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Di Fenice si può guarire.

  

Quando nacque, l’inceneritore Fenice faceva parte di un pacchetto industriale riguardante un’ampia permanenza in Basilicata del plesso produttivo Fiat, una pillola amara per quella cura occupazionale che, a torto o a ragione, modificava profondamente la struttura del lavoro in un’area individuata come baricentrica rispetto a ben tre regioni.

 

 

Senza approfondire la storia, il successivo passaggio al gruppo EDF in qualche modo ne snaturava la mission primigenia, aprendo la via a qualcosa che non era più l’incenerimento dei residui lavorativi dello stabilimento SATA e dei plessi dell’indotto, ma qualcosa di molto più complesso, aprendosi così la via alla distruzione di residui industriali su scala più ampia rispetto al plesso industriale originale.

  

La bizzarria poi di normative che di fatto, nel mentre limitano fortemente una movimentazione di RSU (rifiuti solidi urbani) all’interno della regione di appartenenza (tanto da doversi provvedere per decreto legge ai trasferimenti di rifiuti dell’area napoletana fuori della Campania), considerano però il traffico di rifiuti industriali, siano essi pericolosi o meno, come un quasi normale scambio commerciale, la cui rilevanza si ritiene placata con una modulistica alquanto “alterabile” (i famosi MUD) e tabellazioni di identificazione del rifiuto (i CER) del tutto inutili se, come la cronaca spesso insegna, l’alterazione dei primi produce la nullificazione dei secondi, ha prodotto a S. Nicola di Melfi la creazione di nuovi asset industriali, questa volta basati sul trattamento di una quantità di rifiuti industriali (30.000 tonn/anno più altre 9.000 richieste) assolutamente non prodotti in questa regione e di quantità analoghe di RSU che ben più nobilmente dell’incenerimento avrebbero potuto essere smaltiti, questa volta in sodalità con il peggio che la politica poteva produrre nella regione meno produttiva di rifiuti pro capite del Paese.

  

Errori di programmazione, una certa dose di pressappochismo e di ignoranza sulla pertinenza di altri modelli di trattamento, la situazione reale vedeva Fenice come un punto nodale dello smaltimento dei rifiuti industriali italiani e non solo, ed un pilastro di un trattamento dei rifiuti urbani inceneriti piuttosto che recuperati nelle forme di materie seconde, prodotti nell’area nord della regione. Questa la foto di una situazione sulla quale pendeva un punto interrogativo, per troppo tempo surrettiziamente mutato in quel rassicurante nelle intenzioni punto esclamativo che spesso abbiamo definito il “tutt’apposto”.

 

 

Punto la cui custodia ed apposizione si presumeva posta dalle attività di monitoraggio di ARPAB fino a creare nella figura dell’agenzia una sorta di suggello la cui rilevanza viene ora vista pesantemente infiltrata di omissioni, colpe e forse dolo (e attendiamo ovviamente l’esito giuridico dei procedimenti), e della cui “particolarità” il sottoscritto ed altri avevano spesso trattato nella stranezza di monitoraggi le cui incongruenze avevano spesso suggerito la non completezza, se non l’inesistenza sostanziale, se non formale, degli stessi.

 

 

Ma il problema non si limita alla fisio-patologia di un sistema industriale e politico che crea più residui che prodotti, in esso considerando residui politici che consistono in danni da programmazioni errate e residui di ben altra natura appiccicati come remore al sistema rifiuti in Italia – suvvia, stiamo parlando proprio delle eco-mafie o di una volontà di profitto mercantile oltre ogni logica di tutela dei territori e della salute degli abitanti, anche quando le mafie in quanto tali non ci sono! – il problema Fenice rischia di potersi trasformare da un’occasione di verità in una ennesima occasione di business, se invece che attendere i doverosi atti di legalità, se non di giustizia, della magistratura, ci si attrezza già per pararne gli effetti, paventando un crollo del sistema dei rifiuti in regione se il plesso non dovesse essere in grado di riprendere la sua attività, a discariche esaurite ed a costi oltre ogni logica. Già la politica lucana si attrezza a minimizzare quanto accaduto in una dubbia ragioneria dei limiti di quello che è già un inquinamento conclamato.

 

 

Dovremmo forse allora riparlare dopo qualche anno di privatizzazione del sistema rifiuti, di ACTA spa e di possibili soci stranieri ed italiani, delle  manovre salottiere romane che, proprio come sul petrolio, stabiliscono signoraggi facili ad intuirsi e più difficili a disvelarsi nella jungla dei baronati esarcali della politica locale, ma andremmo allora sin  troppo lontano rispetto al tempo, al luogo ed allo scopo di un intervento stampa. Esistono altre proposte di gestione dei rifiuti lucani in grado di superare la falsa ed ideologizzata ineluttabilità dell’incenerimento degli stessi che in Fenice trovava un tempio, proposte e percorsi moderni ed utilmente ciclici in grado di trasformare i rifiuti da problema in occasione, il piano di un sistema “altro” dei rifiuti solidi urbani che il nostro movimento illustrò nel dicembre dello scorso anno e che inviato a consiglieri regionali, giunta e presidenza del consiglio e richiesto di audizione in III commissione non ha finora incomprensibilmente trovato né assenso, né diniego.

 

 

Chiediamo allora che ben oltre commissioni che paiono consulti medici a paziente quasi morto e ben oltre tavoli che per essere trasparenti necessitano della trasparenza delle informazioni, della fiducia e della capacità di lavorare in sincrono tra opinioni differenti, quel piano trovi uno spazio di discussione e di proposta nella politica lucana in una risoluzione di quelle problematiche della quantità di raccolta differenziata che, mentre la legge impone, i politici locali paiono ignorare o far finta di ignorare.

 

 

Ma chiediamo anche che su Fenice si addivenga ad una decisione, la sua chiusura immediata per le superate esigenze di programmazione che l’adozione di politiche virtuose dei rifiuti comporterebbero, la sua conclamata inutilità rispetto alla formale rinuncia all’incenerimento che crediamo vada statuita legislativamente ed al più presto dall’assemblea consiliare, e l’avvio immediato di procedure legali di risarcimento del danno nei confronti di una proprietà che con la richiesta di provvisionali per 40.000 euro giornalieri, nelle more di un normale ricorso al TAR contro la sospensione delle autorizzazioni, par più boriosamente minacciare per determinare che agire in buona fede per legittima convinzione di essere nel giusto.

 

 

Fenice inquinava, questo è conclamato, ed è una malattia, ma di Fenice si può guarire.

 

Miko Somma, coordinatore regionale di Comunità Lucana – Movimento No Oil