comunicato stampa del comitato no oil lucania

maiali amadori  

Apprendiamo dai mezzi stampa dell’intesa di principi raggiunta tra giunta regionale e la Amadori  per l’allocazione in Val Basento di un stabilimento per trattare le carni di 100.000 suini all’anno e lo apprendiamo con lo stupore di sempre, trattandosi di commentare intese e accordi che ci paiono divergere sempre più da un percorso che questa regione sembrava dover intraprendere.

 

Tralasciando ogni considerazione di tipo ambientale – ma le deiezioni di 100.000 maiali pur da qualche parte bisognerà trattarle! –  che l’assessore Viti, come da risposta alla OLA, par quasi volere circoscrivere in una appendice al Piano Energetico Regionale, dichiarando trattarsi di materiale buono per la produzione di biogas, vorremmo concentrarci allora sull’aspetto prettamente economico ed occupazionale che simile “intenzione” depositerebbe come ulteriore scoria su un sistema regione già alquanto provato da molte simili “intenzioni”.

 

Si parla di 80 posti di lavoro che si creerebbero con l’accordo, dimenticando forse quanto per poche decine di posti di lavoro buona parte del territorio regionale sia stato già svenduto a multinazionali di energia ed acqua, con ciò mostrandosi non disattenzione verso le prospettive occupazionali, ma miopia rispetto alle possibilità di sviluppo delle stesse attraverso lo stimolo ad un utilizzo ambientale accorto e micro-imprenditoriale delle risorse locali.

 

Da anni i produttori locali di carne suina sono avviati verso un processo di selezione di un prodotto locale altamente caratterizzato da genuinità, sicura tracciabilità, metodologie lavorative altamente connesse al territorio ed alle sue tradizioni, tutte condizioni che hanno già condotto ad un’alta competitività di nicchia, da doversi implementare senz’altro per le ovvie ricadute positive.

 

A tutto questo si è giunti con investimenti privati e pubblici i cui risultati potrebbero divenire più apprezzabili per il sistema regionale se solo si sgombrasse il campo da un pregiudizio, quello cioè che lo sviluppo economico sia solo quello rappresentato dai grandi investimenti industriali che pagano subito in termini di consenso e tolgono molte spesso – quasi sempre? – più di quanto abbia dato o prodotto in loco non appena le mutate condizioni dei mercati non li dirottino verso approdi più vantaggiosi per i mille motivi dell’economia globalizzata e della competizione spinta, causando molto spesso la morte delle economie locali, asservendo queste a logiche per nulla attinenti al territorio e verso cui non esiste attrazione che non sia quella di benefici e contribuzioni pubbliche.

 

Consentire anche solo in via preliminare ad un accordo con una grande azienda come la Amadori, allo stesso modo della Pfanner nel metapontino, significa in primo luogo attentare al lavoro fin qui condotto dagli operatori locali, con un’ovvia subordinazione ad una filiera produttiva in larga scala a cui la produzione locale finirebbe per essere obbligata, perdendo così ogni tratto faticosamente raggiunto di specificità territoriale, rientrando nell’indistinto della produzione generalistica.

 

In secondo luogo continuare a vedere questa regione come un serbatoio di braccia e potenzialità in svendita, incapace di auto-programmare l’utilizzo delle proprie risorse attraverso lo sviluppo di una micro-imprenditoria diffusa e soprattutto non in grado di compiere il primo dei balzi che il settore primario, qui come altrove, deve compiere prima di cimentarsi in avventure su altri mercati, l’auto-soddisfacimento della domanda interna.

 

Quasi tutti gli indicatori di produzione del settore primario fotografano infatti una regione incapace di provvedere al soddisfacimento della domanda interna in termini sia quantitativi (importiamo prodotti agricoli e, nello specifico, carne di maiale soprattutto dall’estero) che qualitativi (importiamo prodotti a standard organolettico molto minore di quanto non sarebbe possibile produrre in loco con evidenti ricadute sul benessere alimentare regionale) ed a questa fotografia impietosa si tenta di dare una risposta attraverso accordi con grandi gruppi che procrastinano nell’economia di scala la servitù alimentare piuttosto che risolverla localmente, e soprattutto ancora una volta mostrando la vista corta nella programmazione e nel supporto allo sviluppo di un sistema economico regionale in grado di produrre prima di tutto per i bisogni locali, secondo metodologie di preservazione del territorio che a quei bisogni sono intimamente connessi.

 

Emerge quindi con chiarezza che a mancare all’assessore Viti, a tutta la giunta ed al sistema di potere è la capacità di pensare che l’economia possa seguire canali altri rispetto a quelli di un pensiero unico che vede l’ineludibilità della linea continua grande impresa-posti di lavoro-sviluppo economico come l’unica via percorribile.

Noi crediamo esista e si possa fare altro che continuare a cedere pezzi della nostra regione.

Miko Somma.

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