La manovra passo per passo VI

 

Una critica di sistema

 

 

 

Come promesso, a margine delle criticità alla manovra per ciò che attiene la parte dedicata alla strana “crescita economica” di cui si parla, passiamo a una serie articolata e, come nel nostro stile, senza tentazioni di stampo demagogico, di considerazioni critiche generali.

 

 

In primo luogo sarà facile a molti comprendere che la stessa parola crescita, se nel contesto della manovra e del pensiero generale ha un suo senso molto ben chiaro (sostanzialmente un aumento del PIL prodotto e della spesa pro-capite attraverso i consumi individuali), è per noi controversa in quanto a ben altri parametri faremmo riferimento se e quando si parla di crescita e economica.

  

Ma stando nello specifico del testo che ad un modello economico visto come ineludibile si ispira (e ben facile sarebbe la considerazione che in questo sistema economico poco di differente si può fare), vogliamo però provare ad immaginare qualcosa di diverso, ma a partire dalla prima e più semplice critica che a questa manovra si può fare, a partire, quindi da una crescita declamata, ma non praticata affatto negli intenti.

  

Riconosciamo con coerenza che gli investimenti necessitano di denari che nel bilancio dello stato non ci sono, ma ricorrere a formulette come quelle che abbiamo letto (in sostanza non si postano sorgenti economiche, limitandosi semmai ad un copia-incolla di risorse facenti riferimento alla fiscalità generale) lascia la bocca amara.

  

Pensare cioè che si possa stimolare crescita attraverso incentivi fiscali alle assunzioni è folle se non si considera il quadro economico generale che certo non spinge alcuna impresa ad assumere almeno fino a quando le condizioni di mercato non si siano rasserenate, a meno di non voler considerare le sole imprese che fanno export come volano della ripresa economica.

  

Ciò in parte è vero per un’economia manifatturiera come l’Italia (che ricordiamo essere la seconda d’Europa, dopo la Germania, ed una delle maggiori del mondo), ma sempre a voler considerare quei principi economici che muovono le idee prevalenti sull’economia, tale vettore di ripresa sarebbe poco relativo a ciò che invece necessita, una ripresa dell’attività produttiva generale, sia essa destinata al mercato estero che a quello interno.

  

Se infatti è vero che la caduta di produzione deve essere vista in rapporto agli ordinativi del trimestre seguente, ciò che emerge con chiarezza è che sono proprio questi ad essere in caduta libera, determinando nei fatti una crisi che genera minor produzione perchè minori sono gli ordini e quindi i bisogni legati a questi, ed alla cui ragione non si può addurre i soli costi della produzione (tra i quali ovviamente anche il costo del lavoro, oltre che quello del denaro occorrente sia agli investimenti, cosa questa che richiederebbe interventi di maggiore facilità nella concessione di credito che non ci pare vi siano, limitandosi semmai il primo articolo a detassare le patrimonializzazioni, ma non ad intervenire sul sistema creditizio, sistema a cui ritorneremo in questo ambito quando arriveremo alla parte dedicata alle banche).

  

Risultato c’è crisi perché non ci sono ordini non essendoci domanda da soddisfare, e non perché il costo della produzione non sia concorrenziale almeno ai principali paesi competitors (perdonate l’anglicismo), almeno per ciò che riguarda il mercato interno.

  

Quindi da ciò che si comprende dal testo parrebbe chiara l’intenzione di limitare nei fatti le detassazioni, e quindi gli aiuti, solo a quelle aziende che, producendo per il mercato estero il made in Italy di qualità, hanno il problema dell’investimento di crescita delle capacità produttive (finanziamento creditizio e lavoro a più basso costo) e che così operando potrebbero ridiventare maggiormente competitive (Cina e paesi a minor costo del lavoro permettendo).

  

Ma un paese non vive di solo export ed esiste un mercato interno che fa da base allo stesso export ed è a questo settore che occorrerebbe chiedere se nell’immediato il problema è il costo del lavoro o la mancanza di ordini. La risposta parrebbe ovvia nella considerazione che se mancano ordini persino l’annoso problema del costo del denaro passa in seconda linea.

  

Stimolare i consumi sarebbe allora propedeutico ad una contribuzione sulla fiscalità generale, ma i consumi, viste le imposte in aumento, le detassazioni revocate, persino un aumento dell’iva che è ovvio influisca proprio su questi, sono stimolati? Per nulla, ci pare, sia nella parte di un consumo di beni e servizi a tecnologia corrente (quelli usuali), sia in quella che a noi parrebbe foriera di una ripresa degli stessi, quella a “salto tecnologico”, quella cioè dove l’evidente convenienza di quel consumo che da una innovazione sostanziale viene favorita, spingerebbe molti a riprendere quel consumo. Come esempio, vorremmo citare le automobili e la possibilità che si leghino aiuti alle aziende alla fuoriuscita sul mercato di modelli nuovi a minor consumi (esistono svariati modelli di auto che potrebbero percorrere 50-60 km con un litro di benzina, e senza voler arrivare a prototipi di altra natura), modelli la cui sostanziale convenienza farebbe da stimolo concreto al cambio dell’autovettura posseduta in precedenza e molto più costosa dell’attuale.

  

Avrebbe cioè senso, in mancanza di denari reali inesistenti a prima vista nel bilancio dello Stato, concentrare su una ratio la concessione degli aiuti, l’innovazione radicale, in modo da creare, in concomitanza con aiuti alla rottamazione (che in una contingenza simile senz’altro non sarebbero considerati aiuti di stato in sede europea se compartecipati dalle stesse aziende produttrici), uno stimolo alla ripresa, nell’esempio, di acquisti di nuove auto.

  

L’identico discorso vale per quel settore edilizio a cui non può essere da volano la detrazione del 36% dell’imposta dovuta per generiche ristrutturazioni (nella palese volontà di favorire settori poi, come quelli delle opere per la sicurezza del patrimonio), ma avrebbe funzione di stimolo la crescita di un settore ad altissimo risparmio energetico su cui concentrare ogni risorsa in grado di stimolare attraverso il volano risparmio energetico la ripresa di un indotto edilizio a queste collegato.

  

Ciò che quindi manca alla visione di crescita della manovra (che infatti non c’è affatto) è una sorta di respiro ampio in grado di dare nuovi indirizzi ad un’economia stantia che continua a reggersi su una scarsissima innovazione tecnologica, ad esclusione di pochi settori, per lo più dedicati o all’esportazione o ai consumi di lusso.

  

Ed è qui che appare fallace la visione della crescita economica di questo governo, quella cioè che siano pochi settori a più alto valore aggiunto e passibili di creare indotto (a quelle condizioni di sub-appalto che ben conosciamo essere le commesse nel settore tessile per esempio) a poter trainare l’intera produzione, così creando nei fatti un’economia di serie A, quella dei prodotti di lusso, del made in Italy per comprenderci, formula assai generica che va dal tessile alle auto e natanti di lusso, dalla gastronomia ai vini doc e docg e via discorrendo, ed un economia si serie B, asservita alla prima e con un regime gius-lavorista ed in alcuni casi reddituale necessariamente al ribasso, come tra le altre i recenti accordi-imposizioni di FIAT auto e l’uscita dal rodato sistema di relazioni confindustriali hanno dimostrato.

  

E’ la “messicanizzazione” dell’economia italiana se così vogliamo chiamarla, nell’evidenza delle differenti questioni, dimensioni e contesti in campo. Il Messico infatti negli accordi NAFTA rappresenta l’anello produttivo di base, quello che fa il “lavoro sporco” o comunque a minor valore aggiunto, dove quindi ad un minor valore del prodotto lavorato per addetto corrisposto all’azienda, nell’equivalenza del profitto per il datore di lavoro, corrisponde un minor valore di reddito percepito e diritti rivendicabili dal lavoratore nel quadro del modello Ciudad Juarez per intenderci.

  

In Europa così saranno le economie finanziariamente più esposte al debito a sobbarcarsi questo compito ingrato (Italia, ma in un’ottica di rientro supposto che molto fa pensare al periodo pre-boom economico, Spagna, Portogallo, Grecia, e via discorrendo) di fare da retroterra produttivo a Germania e Francia.

  

Altre considerazioni nei seguenti articoli.

miko somma