ci invia maddelena rotundo un suo saggio di recente apparso sulla stampa locale…
La silenziosa impronta ecologica dei lucani
Il passaggio dei lucani sul pianeta è silenzioso, la loro impronta ecologica è pari a 3, 41 ettari pro capite, secondo un calcolo fatto nel 2006: ogni lucano preleva dal pianeta risorse riproducibili in 3 ettari di superficie, un dato che se riferito alla superficie regionale e al numero di abitanti rivela che il consumo dei lucani supera di poco le risorse messe a disposizione dalla superficie regionale, in un territorio con una capacità di rigenerarsi ancora intatta. L’impronta ecologica planetaria invece è di gran lunga più vasta della superficie del pianeta, cioè gli uomini consumano più risorse di quelle che effettivamente il pianeta ha a disposizione. L’impronta ecologica è un indice statistico ideato da Wackernagel e Rees nel 1996 e calcola “la superficie corrispondente alla porzione di territorio produttivo e di ecosistema acquatico necessaria per produrre le risorse richieste e assorbire i rifiuti scartati da una data popolazione con un dato tenore di vita”.
Un abitante del Nord America imprime all’ecosistema un’impronta ecologica dieci volte superiore a quella di un albanese, cioè consuma più risorse e produce più rifiuti, e come prevedibile, l’impronta ecologica di un lucano risulta meno estesa di quella di un settentrionale.
L’ indice è calcolato con una formula matematica e prende in considerazione svariati parametri che vanno dall’estensione dei terreni coltivati, al consumo per il riscaldamento, alla quantità dei beni acquistati. Domanda : potrebbe questo indice essere rivelatore anche dello stadio di sviluppo di una popolazione, a conferma o a smentita del modello di crescita che considera il PIL l’indicatore privilegiato? Potrebbe rendere palese in modo scientifico il grado di sfruttamento cui una porzione di pianeta è sottoposta da parte di coloro che non la abitano, a dispetto delle condizioni economiche e della qualità della vita dei suoi effettivi abitanti?
Infatti che cosa può voler dire che l’impronta ecologica della Basilicata è meno estesa di quella della Lombardia? Certamente che dal punto di vista economico noi siamo in definitivo ritardo rispetto al consumo e alla produzione di beni, per via alla scarsa densità di popolazione e di un mancato sviluppo industriale. E poi che nell’economia delle risorse planetarie chi consuma maggiori risorse ed energie rispetto a quelle che il suo territorio è capace di rigenerare riduce i nostri spazi di sviluppo sostenibile.
Grazie a questo sistema di quantificazione della disponibilità delle risorse e di misurazione della entità dello sfruttamento la questione si rivela chiaramente in termini matematici in tutta la sua drammaticità e si conferma, qualora ce ne fosse ancora bisogno, che le tematiche economiche e ambientali, locali e planetarie sono in stretta relazione dinamica. In questo intreccio la questione dei rifiuti occupa un posto centrale perché è la variabile che più di ogni altra incide sul grado di esaurimento delle capacità biologiche di un territorio, territorio che nel nostro caso trae pochi benefici economici dalla produzione di beni, ma contribuisce più di ogni altra zona d’Italia allo smaltimento dei rifiuti, quindi a riequilibrare le perdite ecologiche planetarie.
Altre importanti considerazioni di ordine economico potrebbero farsi a margine di questi dati, la cui analisi non si esaurisce nella valutazione degli impatti ambientali sul pianeta della vita degli uomini moderni. Una delle sagge conclusioni che dovrebbero trarsi è che è arrivato il momento di mettere in discussione un modello di sviluppo basato sul consumo indiscriminato di risorse, e volto ad una produzione superflua di beni.
Se poi contestualmente prendiamo atto che gli sforzi della Basilicata di inserirsi nella competizione industriale classica sono falliti, che le nostre materie prime non sono adatte ad essere trasformate sul territorio, non sarebbe il caso di inventarci un’ economia alternativa a quella che determina il grave impatto ambientale sul pianeta?
Facciamo in tempo a cogliere questa occasione o vogliamo perseguire ancora il vecchio modello di sviluppo che comunque non verrà? Faremmo in tempo ma non siamo in grado, perché la visione economica dei nostri governanti è datata, abbiamo avuto le possibilità ma non le idee, per non averle mai né stimolate né incoraggiate. L’errore risale almeno a una ventina anni fa, quando i soldi hanno cominciato a fluire a sostegno di produzioni per un mercato poco dinamico, lasciando nel contempo che si perdessero i patrimoni delle piccole imprese locali schiacciate dalle produzioni globali, favorendo la fuga delle forze lavoro più giovani.
Il locale legame tra elettorato e politica in un patto di mutuo soccorso, che ha dilapidato nel soddisfacimento del bisogno particolare le energie morali e le potenzialità produttive della nostra regione, non ha permesso e non permetterà per molto tempo politiche che si separino dai bisogni dei singoli elettori e impedirà la promozione di intelligenze che apportino idee innovative. Si perpetua una concezione che persevera in settori fallimentari come la manifattura, oppure ci si concentra ancora sulle cosiddette eccellenze, sul turismo e le produzioni di nicchia troppo costose per un mercato di larga scala e quindi incapaci di portare grande occupazione. Stessa cosa deve dirsi per l’imprenditoria delle energie rinnovabili, con la quale qualcuno pensa di aver assolto al compito di aprire prospettive di green economy e agganciare possibilità di sviluppo.
Serve una nuova generazione di dirigenti con caratteristiche morali diverse e con una visione più ampia dei rapporti economici globali. Un terzo requisito fondamentale non può che essere una consapevolezza maggiore delle questioni ambientali di quella che hanno dimostrato coloro che oggi ci espongono agli aspetti deteriori delle interrelazioni con il pianeta: lo sfruttamento per niente redditizio della nostra capacità di metabolizzare i danni ambientali prodotti da altri.