cristo si è fermato…

ricevo (o meglio prelevo con il permesso dell’autrice) il seguente testo critico su una delle opere che ancora oggi nell’immaginario collettivo identifica la nostra regione e che credo rappresenti un utile punto di riflessione per tutti noi…

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Cristo si è fermato a Eboli 

di Carmelina Pace alias Karmen Gueye

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Capita talvolta di leggere un libro per la seconda volta; qualcuno va oltre, e lo fa magari una terza e una quarta, anche se non sempre lo si ammette, perché appare un po’ maniacale. Dipende: se si tratta di approfondire un tema, è perfino necessario; se l’argomento appassiona, perché no? Forse che si gode un panorama o una musica una tantum?

Nel nostro caso, ci siamo presi la briga di rivedere un piccolo classico, tanto per l’esercizio di verificare un eventuale nostro cambio di prospettiva nel tempo, quanto per constatare se il contenuto poteva essere d’aiuto a risolvere problemi attuali.

 

Parliamo di “Cristo si è fermato a Eboli”, opera nota e tradotta in tutto il mondo. L’autore, Carlo Levi, era un fior di intellettuale ebreo torinese nato nel 1902, medico non praticante, pittore e in seguito, appunto, scrittore. Oppositore del fascismo, fu mandato al confino in Basilicata a metà degli anni trenta; tra i “colleghi”, la stessa sorte toccò , per esempio, a Cesare Pavese, che finì in Calabria. Ma mentre quest’ultimo non trovò umori fecondi per la propria arte, Levi fu folgorato dall’esperienza, che diede avvio alla sua carriera letteraria.
Non siamo certo critici professionali, ma ci permettiamo di redigere un commento, coinvolti anche genealogicamente da questa regione.

 

 

Una prima lettura avvenne nell’adolescenza e se ne riportarono emozioni forti. Grande è la passione civile che trasuda dalle pagine, intessuta dalla cultura personale dell’autore, che si intuisce smisurata, nutrita da un ambiente favorevole, quello della Torino degli anni trenta, dove il nostro frequentava assiduamente, per dire, Mario Soldati e disegnò una copertina per lui, come per altri: quindi siamo di fronte a un’eclettico profondo, il che è una rarità, e dunque ancor più preziosa.

 

Carlo soggiornò dapprima a Grassano, poi a Gagliano, dove era previsto si trattenesse tre anni, periodo che venne poi accorciato di molto, per grazia del regime, concessa sull’onda dell’euforia per le conquiste coloniali.
Si fece amici in entrambi i paesi, ma è l’esperienza nel secondo che viene descritta e tramandata a noi; in seguito egli diede disposizioni di essere sepolto proprio a Gagliano, oggi denominata Aliano, e così avvenne alla sua scomparsa, nel 1975 (ma in vita non vi era mai tornato).
Uscì anche un pregevole e omonimo film, interpretato da Gian Maria Volonté.

 

In generale va detto che ai lucani il libro non è mai andato troppo a genio. Esso, è vero, ne celebra le terre, conferendo loro, grazie all’abilità narrativa, un fascino magico e stregonesco, denso di emozioni e sensazioni ( “atmosfera numinosa”, la definisce l’autore ); il sentimento dell’osservatore è gravido di compassione per l’infelice sorte dei “cafoni”: oppressi prima da secolari invasioni di popoli diversi e sfruttatori, poi da feudatari avidi e indifferenti e, infine, da un fascismo per cui viene speso più sarcasmo che disprezzo.

 

Tuttavia l’approccio cerebrale tipico del colto e inclita mai viene meno, portando il lettore a un’attenzione passiva e passivante: nulla si è potuto mai fare per la sorte di quelle genti, nulla mai si potrà. Rimane la disperata rassegnazione, di fronte a luoghi aspri e brulli, non risollevati dalle poche rimesse degli emigrati “americani”; l’ammirazione per la dignità personale dei contadini; l’attrazione quasi morbosa dello scrittore per i riti , le leggende, e i costumi sociali, meno moreschi e barbari di quello che si era immaginato; la solidarietà per coloro, quasi tutti, che da “Roma” non attendevano più nulla, perché nulla era mai arrivato; l’irrisione verso i potenti del luogo, meschini e ignoranti, intrisi al massimo di quella “mezza cultura” che sembra essere associata proprio al fascismo, in buona parte.

 

Purtroppo, secondo gli abitanti di Basilicata che dall’uscita lo hanno letto ( non abbiamo notizie recenti sui giovani lettori), il testo trasmette un inequivocabile sentore di miseria quasi colpevole, dipinge per l’eternità uno stucchevole quadro, che ricorda le impressioni stupefatte dei colonizzatori del terzo mondo davanti all’esistenza primordiale; non approfondisce l’essenza della classe media, della piccola borghesia, associata tout court ai difetti della dittatura, senza provare a sondarne le obiettive difficoltà a evolversi.
Infine, si rimane all’affresco desolante di una fetida casupola ove uomini, piccoli, neri e un po’ animaleschi, bestie, lari e penati locali convivono in una imbarazzante promiscuità amorale.

 

Si accusa Levi di compiacimento estetizzante, dove trova posto solo qualche blanda accusa al nord tetragono ai nuovi italiani annessi con l’Unità; egli è un settentrionale in prestito, e accorda simpatia a rari soggetti, per motivi imperscrutabili: un caso per tutti, il prete pedofilo. E’ il caso dell’intellettuale “progressista” che è sempre oltre, rispetto a dove si può provare a capirne l’approccio.

 

Resta l’obiettiva difficoltà di questa regione, in genere aliena alle cricche e alle cosche in omaggio all’individualismo dei suoi nativi, a emergere dal torpore millenario in cui sembra avvolta, anche ora che petrolio e modernismo ne stanno intaccando la sempre indiscussa reputazione di fondamentale onestà.

Temiamo che non ci si sia mai troppo preoccupati di comprendere il sud, ormai appeso a contrastanti impressioni, influenzate altresì dagli emigrati al nord o all’estero e ai loro discendenti, che riposano su un amore viscerale e nostalgico, per posti dove mai tornerebbero; e alla delusione di chi ci vive e non riesce a scalfirne l’immobilismo.