità per chiunque di perderlo in qualsiasi momento e senza possibilità di reintegro, se letto a titolo di esempio come deterrente alla concessione di mutui per l’acquisto di una casa porterà ad un ulteriore peggioramento delle condizioni di sicurezza generale nel futuro con tutte le conseguenze facilmente immaginabili nella formazione di nuovi nuclei familiari, il vero motore dei consumi interni…

può essere allora che ai proponenti non interessi affatto che il mercato interno sia stimolato e magari che interessi molto più creare uno stato di precarietà esistenziale crescente che aiuti a digerire stati di “funzionalizzazione” della classe lavoratrice italiana ad economie più forti, come quella tedesca, sulla scorta di quanto accade in messico nell’area di ciudad juarez, un’area speciale nelle more dell’accordo commerciale nafta tra canada, usa e messico che in deroga ad ogni legislazione nazionale è di fatto al servizio dell’economia americana, offrendo manifattura ad un costo orario molto inferiore a quanto non in vigore nell’economia usa…

è ovviamente una ipotesi, ma non del tutto peregrina, sia in una visione di un export di secondo livello (merci prodotte in licenza per mercati esteri), sia in una visione di un mercato interno sempre più in concorrenza con le merci cinesi ed asiatiche, quindi bisognoso di confronto concorrenziale sui fattori di composizione del prezzo, che, come abbiamo visto, pigiano quasi del tutto su salario e diritti…

e che vi sia volontà di creazione di fasce meno protette di lavoro viene indicato chiaramente nel progetto assistenziale che segue il jobatta, sulla falsariga del modello tedesco e dei mini-jobs, lavori cioè in appoggio ad un assegno previdenziale a scarsissima remunerazione, ma che tuttavia non si possono rifiutare, pena la perdita dell’assegno stesso, il cui valore causale sta proprio nella creazione di un esercito coatto di bisognosi che non possono dire di no ad alcun lavoro, per quanto poco pagato sia, sconfinando così nel crudele modello assistenziale americano…

e credo che tutto ciò non sia affatto nelle corde del modello culturale italiano e mediterraneo in generale, dove ai più appare chiaro il valore della coesione sociale come collante della stessa democrazia…

in sostanza, il modello italiano, lungi dal necessitare di ulteriori precarizzazioni usate come grimaldello retorico per convincere i cittadini della necessità di accettare restrizioni, nel più perfetto stile renziano di deviazione del senso comune a suon di artifizi propagandistici, necessita invece di tutele e di sicurezze per funzionare e per riprendere appieno sia il suo valore produttivo in termini assoluti, sia la sua mission produttiva di qualità, perché quel valore produttivo e quella mission sono intrinsecamente legati proprio ad un modello sociale fondato sulla sicurezza del vivere e sulla contiguità tra le generazioni che è notorio da decenni un famoso piano di rinascita democratico aveva previsto di far deflagrare per “cambiare il paese”…che sia questa #lavoltabuona?…

miko somma

p.s. mi vorrete ovviamente perdonare i possibili errori dattilografici che la solita fretta di scrivere tutto di getto inevitabilmente produce…