Comunicato stampa di Comunità Lucana – Movimento No Oil

Tirocini e teatrini.

 

 

 

Non fossimo in Basilicata, non dovessimo ogni giorno ricordare che qui vige la regola della “coppola in mano” per chiunque voglia viverci, quanto accaduto ai tirocini formativi, banditi prima delle elezioni e ritirati subito dopo, avrebbe causato scandalo. Da noi lo scandalo non c’è, oltre a voci che tuonano sulla delusione di giovani, mamme e famiglie perché su13.000 a 1.000 è stata scippata l’accesso alle agognate poche centinaia di euro mensili per pochi mesi che fanno la speranza, i più concentrandosi sull’uso “disinvolto” a fini elettoralistici, i voti degli aspiranti, dello strumento, nessuno focalizzando la più assoluta mancanza di idee progettuali per la risoluzione della malattia del non-lavoro lucano.

 

 

Ripetitivo lanciarsi in condanne del gretto sistema politico-salottiero, clientelare, familistico notabilare, neo-feudale osservabile a chiunque, sistema tuttavia votato ancora una volta dai lucani in dispregio delle più elementari regole di intelligenza, autolesionismo forse, certo scoramento e conservazione.

 

Concentrarsi sul vuoto spinto di idee sul lavoro sembra l’unica cifra intellettivamente pregnante in un ragionamento che è forse arrivato il momento di fare in questa regione.

 

Anni addietro, ci si aspettava fossero le multinazionali a portare il sospirato lavoro, magari in cambio di un silente ed ipocrita permesso a devastare il territorio e depredare risorse fingendo fosse via per uno sviluppo da sempre sognato, ora per uno strano gioco di coazione a ripetere qualcuno ancora ci crede e blatera di portare le compagnie ad una concertazione di merito, illudendosi di poter trasferire in questa regione quel lavoro ovunque in forte crisi, stretto com’è tra rapacità di un sistema capitale ormai senza freni inibitori ed un’economia finanziarizzata i cui termini di crescita degli indici riversano zero sulla disponibilità di lavoro, ma viceversa le cui cadute producono buchi occupazionali immani.

 

In altre parole, esiste ancora diffusa credenza nei ceti dirigenti di potersi confrontare in condizioni di parità con consigli di amministrazione il cui compito è massimizzazione degli utili e minimizzazione dei costi, consigli di amministrazione che non sono opere pie o di mutuo soccorso, ma dai quali ci si aspetta ottusamente fideistici il “miracolo del lavoro”.

 

Si parla così spesso di “mercato” e “competizione” come volani propulsivi da sostenere e foraggiare per lo sviluppo da dover pensare che qualcuno creda ancora che sarà qui che si farà quel mercato ideale della domanda e dell’offerta che si incontrano liberi, ma regolati sui bisogni e sulle disponibilità e qui che si farà quella competizione di stimolo continuo al miglior processo produzione-costo-qualità che produce benefici per tutti indistintamente, piuttosto che ripetere ciò che tutti ormai conosciamo, l’oligopolio fondato sull’induzione coatta alla domanda, la spensierata gestione di risorse su cui fonda l’offerta stessa, la competizione al prezzo nel disprezzo dei diritti lavoratori e della cura dell’ambiente.

 

D’altro canto è stata una visione olistica del mercato posto a regolatore e referente di determinazione di ogni tensione economica e politica al suono della fanfara di “concorrenza”, “libertà economica” e “mondializzazione dei mercati”, in sintesi la globalizzazione assunta a mistica liturgica ed ineludibile, a determinare quella rarefazione della programmazione politico-economica, in quanto ordinamento dell’esistente in virtù di un progetto di futuro, che oggi produce l’incapacità della politica di assumere un compito di governo dei processi economici, determinandone semmai il ruolo di mero concessore.

 

Ed è stato così che qui come altrove, dal “governo”, i cui termini di definizione sono ordinamento e programmazione, si è passati alla “governance”, gestione carpe diem di un presente eternizzato. Ora si lanci pure una pietra addosso chi non ha mai ascoltato dai nostri governanti la parola “governance” declinata come gestione di occasioni che “casualmente” la nostra terra offre ad investitori prendi-i-solidi-e-scappa, “casualmente” capitati da queste parti e foraggiati con abbondanti milioni di euro.

 

Capita così che proprio in virtù di questa “governance” si sia passati presto dalla depredazione delle risorse in cambio di promesse ed oboli assunti a pretium ambientale (è il caso della Val d’Agri e del petrolio), alla concessione di territorio sic et sempliciter con l’ideazione di strumenti legislativi ad hoc (concessione di diritti di superficie connessi alla realizzazione di PIEAR, piano di forestazione, PSR), con in mezzo tante altre concessioni che di fatto espropriano la regione e le sue risorse agli abitanti per concederle al “libero mercato” che neo-colonialmente integra le classi dirigenti locali a garanzia di accordi, nel controllo totale di opinione pubblica e consenso attraverso la recita di litanie a soggetto.

 

Così si parla di incubatori di imprese senza reti di infrastrutture, di eccellenze agricole senza cure per il resto della produzione, di vetrine turistiche senza reali percorsi spendibili, di tecnologia dello spazio senza tecnologia dei cuscinetti a sfere, di artigianato tipico senza mani che lo realizzino. Teatrini.

 

La realtà parla invece di marginalizzazione storica della regione dai processi economici primari che porta ad ulteriore marginalizzazione quando il contatto non paritetico tra sistema Lucania e ”mercato” si consuma sulla ricattabilità dei suoi lavoratori al totem della possibile dipartita delle compagnie, così giocandosi sempre al ribasso diritti e salari, risorse ed ambiente, il libero mercato, appunto.

 

E a chi volete interessi dei tirocini ritirati? Alla Regione hanno troppo da fare con il “libero mercato”.

 

Miko Somma, coordinatore regionale di Cominità Lucana – Movimento No Oil