Comunicato stampa di Comunità Lucana – Movimento No Oil

  

L’agricoltura lucana non deve morire

  

A dare un’occhiata alla regione Basilicata ed alle sue potenzialità più o meno espresse si direbbe che la sua vocazione economica naturale debba essere, in continuità con il passato, ma allo stesso modo in discontinuità con esso, l’agricoltura tradizionale di qualità ed il comparto dell’agro-artigianale, settori dove una relativa incontaminatezza da preservare ed una “novita” della regione, pur dovrebbero, od avrebbero dovuto aprire, spazi inediti di mercato.

 

Agricoltura tradizionale di qualità ed agro-artigianale – se si vuole agro-industria diffusa – però fortemente penalizzate in questi anni da un concetto “politico” di agricoltura che ha preferito sbandierare marchi di qualità d.o.p. in alcuni settori di punta, vitivinicolo e caseario in modo particolare, abbandonando di fatto il settore generalistico, dal cerealicolo all’ortofrutticolo, ma leggasi anche lo steso lattiero-caseario, ad una impari competizione sui mercati dalla quale la nostra agricoltura non può che uscirne perdente – ed i dati economici pare parlino chiaro!

 

Qualcuno potrebbe affermare che la logica della competizione internazionale mette di fronte a sfide non sorreggibili da un sistema che non riesca ad adeguarsi ad un concetto di eccellenza nelle sue produzioni – e fin qui il discorso potrebbe non fare una piega! – ma se l’eccellenza è data non solo da tecniche di produzione strettamente legate alla cultura ed alla storia del territorio, ma da un connubio di sanità ambientale e conservazione della stessa, due sono allora le possibili risposte: 1) questo territorio è riconosciuto come non sano o sospetto di non esser tale, di converso la sua storia e la sua cultura, e non crediamo completamente all’ipotesi, 2) non esiste volontà di tutela per produzioni che se non rispondano ai difficili criteri di qualità stabiliti dalle normative e disciplinari sui marchi protetti, tuttavia fornirebbero standard altrettanto validi per il consumo interno.

 

Paradossale a questo proposito appare il fatto che questa regione non riesca a collocare sul proprio mercato interno i propri prodotti, in quella logica di chilometro zero che rappresenta un optimum sia organoletticamente, che sanitariamente, nonché da un punto di vista strettamente energetico ed economico. In poche parole, l’accesso sui mercati locali di merci agricole prodotte nel raggio di pochi chilometri, non soltanto sarebbe corretto da un punto di vista alimentare e sanitario, ma risponderebbe in pieno ad un concetto semplice come il conto della massaia e che vuole una merce prodotta in loco meno costosa di una prodotta lontano (compensandosi così i presunti minori costi di produzione), poiché su di essa non gravano ulteriori spese di trasporto e conservazione che quelle di un passaggio corto tra il campo o la stalla e le tavole dei cittadini.

 

La situazione diviene ridicola quando si pensi che questa regione non colloca sul proprio mercato interno che pochi punti percentuali della propria produzione, costretta piuttosto ad una allocazione mortificante economicamente su mercati esterni delle proprie derrate, con la conseguente perdita di ogni potere locale di controllo sulla filiera distributiva, in favore di una distribuzione “altra” che stabilisce prezzi capestro a volte ben oltre quelle che sono le già difficili condizioni europee o nazionali, come  nel caso delle vicenda quote latte.

 

Ciò di cui spesso il consumatore finale lucano non ha alcuna contezza – in aggiunta all’impossibilità di scelta tra un prodotto locale ed un “qualsiasi” prodotto, di cui si potrebbe sfidare all’identificazione della provenienza, vista la rintracciabilità desumibile dalle etichette – è la condizione di un’agricoltura lucana costretta a fare i conti con l’impossibilità strutturale di conservazione delle sue merci nel breve – medio periodo (manca qualsiasi struttura di ammasso o semplice allocazione temporanea), di trasformazione delle stesse (manca qualsiasi struttura agro-industriale in vita), con l’impossibilità alla distribuzione su larga scala (manca un mercato generale lucano), addirittura con l’impossibilità ad una programmazione che consenta di meglio affrontare le bizzarie del clima, delle malattie o dei parassiti, discorso questo che già di per sé dovrebbe portare alla necessità di cominciare a rispettare i cicli biologici delle rotazioni e provvedere ad un reddito perequativo per gli agricoltori che, nonostante sia largamente devolvibile dalla sotto-misura 1 dell’asse 2 del Piano di Sviluppo Rurale, finisce tristemente nella messa a riposo per anni ed anni di terreni che magari non sono mai stati agricoli e per i quali “alcuni” percepiscono indennità di fatto non dovute – ed ovviamente non teniamo conto degli enti agricoli, ARBEA in testa!

 

Se a tutto questo si aggiunge la cronica impossibilità alla competizione con prodotti provenienti da mercati con ben altri parametri di costo strutturali e del lavoro – cosa che sarà ulteriormente aggravata dalla prossima apertura al 1 gennaio 2010 dello spazio mediterraneo – i parametri di sopravvivenza dell’agricoltura lucana divengono a questo punto insostenibili, dando così spazio alle più fosche previsioni di spopolamento dei terreni coltivabili e delle zone interne che diverrebbero a questo punto o terreno di coltura per le bio-energie con i residui agricoltori ridotti a peones, o semplici vuoti in cui chi ha una visione della regione come puro spazio e non come entità socio-geografica potrebbe muoversi con agevolezza ancor maggiore di quanto già non faccia – e mi riferisco a multinazionali di idrocarburi ed energia in genere, rifiuti ed acqua.

 

Occorre trovare soluzioni in tempi brevi, occorre convocare, al pari di quanto si dovrebbe per l’industria lucana, una aggregazione di forze politiche, sociali ed economiche in grado di cominciare ad elaborare risposte sistemiche ad una situazione di grave crisi, occorre cominciare a praticare soluzioni di scala in grado di sorreggere economicamente i produttori attraverso quote riservate di accesso alla grande distribuzione locale (almeno il 40% delle merci reperibili in loco), il cui rispetto delle normative europee in tema di concorrenza sarebbe assicurato dalla motivazione sanitaria ed energetica che le filiere cortissime, i gruppi di acquisto ed il “chilometro zero” pur consentirebbero nel più assoluto rispetto delle leggi vigenti, occorre deviare i fondi strutturali non solo verso l’investimento qualificato e la professionalità degli operatori “pochi e buoni”, ma verso quella conservazione dell’ambiente che è punto nodale proprio di quelle motivazioni sanitarie ed energetiche e che il rispetto dei parametri di agricoltura tradizionale consentono secondo metodologie e pratiche ormai collaudate.

 

Ed occorrono strutture primarie ed intermedie di conservazione e di distribuzione, quei centri di stoccaggio, trattamento e conservazione, quel mercato generale in val d’Agri (dove pur già esiste una struttura ad hoc, di cui si è perso ormai il destino) o nel metapontino, quegli incentivi alla formazione di cooperative e consorzi locali di produzione, distribuzione, raccolta, servizi che lascino fette di reddito altrimenti destinate all’esodo fuori regione nel ciclo virtuoso delle economie locali ed occorrono investimenti sulla formazione di una cultura del consorzio locale, occorrono strutture di consulenza e ricerca che pur esistono e che a ben altro oggi servono, se pur servono, occorrono esperti di marketing specifico di prodotto da mettere al servizio delle strutture consortili e della programmazione preventiva.

 

Qualche purista del libero mercato obietterebbe ed obietterà scandalizzato che si tratta di un piano quinquennale di stampo sovietico o peggio autarchico, ma qualche decina di migliaia di agricoltori, tecnici, consulenti, esperti – gente che sui campi ci sta o ci va davvero, a differenza di qualche assessore! – e qualche centinaio di migliaia di consumatori lucani alle prese con portafogli sempre più vuoti e stomaci da riempire sempre allo steso modo, penserebbero si tratta solo di elementare buon senso, produrre qui e consumare qui. E scusate la retorica!

  Miko Somma, coordinatore regionale