globalizzazione, istruzioni ragionate per la fuoriuscita (parte I)

E visto che ormai, come illustrato in un precedente articolo, http://www.comitatonooilpotenza.com/?p=13317 , è possibile individuare come effetto causale per la catalizzazione di vasti movimenti di opinione che si sono e si stanno coalizzando contro le forme di status quo politico-economico (votando trump negli usa e per la brexit nel regno unito, solo per citarne alcuni), nelle storture sperequanti dell’attuale sistema economico mondiale, meglio conosciuto come globalizzazione, parliamo allora di globalizzazione e di come poterne venir fuori.

Con il termine globalizzazione si indica un fenomeno economico per cui tutto il mondo dovrebbe essere un unico mercato entro il quale commerciare beni materiali/immateriali e servizi secondo il meccanismo della domanda e dell’offerta (libero mercato) assunto a canone auto-riparativo degli squilibri indotti (e qui un collegamento con la teoria social-darwiniana diviene lampante).

Pur in teoria da sempre esistente (non esiste di fatto una sola società umana che non abbia, nel corso della propria storia, avuto rapporti commerciali con altre società), il termine globalizzazione è adoperato, a partire dagli anni ’90 dello scorso secolo, per indicare una ampia e diversificata gamma di fenomeni connessi con una crescita dell’integrazione economica, ma anche sociale e culturale, tra le diverse aree del mondo, attraverso forme di unificazione dei mercati a livello mondiale consentite e supportate dalla diffusione di innovazioni nel campo dell’informatica di base e dell’informatica applicata alla comunicazione (internet in particolar modo), che hanno spinto verso modelli culturali, di consumo e di produzione sempre più uniformi e convergenti verso un modello unico.

Modello unico che se per il mondo della produzione, ed in particolar modo delle multinazionali (che pur hanno mutato le proprie originarie vocazioni in tal senso), rappresenta una a-segmentazione del mercato che aiuta nei processi produttivi a minimizzare i costi, massimizzando i profitti (a gusti unici corrisponderanno prodotti unici per tutti i mercati), tuttavia presenta molti aspetti pericolosi, sia socio-culturali (standardizzazione dei comportamenti antropologico-culturali), che produttivi (danni delle specificità produttive locali), che non possono essere più sottovalutati come finora il pensiero mainstream sembra abbia più o meno colpevolmente fatto in nome di un presunto benessere che si stava estendendo anche a popolazioni che finora ne erano state escluse.

Se da un lato, quindi, si assiste ad una sempre maggiore e progressiva omogeneità nei bisogni (consumo standardizzati) che le imprese sono in grado di sfruttare con rilevanti economie di scala nella produzione, distribuzione e marketing dei prodotti, praticando spesso politiche dei prezzi per penetrare in tutti i mercati e vendere pertanto lo stesso bene in tutto il mondo con strategie uniformi (e come già accennato ciò ha mutato lo stesso comportamento delle multinazionali che fino a pochi anni fa tendevano ad assecondare ogni varietà di condizioni presenti nei paesi in cui operavano), dall’altro tutto ciò sembra aver condotto ad una scomparsa delle tradizionali differenze tra i gusti dei consumatori a livello nazionale o regionale (vedremo però come ciò sia contrastato da ingenti forme di rinascita delle tipicità e delle tradizioni più o meno consapevolmente resistenziali rispetto al fenomeno globalizzazione).

Il termine globalizzazione è usato così come sinonimo di liberalizzazione, per indicare forme di progressiva riduzione, a livello mondiale tra i paesi aderenti alle organizzazioni mondiali del commercio, degli ostacoli alla libera circolazione delle merci e dei capitali, ma ovviamente questo, è solo un aspetto di un fenomeno molto più complesso, e che comprende una tendenza al predominio sull’economia mondiale di grandi imprese multinazionali, operanti secondo prospettive ormai quasi del tutto autonome dai singoli stati, ed una sempre più crescente influenza di queste sulle scelte di politica economica sia dei governi, sia delle istituzioni finanziarie internazionali, nate dagli accordi di Bretton Wood (FMI, Banca Mondiale, WTO) o istituitesi in seguito sia in maniera formale (BCE, G7, G20, etc.), sia in maniera informale, spesso in forma lobbystica o come gruppi di studio e pressione (trilateral, gruppo bildeberg, world economic forum, etc.).

In un quadro per due decenni ed oltre caratterizzato dal progressivo aumento d’integrazione economica e finanziaria tra i paesi, ma anche dalla persistenza (quando non purtroppo dall’aggravamento) degli squilibri fra questi e delle differenti classi reddituali al proprio interno, in sostanza tale fenomeno sembra l’epilogo di processi di integrazione internazionale già sviluppatisi nel 19° sec., interrotti dalle guerre mondiali e dalla grande depressione, e poi ripresi nella seconda metà del ‘900, ma con la massiva accelerazione impressagli dal progresso tecnologico sempre più veloce che ha ridimensionato le barriere naturali agli scambi e alle comunicazioni, contribuendo alla forte crescita registrata dal commercio internazionale e dagli investimenti diretti all’estero (attività questa tipica, come vedremo delle multinazionali), nella tendenza alla riduzione degli ostacoli di ordine tariffario, fiscale o normativo, alla circolazione di merci e capitali che ha coinvolto anche paesi, ex socialisti o in via di sviluppo, che in passato avevano adottato politiche più restrittive, quando non di chiusura.

E come già accennato, ciò è avvenuto con la diffusione capillare delle tecnologie informatiche che hanno favorito sia i processi di delocalizzazione delle imprese e lo sviluppo di reti di produzione e di scambio sempre meno condizionate dalle distanze geografiche, alimentando fenomeni di concentrazione su scala mondiale, sia un’espansione esponenziale della finanza internazionale, tanto che il valore delle transazioni giornaliere sui mercati valutari è divenuto superiore allo stock di riserve valutarie esistenti.

Ora, se in apparenza il fenomeno globalizzazione sembra aver contribuito ad una fuoriuscita dalla povertà di ampie fasce di popolazione mondiale, ciò non ha corrisposto ad una crescita organica e ben distribuita a livello mondiale (tale quindi da essere inquadrabile come fenomeno generale di arricchimento globale), avendo soprattutto riguardato alcune fasce sociali in grandi paesi emergenti (Cina ed India, ma anche Brasile e Russia, ed in misura quantitativamente minore molti altri paesi), e avendo in qualche modo presentato il conto di tale ricchezza a molti paesi poveri, la cui forbice reddituale verso i paesi ricchi, ma anche verso i grandi paesi in via di sviluppo, sembra essersi ulteriormente allargata, ed a molte classi sociali all’interno dei paesi interessati a questo sviluppo, con conseguenze che nel primo caso hanno dato origine a fenomeni migratori sempre più imponenti ed incontrollabili (spesso aggravati da condizioni ambientali peggiorate dai cambiamenti climatici che il sistema globalizzazione sembra abbia accelerato nell’impennata di consumo di risorse favorito anche dalle deregolazione e sostanzialmente dal ricatto economico verso le economie dei paesi produttori) e probabilmente alla nascita di fenomeni terroristici sempre più identitari nella loro maschera religiosa, nel secondo a condizioni di nuovi conflitti di classe svincolati da ogni forma organizzativa e volta per volta e sempre più spesso, coagulantisi in specifiche condizioni politiche antagoniste al sistema dei poteri politici dominanti (abbiamo accennato a Trump e Brexit, ma l’elenco rischia di essere anche più lungo in mancanza di interventi di correzione delle dinamiche di impoverimento di alcune classi reddituali già molto provate dalla crisi internazionale).

Ma veniamo ad alcuni aspetti specifici esercitati della globalizzazione in campo economico, specificando che si tratta di un fenomeno complesso che opera su più livelli contemporaneamente:

1.    l’abolizione delle barriere commerciali, ovvero l’aumento dei volumi del commercio internazionale e la crescente integrazione economica tra paesi;

L’indice più comunemente usato per valutare il grado d’integrazione dell’economia mondiale è il rapporto fra esportazioni e PIL nei diversi paesi ed anche se nel commercio internazionale i paesi sviluppati hanno mantenuto un ruolo ed un peso preponderante, dalla fine degli anni ’90 dello scorso secolo si è manifestata una tendenza alla crescita del ruolo dei paesi in via di sviluppo, particolarmente di quelli definiti come le “tigri asiatiche” (i quattro dragoni, Corea del sud, Singapore, Taiwan, Hong Kong, e le piccole tigri, Malaysia, Thailandia, Indonesia, Filippine) e come BRIC (Brasile, Russia, India, Cina), paesi che hanno registrato tassi di incremento davvero notevoli del PIL nazionale.

Ma già a partire dagli anni ‘80 si era assistito all’espansione di aree di integrazione regionale, come l’UE in Europa o il NAFTA in Nord-America, che, se da un lato accentuavano i processi di liberalizzazione degli scambi tra i paesi membri, dall’altro, pur potendo favorire il mantenimento di barriere commerciali nei confronti degli altri stati, sembravano cedere il passo alla penetrazione commerciale da paesi fuori da quegli ambiti, con processi di integrazione commerciale che hanno in ogni caso continuato a estendersi, sia per l’adesione “ideologica”, condizionata dalle lobbies di questi paesi, alle politiche di liberalizzazione degli scambi con l’estero, sia per la riduzione dei costi di telecomunicazioni e trasporti indotta dall’incremento tecnologico che, in contemporanea con i bassi livelli salariali dei paesi produttori, rendevano sempre più competitive le loro merci, sia per gli investimenti non controllati dai rispettivi governi da parte di imprese dei paesi industrializzati nei paesi in via di sviluppo (delocalizzazioni), atti a mantenere una penetrazione commerciale che giovava ai propri bilanci, a quelli dei paesi ospiti, ma danneggiava le economie produttive dei paesi di origine.

In sostanza, nel mentre aumentava il tasso di occupazione nei paesi produttori, si è assistito a fenomeni di penetrazione massiccia di merci e servizi dall’estero verso l’interno delle economie nazionali che hanno mutato molti assetti produttivi di paesi a forte vocazione manifatturiera (è il caso dell’Italia), incidendo notevolmente sull’occupazione rivolta al soddisfacimento della domanda interna, sostituita nell’offerta da merci immesse sul mercato a prezzi inferiori a quelli praticabili all’interno per una somma di fattori costo del lavoro-costo produttivi-costi ambientali nettamente a favore delle merci estere (per rimanere in tema di esempi comprensibili, è il caso delle merci cinesi), tutto ciò generando a livello mondiale uno spostamento delle quote di reddito da occupazione dai paesi ricchi in favore di alcuni paesi in via di sviluppo, reddito a cui viene sottratto però in termini assoluti una quota sostanziosa di maggiori profitti per le aziende multinazionali produttrici (e non casualmente assistiamo a fenomeni di arricchimento e concentrazione massiccia di risorse finanziarie nelle mani di un ristretto gruppo di supermiliardari), spostamento che nel conto finale non genera così un trasferimento geografico della ricchezza da occupazione e produzione equivalente alla sottrazione operatasi, ma solo maggiori profitti corrispondenti al minor costo del lavoro nei paesi emergenti rispetto ai paesi più ricchi.

Ed ovviamente il maggior reddito disponibile per i lavoratori, pur limato nel suo trasferimento, nei paesi emergenti genera domanda che sono gli stessi paesi emergenti a soddisfare nei segmenti bassi, limitandosi solo ai settori commerciali di punta la richiesta da mercati produttivi a più alta qualità e costo (proseguendo con l’esempio, se all’Italia viene sottratto reddito da occupazione e ricchezza per l’arrivo di merci cinesi, i lavoratori cinesi avranno maggiore disponibilità finanziaria per i consumi che vengono però soddisfatti dal mercato interno, tranne piccole quote che, per settori a più alto reddito, si concentrano su prodotti brandizzati (un certo made in Italy) e non sulla produzione generale.

Ossia, sfatando un primo mito, quello dell’aumento del reddito disponibile in rapporto all’aumentare della ricchezza globale, l’aumento del commercio mondiale e dei volumi finanziari conseguenti non genera maggior reddito disponibile per i lavoratori, ma corrisponde ad un aumento sostanziale dei profitti dei produttori, profitti che si fondano più che sull’aumento in sé della produzione (quindi del profitto da produzione) sulla sottrazione di risorse finanziarie alle classi lavoratrici per unità di prodotto conseguente alle delocalizzazioni verso paesi a minor costo del lavoro e meno intensa protezione ambientale dei processi produttivi”.    

 

2.    la crescente mobilità internazionale dei capitali e il processo di finanziarizzazione dell’economia;

La libertà di movimento dei capitali raggiunta alla fine del 20° secolo è paragonabile a quella degli anni precedenti la prima guerra mondiale, quando si era realizzato un alto grado di integrazione dei mercati finanziari (nel 1913 i rapporti tra i flussi totali di capitali e il commercio o la produzione mondiale erano superiori a quelli degli anni ’70, pur nell’evidenza del contesto storico differente e di alcuni fattori tecnologici di sviluppo che condizionano tale rapporto) e se tra la seconda guerra mondiale e gli anni ‘60 i più ampi flussi di investimenti esteri diretti (quelli operati dalle multinazionali), per lo più indirizzati verso l’industria manifatturiera e il settore petrolifero, provenivano dagli Stati Uniti, divenuti in quel periodo il maggiore esportatore netto di capitali, e nel corso degli anni ‘70 il Giappone assume un ruolo di rilievo, fino diventare nel decennio successivo la principale fonte mondiali sia di capitali speculativi a breve termine sia di investimenti diretti, oggi tale ruolo è maggiormente distribuito e coinvolge non solo i paesi tradizionalmente avanzati, ma sempre più paesi emergenti come la Cina, l’India e la Russia con le loro multinazionali.

Ovvero la massa di capitali da investimento in movimento è aumentata, apparendo così un sostanziale indice di maggiore ricchezza da fattori produttivi che il fenomeno globalizzazione sembra aver prodotto, ma senza un’analisi del debito e quindi della componente finanziaria ad esso legata (ciò riguarda anche il settore dell’investimento finanziario diretto, ovvero quello legato alle transazioni finanziarie per acquisizioni di azioni e titoli), ciò non si riesce a comprendere nella sua essenza pratica e reale.

A partire dagli anni ‘80 gli Stati Uniti sono stati caratterizzati da forti deficit della bilancia commerciale e da cospicue importazioni nette di capitali (con l’accumulo quindi di un grande debito estero). A partire dagli anni 1980, inoltre, grazie anche allo sviluppo delle tecnologie informatiche e delle telecomunicazioni (e alle politiche di liberalizzazione dei mercati finanziari e di permesso alle banche commerciali di compiere operazioni tipiche delle banche d’affari, il superamento del Glass-Steagal Act voluto da Clinton nel 1998), si è verificato un enorme aumento dei flussi speculativi a breve termine, che ha coinvolto gli stessi paesi in via di sviluppo, influendo pesantemente sull’andamento delle loro economie.

La crescita del debito e del rapporto debito/PIL nei paesi in via di sviluppo, spesso alimentata da processi cumulativi perversi (nuovo indebitamento per fare fronte ai debiti pregressi), ha inciso pesantemente sulla loro situazione economica, sociale e politica e molti di essi sono stati costretti a comprimere quanto più possibile la domanda interna (con gravi conseguenze sulle condizioni di vita della popolazione) nel tentativo di realizzare, malgrado l’andamento poco favorevole delle ragioni di scambio, onerosi attivi della bilancia commerciale e finanziare così il servizio del debito estero, altri, quelli già citati ai punti precedenti, sono stati in grado, grazie a debiti pubblici originariamente bassi o controllabili per svariate ragioni (Cina e Russia erano e sono per molti versi stati non democratici, il Brasile attinge spudoratamente alle sue riserve di risorse naturali, l’India ha un suo proprio potenziale inespresso ed una società che tollera culturalmente le sperequazioni più evidenti di condizioni di vita) di innescare, grazie a politiche dei prezzi aggressive e fondate sul basso costo del salario orario, un processo di penetrazione commerciale nei paesi ricchi che ha generato un ingente sviluppo locale, ma con una contrazione (o meglio mancata apertura) democratica e sindacale significativa

Come detto, occorre spendere due parole sul debito pubblico, o meglio sui debiti pubblici per comprendere che l’aumento di ricchezza globale corrisponde in maniera significativa ad un aumento dei debiti pubblici. La Cina regge la sua economia su 28.000 miliardi di dollari di soldi presi a prestito da governo e privati. E gli Usa sono indebitati complessivamente tra debito pubblico e privato per 2,7 volte il proprio Pil annuale, senza contare altri imponenti debiti pubblici come quello giapponese ed italiano (ma anche Francia, Regno Unito ed altri grandi paesi hanno masse enormi di debito pubblico), ed il pozzo senza fine del debito dei paesi emergenti.  

Ovviamente non conta tanto la dimensione assoluta dell’indebitamento, ma la sua sostenibilità, cioè la capacità di rimborso di quei prestiti grazie alla robustezza ed al tono di crescita dell’economia, così, come esempio, se la Grecia è oggi sostanzialmente un paese insolvente che non crolla solo se si tagliano o allungano i termini di rimborso del proprio debito (ecco spiegata l’agonia civile e sociale del paese), è indiscutibile la capacità sia delle prime due economie mondiali, che delle altre (Italia compresa, nonostante l’enormità di un debito al 133% del proprio PIL), di far fronte ai propri debiti.

Ma se la crisi finanziaria globale del 2007 è proprio nata sulle ceneri dei mutui subprime americani (un gigantesco volume di prestiti a chi non era in grado di restituirli) e la crisi del debito pubblico, che pur pare oggi superata, è sempre pronta a riaffacciarsi se il ciclo economico globale dovesse di nuovo incepparsi, il debito mondiale anziché fermarsi, come da logica, si è espanso ancora in questi in questi anni e non certo per sostenere efficaci politiche espansive neo-keynesiane. I dati dell’ultimo rapporto McKinsey dicono che dal 2007 il debito globale mondiale è cresciuto di altri 57mila miliardi di dollari, facendo salire il rapporto tra debito e Pil (a livello globale) di 17 punti percentuali in soli 7 anni.

A fine 2014, il mondo ha un debito complessivo di 199mila miliardi di dollari, quasi tre volte il valore del Pil globale, e la Cina che ha basato la sua enorme crescita economica sulla leva finanziaria, ha quadruplicato il suo debito negli ultimi sette anni, portandosi al 283% del rapporto debito-PIL (è il maggiore del mondo), con la metà dei prestiti contratti finiti a finanziare il proprio boom immobiliare (che appare quasi incontrollato nella sua sostanziale inutilità e nocività finanziaria e di consumo di territorio), con un sistema bancario ombra (broker e intermediari che non sottostanno alla vigilanza della Banca centrale) cresciuto nelle sue attività dal 2007 del 36% all’anno in volume.

Il debito delle famiglie è salito a 40mila miliardi con un ritmo annuo dal 2007 del 5,3% ed anche le imprese hanno visto i prestiti salire del 5,9% annuo, con un volume di crediti a 56mila miliardi, ovvero poco meno dell’intero Pil mondiale. E i governi con il salvataggio delle banche e le politiche fiscali (non direttamente legate a fasi produttive) espansive hanno portato il proprio debito pubblico a 58mila miliardi (+9,3% annuo dal 2007).

Potremmo dire che l’espansione è legata ideologicamente all’aumento del debito? A spingere le economie mondiali ad aumentare la leva finanziaria sono state proprie le politiche monetarie ultra-espansive e i tassi tendenti a zero con cui le Banche centrali hanno si evitato il crack finanziario del sistema bancario mondiale, con una cura di iniezioni di liquidità che hanno sorretto il sistema finanziario mondiale tra il 2008 e il 2009, ma che hanno spinto famiglie, imprese e governi a indebitarsi sempre più ed oltre ogni limite di ragionevolezza, nell’evidenza che se il reddito disponibile, dopo la sottrazione degli interessi per mantenimento del debito, è insufficiente ad assicurare la tenuta dei consumi ed il mantenimento dell’offerta, si rende necessaria una crescita continua che, finanziata dal debito, produce altro debito, in un circolo vizioso senza fine

E ciò perché il costo dei soldi a prestito è talmente basso che induce a investire a debito. Un circolo virtuoso per alcuni versi e che ha permesso alle economie mondiali di non collassare con conseguenze irreparabili, ma che ha in sé i germi della follia finanziaria. Tutto quel debito accumulato nei portafogli di famiglie, imprese e stati, più di quello che ha fatto da miccia al deflagrare della crisi, è oggi ancora lì, in una montagna di denaro che andrà prima o poi restituito.

È proprio qui il punto chiave. Scampato il crack, molte economie si sono riprese, ma a un passo molto più contenuto degli anni novanta-primi duemila, quindi un mondo che cresce piano rispetto al passato ma che ha però più debiti di prima, dato che il fardello è aumentato di ben 57mila miliardi, ovvero l’intero Pil mondiale.

Il solo debito delle imprese cinesi è destinato a salire nel 2019 a 28mila miliardi di dollari, il 40% di tutti i debiti corporate a livello planetario (che dovrebbero attestarsi a 70mila miliardi dai 50mila miliardi del 2014) e con l’economia cinese che, abituata a crescere a ritmi del 10-12% per decenni, è entrata dal 2010 in una fase di contrazione relativa con Pil annuo che sale del 7% e con tutte le stime che dicono che la corsa si stabilizzerà, salvo accadimenti imprevedibili, su questi ritmi per i prossimi anni.

Forse è fisiologico, ma se la crescita assume sembianze più contenute, l’aumento esplosivo del debito allargherà la forbice tra debito e Pil. Per ora a compensare il tutto c’è l’effetto ricchezza delle Borse cinesi che mette in ombra l’eccesso di indebitamento, ma il paradosso è che la borsa cinese cresce a debito più di quanto non crescano tutte le altre borse mondiali ed il recente crack dei listini cinesi che ha bruciato in un solo mese 3.900 miliardi di dollari (ossia ben dieci volte il debito greco), crack tamponato dalle autorità monetarie, è stato uno starnuto inquietante perché quella montagna di debito che continua a salire sarà il nuovo spauracchio di epidemia finanziaria da monitorare da vicino nei prossimi anni. ed ho preferito non accennare neppure al cosiddetto debito da titoli tossici.

Sostanzialmente, possiamo affermare che “la quasi interezza del processo di arricchimento innescato dalla globalizzazione ei suoi primi anni, non solo era costituito da debito che finanziava la crescita, ma che oggi senza quel debito ogni ipotesi di crescita appare nulla o limitata (ed infatti in molti paesi l’uscita dalla crisi non ha comportato grandi balzi in avanti del PIL, ma crescite nell’ordine dell’1-2% annui, ad eccezione degli USA che hanno però solo posposto il problema del debito), e che ogni processo di crescita indotto dalla globalizzazione ha prodotto utili sostanziali (in alcuni casi enormi) per il solo sistema finanziario e per le poche famiglie che lo controllano” 

3.    i processi di liberalizzazione del mercato del lavoro;

Come già accennato, gli evidenti aumenti della disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza tra paesi, evidenti dagli andamenti dei PIL nazionali, ed all’interno dei paesi vengono spiegati anche attraverso i mutamenti indotti dai processi di globalizzazione nel mercato del lavoro e che tutti gli indicatori illustrano come un sostanziale allargamento dei differenziali retributivi nei paesi industrializzati (wage gap).

Il progresso tecnico intervenuto nei processi produttivi (automazioni e razionalizzazioni produttive) avrebbe infatti ridotto marcatamente la domanda di lavoro a bassa qualifica (cosiddetto unskilled), molto spesso sostituita dalla tipologia contrattuale da tipologie precarie introdotte a sistema da riforme, a favore di quello a più alto contenuto di conoscenza (skilled). Data l’evidente difficoltà dell’offerta ad adeguarsi subito a questa maggiore domanda di lavoro maggiormente qualificato, si è creato nel corso del tempo un eccesso di domanda di lavoro a più alto contenuto di conoscenza che si è concretizzato, per l’ovvietà del prevalere della richiesta sull’offerta, in un incremento salariale netto per le categorie di questi lavoratori, mentre al meglio c’è stata stabilità di percezione per gli altri, con l’aumento contestuale della forbice reddituale tra le categorie lavorative.

Il wage gap indotto dal progresso tecnico e dai processi di delocalizzazione è forse uno dei principali responsabili degli incrementi di disuguaglianza tra i paesi ricchi ed i paesi poveri, ma lo è stato drammaticamente anche all’interno degli stessi paesi maggiormente industrializzati, seppur con impatti diversi a seconda dei paesi e dei rispettivi, differenti istituti di protezione reddituale e previdenziale dei lavoratori. Non è infatti un caso che proprio gli USA registrino un forte incremento di disuguaglianza indotto dal wage gap (e qui diviene facile leggere il successo di Trump alle elezioni americane tra i percettori di minori redditi da lavoro, date anche le scarse protezioni sociali dei lavoratori a bassa qualifica), mentre nei paesi europei maggiormente sindacalizzati, questi effetti sono stati in parte mitigati da una rigidità salariale frutto di una cultura della protezione dei lavoratori maggiormente sentita per tradizione e cultura dalle forze politiche ed affidata a sindacati forti, eppure in stato di attacco da parte di “riforme” che, come l’italiano jobs act  ed il sistema previdenziale tedesco dei mini-jobs, oggi invece minano ulteriormente.

Di fatto le politiche di liberalizzazione del lavoro, abbondantemente accompagnate da induzioni culturali in tal senso (abbandono delle contrattazioni nazionali di settore verso un sistema di contrattazione aziendale dove è evidente la posizione dominante delle parti datoriali, flessibilità e precariato da tipologia contrattuale, progressivo distacco etero/auto-indotto dei lavoratori verso i sindacati, sentiti come incapaci di comprendere le problematiche occupazionali, etc), se da un lato hanno molto aumentato il potere reddituale di alcune fasce lavorative, hanno precarizzato gli altri lavoratori nei paesi più ricchi, mentre si sono sostanzialmente limitate ad effetti di superamento della soglia di povertà nei pochi paesi che sono stati in grado di mettere in campo politiche produttive e commerciali aggressive e penetranti.

Il mainstream culturale ed ideologico dell’alto costo del lavoro come fattore di bassa produttività (cosa mai dimostrata ed in fieri del tutto falsa) e conseguente bassa crescita ha indotto le classi politiche ad introdurre progressivamente un sistema di comodo per le grandi imprese, con una flessibilità del lavoro giunta a livelli mai visti, in accordo al principio accuratamente costruito “del sacrificio del lavoratore per salvaguardare l’azienda” che fa intravedere forme di auto-crumiraggio, allungamento dell’orario di lavoro e riduzione del monte-salari che hanno di fatto annullato quasi ogni conquista sindacale raggiunta finora a partire dalla fine del secondo conflitto mondiale, nell’evidenza del ricatto occupazionale.

Come già detto ai punti precedenti, il risparmio per il sistema produttivo, ormai largamente nelle mani di multinazionali, ottenuti con le liberalizzazioni del mercato del lavoro, si è tramutato quasi sempre in maggiori profitti per aziende e manager (i cui livelli di differenziale rispetto agli stipendi medi sono giunti a soglie di non comprensibilità), e solo di rado in investimenti sulla qualità delle produzioni, che si standardizzano sempre più, fattore questo che finisce per premiare le produzioni in paesi il cui costo del lavoro è più basso e nei quali infatti i tassi di incremento occupazionale risultano maggiori, favorite dai processi di delocalizzazione produttiva.

In sostanza la globalizzazione ha prodotto, nell’elevarsi verso empirei semi-proprietari di una élite di manager super pagati il cui interesse è la continuazione dello stato attuale delle cose, “una massa-lavoro costituita da un numero relativamente ristretto di lavoratori specializzati e ben pagati, una maggioranza di lavoratori precari e precarizzati dalla continua minaccia della disoccupazione, costretti ad accettare forme estreme di flessibilità lavorativa e reddituale in cambio dell’effimero mantenimento del proprio posto di lavoro, ed un piccolo esercito di neo-schiavi, particolarmente visibili in Cina, con i suoi quasi trecento milioni di lavoratori sottopagati e senza tutele, ma anche nella facoltosa Germania, con una sostanziosa massa-lavoro che sopravvive con i mini-jobs, costretti ad accettare di tutto pur di continuare a sopravvivere in un sistema definibile ormai come tecno-feudale”, una condizione questa che diviene una minaccia esplosiva in alcuni settori sociali che ormai sentono di non avere più nulla da perdere”

….continua    

 miko somma