qualche elemento di riflessione

Tra duo-siciliani e post-risorgimentali, servono più gli italiani del Sud

 

 

In un periodo di transizione storica dai distacchi netti tra il sovra-nazionale (comunità di stati, capitale finanziario-mercantile, organizzazioni post Bretton Woods, multinazionali energetiche) e il locale non appare velleitario considerare che l’apparire di lotte per l’auto-riconoscimento di identità regionali, o comunque d’ambito locale, possa riconoscersi come risposta “popolare” autogena alle più pervasive dinamiche socio-economiche globali.

 

 

Tali dinamiche, spostando l’asse del diritto di cittadinanza (il cittadino soggetto-oggetto di diritti-doveri giuridici e civici) sempre più verso un generico ed indistinto diritto del consumatore (rapporti regolati da un modulo di customer satisfaction che sussume ogni diritto nella proprensione al consumo come identificante della cittadinanza), sono poco considerate in rapporto al tema dell’identità condivisa.

 

 

Se nell’epoca delle democrazie popolari il cittadino era il perno di un sistema di valori astratti (diritti) resi concreti dalla politica e dalla sua azione di sintesi e quindi di mediazione tra interessi, nell’epoca tarda del capitale globale tale perno diviene la capacità di spesa intorno a cui ruota l’esistenza del cittadino, in una assenza conclamata della politica, essendosi avocata potestà di programmazione ed indirizzo delle economie agli enti sovra-nazionali, o ridotta al ruolo di mero esecutore materiale.

 

 

Citare le crisi del debito sovrano di alcuni paesi europei meglio chiarirebbe il senso di quanto ormai le politiche nazionali possano “socializzare equamente” le disastrose conseguenze sociali delle bolle di sistema lasciate crescere indisturbate da anni di turbo-capitalismo che si voleva auto-regolante, e poi regolarmente esplose in fenomenologie di sofferenza sociale per le quali unica cura è la “speranza” che l’economia cresca in assenza di bisogni impossibili a soddisfarsi nel perdurare della crisi stessa.

 

 

Si focalizza uno stato di crescente disagio socio-economico originato proprio dalle dinamiche globali alla base del sovra-nazionale (la “costituzione europea” di Lisbona che identifica la libertà economica a ragion causale di un liberismo di fatto assunto a politica economica dagli stati membri o il potere di fatto di alcuni organismi internazionali di “commissariare” intere economie per salvaguardare mercati finanziari), dinamiche nelle quali la creazione di “indistinti consumatori” senza etnos e senza ethos rappresenta un mero strumento operativo per tipicizzare i target e massimizzare così i profitti.

 

 

La nascita di sensi di identità locale diverrebbero “medicina” allo spossessamento della capacità dei cittadini di gestire sia il presente economico (realtà oggettiva o percepita) ed il futuro (aspettative che sulle precedenti si basano), sentiti come presi in ostaggio da strutture “aliene” e senza fisicità diretta (il sovra-nazionale) con la cattura delle economie locali nel turbine di globale e finanza, sia la propria identità socio-relazionale fondata sull’identificazione tra il sè ed un luogo ed una memoria collettiva, questa depauperata dalla massificazione a cui tende il mercato, elaborando così risposta attraverso la volontà di ri-appropriazione di uno spazio fisico e psichico identificato nel proprio territorio ed in una identità appagante socialmente, a patto essa si riconosca in una storia o in un’epica condivisa.

 

     

E lì dove la storia ufficiale è sentita “altra” sorge allora una domanda storica di riscrittura della stessa, creando “fatti” su cui fondare l’identità, “eroi” in cui riconoscersi, “aspirazioni” nelle quali ritornare a credere, l’esatta fotografia di un popolo del meridione che sempre più spesso chiede che la cronaca unitaria e post-unitaria delle nostre regioni, e del paese intero, vesta i panni differenti di una nuova e più completa storia d’Italia raccontata anche da Sud – anzi dai suoi tanti Sud.

 

 

Lontani per il momento da rivendicazioni leghiste di quel Nord tutto da dimostrarsi, nel meridione si afferma la richiesta di riconoscimento di un’identità finora negata dalla storiografia ufficiale, a partire dalla riscrittura di una storia altra dalla retorica nazionale dei “liberatori sabaudi” del popolo oppresso dalla feudalità borbonica, una storia che riconosca i processi di colonizzazione e rapina di ricchezze materiali ed umane perpetrato a danno principalmente dei ceti popolari dai “conquistatori piemontesi” e nella sodalità a questi del notabilato liberale locale in cerca di auto-rappresentanza politica.

 

 

Colonizzazione e rapina protratti nei 150 anni post-unitari nell’emigrazione di braccia e cervelli come forza lavoro al Nord in una forzata italianizzazione dei meridionali che postulava l’abbandono di ogni identità per arrivare nella società fordista del lavoro seriale degli anni 50-70 a negazione della stessa, ed un esasperato globale post-moderno calato nei deserti socio-economici meridionali sarebbero alla base di una richiesta d’identità che per alcuni già sfocia in identitarismo duo-sicilista e neo-borbonico escludente a cui contrapporre un post-risorgimentale europeista che mira al mercantilismo finanziario come regolatore dei rapporti sociali?

 

 

Che ci sia anche altro dietro la richiesta di un’identità meridionale riconosciuta dalla storia è palese, avendo questa assunto valenza di critica politica ad un modello dominante di gestione del consenso e della programmazione che sarebbe inutile negare, constatandosi un epocale fallimento delle classi dirigenti non solo a gestire decenni di politiche meridionaliste fondate prima sull’intervento dello stato, poi su quello comunitario, ma la capacità stessa di traguardare ad un futuro possibile per una terra in cerca oggi più mai di un inedito ruolo economico e sociale tra Europa e Mediterraneo.

 

 

Appare allora fuorviante che a fronte di una rivendicazione che assume anche il tono di una critica di sistema si tenti spesso di ridurre ogni “terronismo” alle bizzarrie anacronistiche duo-siciliane tendenti a leggere a vari gradi un meridione felix imbarbarito dai sabaudi o agli interessi dei vari partiti del sud che paiono ingiallite fotocopie di autonomismi od indipendentismi fuori dalla logica prima che dalla storia e dalla geografia, anche criminale, delle nostre regioni, mentre il problema è e rimane politico, o meglio, di quale politica rappresenti e debba rappresentare questo Sud oggi più mai privo di ruolo e ragion d’essere di fronte a logiche che hanno superato i confini nazionali.

 

 

Ma spesso siamo di fronte a classi dirigenti che, messe in stato di accusa, rispondono al disagio con la dislocazione di responsabilità verso altre istituzioni o sistemi (Stato, Comunità, libero mercato), di fatto auto-assolvendosi da un fallimento piuttosto che affrontare un confronto non più rimandabile sui limiti operativi di una rappresentanza politica creata più a misura del bisogno da cui trarre il consenso necessario alla sua sopravvivenza, che da una idea realistica di gestione della società meridionale, limiti tarati quindi sul rispetto di confini intangibili per alcuni interessi.

 

 

Confini che non potendo superarsi hanno opzionato la spesa pubblica posta a motore dell’economia meridionale dall’ultimo dopo-guerra ai giorni nostri verso il mantenimento conservativo del consenso attraverso il soddisfacimento primario degli interessi di filiere e strutture familistiche attraverso cui era determinato e gestito il consenso stesso, persino quando evidenti erano le dinamiche criminali, e mai verso un investimento produttivo-strutturale a medio-lungo termine che agisse di stimolo alle energie del Sud, così creando nel tempo il fallimento di ogni politica di intervento nell’economia meridionale e  il crollo di ogni aspettativa sociale, economica e culturale delle popolazioni meridionali.

 

 

Si potrebbe parlare a lungo di a-moralità delle classi dirigenti locali, di sodalità ai fenomeni mafiosi, di poca o nulla lungimiranza, e ciò nulla toglierebbe alle pesanti responsabilità storiche di buona parte delle segreterie dei partiti nazionali che sul controllo dei “numeri elettorali” meridionali pure basavano la propria esistenza, e persino si potrebbe concluderne che il “vizio” meridionale giovava soprattutto all’imprenditoria nordica, ma la critica sarebbe solo parziale ed ancora de-responsabilizzante rispetto ad una domanda che non può giudicarsi infondata. Toglie tutto questo qualcosa alla logica distorta in base al quale i meridionali cedevano e cedono il diritto in cambio del favore, privilegiando il “rapporto corto”, personale, in cui l’etica familistica si sovrappone fino ad identificarsi con una rappresentanza scelta in base alla prossimità ai propri interessi immediati?

 

 

Interrogarsi così sul senso di una rivendicazione di identità negata, fino a darne connotazione come “soluzione” insurgente tutta da testare nella complessità sociale che il Sud odierno eredita comunque dalla modernità, o rifugiarsi nella comodità retorica dell’ineluttabile internazionalizzazione guidata dal libero mercato che non ammette strategie locali, serve a delineare vie d’uscita politiche dal degrado di un meridione al bivio tra nostalgia e pessimismo?

 

 

E serve farlo senza interrogarsi su una cultura meridionale di cui è stato sempre più semplice vedere le eccellenze, che accertarsi di quanto queste producessero nella coscienza civica e quotidiana dei suoi comuni cittadini?

 

 

Che sia nata prima la corruzione o prima certa politica, al meridione contemporaneo, tra duo-siciliani e post-risorgimentali, servono più gli italiani del Sud, possibilmente cittadini e non più sudditi.

  Miko Somma