una nota…

continua la nostra campagna di riflessione sulla scena politica e non solo della nostra regione…buona lettura

Il sistema feudale lucano, tra imperatore e vassalli, si fonda sul bisogno-consenso

  

L’analisi della situazione politica regionale mostra senza mezzi termini uno spaccato feudale che fa da base di appoggio ad una politica imperiale del nuovo ceto dominante tutto interno al PD, ma le cui ramificazioni di sodalità si estendono all’intero panorama politico attraverso le “signorie” locali ed i risvolti clientelari legati proprio a queste sodalità, che consentono l’attuarsi di micro-sistemi nei quali non è più importante “quale” sia la parte politica dominante, ma “chi” sia il suo interfaccia con il ceto dominante datore di determinati vantaggi per chiunque ne accetti senza discutere le regole.

  

 

Un gioco di scatole cinesi, dove la maggiore contiene la minore e via discorrendo, che si configura localmente e ad un livello più ampio regionale come interscambio continuo tra forme di consenso e accesso ai contributi, siano essi europei che statali, che consentono poi quella che viene definita la “politica degli amministratori”, o meglio la distribuzione di accessi ai vantaggi che dai tanti processi di applicazione al territorio degli stessi contributi od interventi sono consentiti ad alcune imprese, ad alcuni professionisti, agli stessi amministratori quando gestiscono in prima persona gli interventi come nel caso delle liste di cittadinanza solidale o di accesso ai benefici di leggi regionali di aiuto a famiglie indigenti e via discorrendo.

  

Il meccanismo è certamente complesso e se le basi “etiche” con cui esso funziona essenzialmente possono essere descritte con la categoria del familismo amorale, le basi per così dire tecniche del sistema sono nell’applicazione di principi feudali alla macchina politico-amministrativa che fondano le proprie ragioni d’essere nel bisogno-consenso.

  

Cerchiamo allora di comprendere. Il consenso, che non necessariamente si esprime solo nel voto, ma di cui il voto è principale espressione, non è certo gestito come fosse una risultante complessa di idee politiche condivise, quindi di riferimenti continui a visioni del mondo, ma come possibilità di usufruire di alcuni vantaggi legati proprio all’espressione continua nel tempo di quel consenso con i  vincoli di varia natura che tutti possiamo intuire nascere dal bisogno, sia esso quello di lavorare (in ogni senso sociale) che di ricevere piccoli o grandi privilegi personali che il più delle volte sono dei diritti il cui accesso o è sentito come difficoltoso o come impossibile se non mediato, ma spesso un vero e proprio abuso consentito dalla prossimità e dal vincolo a questo od a quel personaggio che gestisce la realizzazione dello stesso acceso.

  

In altri termini il bisogno di lavorare o di essere assistito può essere sia quello dell’operaio forestale che necessita delle 151 giornate lavorative per la percezione di un assegno di disoccupazione per le restanti, che quello dell’imprenditore la cui azienda effettua movimento terra e che a sua volta è datore di lavoro, del giovane disoccupato o dello “svantaggiato” sociale, della ragazza-madre o del nipote di qualcuno, ma essenzialmente in una regione dove quadro economico globale necessita ancora dell’intervento pubblico come sua fonte causale principale, il lavoro o l’assistenza dipende proprio dalla presenza e quantità dell’investimento o dell’assistenza pubblica in un territorio e così i benefici dell’accesso al lavoro o all’assistenza stessa saranno dipendenti strettamente da questo.

  

Ne consegue che una volta stabilito un investimento pubblico in un territorio (vedremo in seguito il meccanismo di funzionamento relazionale a monte) accedere a beneficio lavorativo o assistenziale conseguente a quell’investimento diviene ragione centrale di esistenza, personale ed aziendale (e nulla di strano nella configurazione delle economie meridionali in genere e lucana in particolare), in un quadro generale che non offre apparentemente o realmente altre opportunità, quindi ambito in misura proporzionale al bisogno stesso. E così che sul bisogno lavorativo oggettivo diviene figura centrale con funzione di mediatore chi gestisce sul territorio l’applicazione formale e sostanziale di tutto o parte di quello stesso intervento, il politico locale ed il suo gruppo di riferimento e sodalità.

  

Sarà quindi costui la figura a cui la persona o l’azienda dovranno rivolgersi, in via diretta o indiretta, per avere il beneficio conseguente, certo nel quadro generale di un bisogno oggettivo di lavoro o di una forma di assistenza, ma di una cattiva cultura che non sappiamo quanto ne sia conseguenza di quella gestione del bisogno e quanto non sia invece la fonte stessa.

  

In altre parole psicologicamente diverrà proprio quel politico o il suo gruppo di riferimento il datore stesso e la fonte del beneficio reale, e non più il diritto in quanto tale di poter accedere al beneficio.

  

Ed è su questa categoria psicologica che si fonda lo scambio tra consenso e bisogno, intuito come fisiologico e normale da parte dei cittadini e delle aziende, spesso a loro volta corree nello scambio e datrici delegate dello stesso, visto che è attraverso esse che transita il lavoro stesso (siano esse le aziende uni-personali che di fatto divengono il prolungamento della personalità del cittadino che vi è occupato, che quelle piccole aziende di cui normalmente è composto il tessuto imprenditoriale locale).

  

Il politico imporrà quindi lo scambio tra consenso ed accesso al soddisfacimento del bisogno come una condizione normale, fisiologica, e tale essa sarà sentita dal cittadino fin quando al beneficio ha modalità di accesso che risiedono proprio nel consenso.

  

Si voterà cioè per quel politico o secondo indicazione di questo sulla base del beneficio ricevuto o della aspettativa di beneficio che si suppone questa consentirà, in tal modo creandosi quei vincoli stabili di sodalità e consenso che il politico (ed il suo gruppo di riferimento) potrà poi spendere sia per se che per una diversa espressione del suo gruppo, tanto localmente nella propria comunità od a livelli territorialmente più ampi, tanto per qualcuno che funga da interfaccia agli stessi interessi, e che in qualche misura ne rappresenti una sintesi in istanze amministrative e politiche superiori.

  

Potrà quindi concedere la gestione del consenso acquisita su un territorio ad espressioni di vincolo “altre” allo stesso territorio, o attraverso l’espressione di candidati e/o preferenze funzionali ad un sistema di potere o che in qualche modo siano “graditi” al sistema stesso.

  

Ed è in questo punto che intravediamo la feudalità del sistema politico lucano, poiché ben lungi dal trattarsi di espressioni “politiche”, quindi di ideale collegamento ad idee, tale consenso si concentra  sulla potenzialità di far giungere risorse sul territorio e sulla concessione di quella “gestione” delle risorse che “deve” ritornare al consenso-bisogno di cui abbiamo trattato, come motore del sistema.

  

Quando ovviamente il politico ed il suo gruppo non gestiscano direttamente le partite economiche degli investimenti, attraverso ditte “compiacenti” o attraverso il gioco dei prestanome, quando non attraverso familiari che in mancanza di leggi chiare sul conflitto di interessi risultano del tutto legali, o si limitino all’affare garantito della progettazione e studio degli interventi, sia di quelli pubblici che quelli in sostegno del sistema imprenditoriale.

  

Vengono così a crearsi delle “filiere corte” di scambio di consenso basate sulla gestione stessa del denaro pubblico (maggiormente trasferimenti dallo Stato per la spesa corrente e contributi U.E. per la spesa per investimenti) che hanno come perno un’attività di controllo che può essere più o meno accuratamente “organizzata” in quanto sottoposta a controlli di organismi superiori che potrebbero invalidarla, ma come leva quella della sede referente regionale che sulla scorta del trasferimento di fondi da Stati ed U.E., stabilisce in autonomia sia l’ammontare e la destinazione degli investimenti nei singoli territori, sia quale sarà l’intensità dei controlli di merito sull’efficienza o sulla necessità di quella spesa, quindi di fatto permettendo i meccanismi descritti.

  

La feudalità del sistema lucano è proprio in queste filiere corte, queste liasoins dirette tra il politico-imperatore che gestisce altri e più alti processi ed i politici-vassalli, autorizzati a “raccoglier decime” localmente purché sottoposti alla sudditanza “giurata” all’impero ed alle sue logiche di dominio che si tramutano in scelte non discutibili ed infatti non discusse dalla politica lucana tutta, impegnata di fatto più a ritagliarsi fette di partecipazione al banchetto nei palazzi, attraverso enti, commissioni ed incarichi vari per amici, parenti ed affini, in un cieco sotto-governo che ricorda una corte ed i suoi giullari, che a riflettere seriamente sulla malattia cronica della regione, l’inadeguatezza della classe dirigente di fronte a processi storici ed economici complessi che non sarà l’onnipotenza senza freni di alcuni poteri a poter gestire, ma la capacità di discutere progetti nuovi che qualcuno pur avanza.

  

Anche nell’affaire petrolio di recente andato in scena.

  Miko Somma, coordinatore regionale di Comunità Lucana-Movimento No Oil