contributi per riflessioni senza veli

pubblico con l’autorizzazione dell’autrice questa riflessione sulla scuola pubblica di primo grado di maddalena rotundo, insegnante..ricordo a chiunque voglia pubblicare propri interventi di spedirli all’indirizzo di posta elettronica raggiungibile dal banner del blog…saranno vagliati e pubblicati dal sottoscritto se l’argomento è consono alle tematiche trattate sul blog

Della scuola primaria. Un appello alla politica, alla società civile e alla classe docente.

A due anni dall’introduzione della riforma Gelmini, come procede l’opera di screditamento della scuola pubblica? Bene! Grazie alle migliorie apportate, la scuola ha raggiunto il massimo punto di involuzione dalla legge Casati in poi. L’aspetto più esecrabile delle scelte adottate risiede nel considerare legittimo che l’organizzazione scolastica non sussegua ad una visione scientifica della didattica,  ma possa subire l’adeguamento coatto  ad un regime di ristrettezze economiche sopraggiunto, e che anzi le possa essere addebitata, con interpretazione arbitraria di dati, la responsabilità di sprechi e di una gestione irrazionale delle risorse umane. Lasciando intatto l’impianto  degli obiettivi da  perseguire, appartenenti alla precedente formulazione teorica, il ministro ha  potuto affermare  che, tagliando i fondi, si può allo stesso modo -e meglio -perseguire la compiuta realizzazione delle personalità dei discenti.

 

Nei  fatti, agli appelli sull’importanza della scuola rivolti ai governi, in documenti  come  il libro bianco  Cresson, gli  art. 149 e 150 di Maastricht, la Costituzione Europea, le Raccomandazioni del 2006 e la Strategia di Lisbona, la scuola italiana  risponde tagliando i viveri e facendo mostra di adeguamento formale a certi parametri, innalzando per esempio  il valore del  rapporto insegnanti/alunni, senza migliorare  la qualità della vita scolastica; che anzi peggiora proprio in seguito all’aumento degli alunni per classe.

 

Nel contempo  si  conferma la velleità che l’istituzione raggiunga gli standard europei, senza i quali i nostri titoli di studio non avranno validità nei paesi dell’Unione.

 

Il risultato  finale dell’opera  è così tendente al pessimo che anche le recenti note e leggi sui disturbi specifici e sull’ADHD, nella cornice di un quadro simile, rischiano di rimanere lettera morta. Si introducono precisi luoghi prescrittivi nel momento in cui  , crescendo il numero degli alunni, aumentano le possibilità di trovare più casi di  bambini con quelle difficoltà nella stessa classe , che vanno a sommarsi alla percentuale sempre più alta di stranieri. E’  una situazione contraddittoria, che vanifica la serietà  di leggi che presumono che l’insegnante debba intervenire in maniera individualizzata, in una classe dai 25 ai 28 alunni.

 

E’ oltremodo  incredibile che  non ci si avveda  che i rilevamenti delle prove INVALSI, o i sondaggi forniti da istituti di ricerca, in mancanza di una seria politica  sulla scuola , non monitorano il grado di efficacia dell’istituzione scolastica, ma  fotografano il mero dato socio-economico che discrimina il nord e il sud, la periferia e il centro, e il ceto sociale,  che a quelle performance è  collegato; e a maggior ragione si attendono negativi se le possibilità di intervento a favore di un miglioramento delle prestazioni calano drasticamente, a seguito dell’aumento del numero degli alunni per classe.

 

Alla  base delle determinazioni adottate c’è  più di una considerazione assunta acriticamente.

 

La prima riguarda  l’ incriminato rapporto 1:10 ( un insegnante ogni dieci alunni ) che la legge alza di un punto; esso è un’astrazione ottenuta sulla base di una media aritmetica che comprende gli insegnanti di sostegno, di inglese e gli insegnanti di religione.  Il suo ritocco verso l’alto ha  prodotto l’aumento del numero di alunni per classe fino a 28 , senza che questa decisione abbia potuto trovare un argine da parte degli addetti ai lavori, e nonostante il parere negativo di organizzazioni di genitori. Se questo rapporto fosse reale come propagandato, quale ragione impedirebbe a una riforma di portare le classi di scuola primaria al numero di undici alunni con un insegnante? Quando poi i sindacati trasformano la questione dei 28 alunni per classe in un problema di sicurezza- al quale lo stato facilmente ha potuto  rimediare stanziando soldi per l’edilizia e per allargare le porte- il discorso sulla scuola può  esaurirsi nella questione dei metri quadrati per alunno e della messa in sicurezza degli edifici .

 

Il secondo  assunto è che in Italia non esista più lo svantaggio culturale, e che, sopravvenendo da una situazione  ambientale più stimolante rispetto al passato,  l’alunno sia in grado di sistemare organicamente il suo sapere già nella scuola primaria  senza l’intervento dell’insegnante.

 

In verità l’educazione scolastica non gode più di grande considerazione da parte dell’opinione pubblica e di riflesso non ne gode da parte di chi sulla base di quegli umori costruisce i suoi consensi elettorali.

 

Riuscire a far passare per riforma pedagogica quella che è tecnicamente una controriforma, con tutte le caratteristiche tipiche di azzeramento, ripristino delle condizioni passate e di insensibilità alle esperienze, bollate come scelte sbagliate di precedenti governi, è indice dell’approccio superficiale e della disattenzione generale al  tema.

 

Ora bisognerebbe dire che il ritorno del maestro unico, contestualmente all’ innalzarsi del   rapporto numerico, non diminuisce l’efficacia educativa in senso assoluto, ma riduce drasticamente le probabilità di intervento, ne annienta la sistematicità ,  rendendo inefficace qualsiasi azione a favore di chi manifesta difficoltà. “Ma i maestri di prima come facevano?”: questa è la domanda che si pone il nuovo pedagogo quando paragona  in modo scorretto  la vecchia scuola – dove  lo svantaggiato passava dai banchi al  bracciantato agricolo- alla nuova- dove egli deve pervenire, per dettato  costituzionale, ad una soddisfacente alfabetizzazione culturale dai livelli  sempre più alti, e le cui  prestazioni vengono rilevate e sbattute in prima pagina a riprova dei bassi livelli della scuola italiana.

 

Tuttavia, volendo andare a ritroso, oltre la  congiuntura negativa che ha indotto  a relegare in secondo ordine la spesa scolastica rispetto ad altra spesa pubblica, notiamo che un problema di rappresentatività delle istanze della scuola in seno alle istituzioni c’è da anni.

 

A che cosa sia dovuto è presto detto: la scuola è un sistema gerarchico, attraverso il quale le pretese  ministeriali, divenute legge, anche senza dibattiti democratici e grazie a maggioranze ottenute con leggi elettorali di seconda scelta, ridiscendono  in scioltezza la china dei sottoposti privi di facoltà di veto. E siccome oltre al danno c’è la beffa, questa stessa scuola  è  denominata “dell’autonomia”, volenteroso prodotto della legge Bassanini, che declama che le scuole pervengono all’ “autonomia organizzativa didattica e di ricerca e di sviluppo”.  Invece esse  sono rimaste allocate  all’interno di un sistema verticistico, dove  le decisioni nel dettaglio delle problematiche amministrative  sono imposte dal ministero, e da esse non può che scaturire l’impossibilità di decidere autonomamente. Chi deve stimolare l’applicazione di una qualche  teoria scientifica che motivi l’assetto organizzativo della scuola così che essa  possa mettere in pratica gli obiettivi  europei ? Chi la deve adeguare al territorio ? Attualmente vengono calate dall’alto direttive; ma chi è capace di rappresentare dal basso le esigenze della scuola italiana? Gli uffici scolastici regionali sono presìdi di burocrati; i dirigenti scolastici relegati al ruolo di esecutori  di disposizioni; il sindacati per anni appiattiti sulle questioni occupazionali; istituti di ricerca dove non si  sa  che cosa si ricerchi. E gli insegnanti? La perdita di prestigio sociale della categoria è andata di pari passo con la perdita di potere decisionale. Il loro parere non vincolante   soccombe davanti alla larga discrezionalità di dirigenti e dei burocrati. In questo senso l’impreparazione dei docenti, spesso attribuita alla  volontà o alla qualità dei singoli ma che è invece logica  conseguenza  di un sistema che non ha saputo adeguarsi  alle esigenze culturali  della società moderna, diventa un problema secondario, e forse, a questo punto, un dato da salvaguardare.

 

 La perdita di potere decisionale è una perdita di potere politico, e di consapevolezza di categoria.  A  gettarvi  ulteriore  discredito   sta per arrivare  la normativa  sul merito,  che  con un colpo di mano il ministro Gelmini ha  introdotto nel “Milleproroghe”, approvato ricorrendo alla fiducia. Ancora una volta una visione unilaterale si impone, sposta l’attenzione dai veri  problemi che sono quelli strutturali e addossa  la responsabilità di  disfunzioni e problemi alla categoria dei lavoratori,  per punirla e demotivarla. La scuola avrebbe bisogno di ben altro: prima di tutto di  una  riforma  degli organismi democratici, che   comporterebbe l’affermazione di  una vera  autonomia.  Quando gli  operatori non possono decidere della struttura organizzativa nei suoi aspetti significativi essi non prendono mai consapevolezza dell’importanza del  proprio ruolo e delle conseguenze dei propri  gesti.   

Una scuola  in cui le decisioni sulla  qualità degli interventi a favore dell’integrazione, delle opportunità, dell’apprendimento vengono prese da  entità che operano al di fuori del contesto scolastico e senza nessuna relazione con esso, non è autonoma . Purtroppo per giungere a queste consapevolezze ci vorrebbero soggetti politici  culturalmente più dotati.  Soprattutto occorrerebbe che   l’opinione pubblica e l’elettorato si ravvedano  rispetto alle funzioni della scuola nel nostro paese. 

Maddalena Rotundo