il debito II

nel precedente articolo sul debito abbiamo descritto quattro situazioni abbastanza tipiche di tipologia del debito pubblico, segnatamente:

  1. il tasso di crescita del PIL risulta minore del tasso di interesse dei titoli di stato
  2. il tasso di crescita del PIL risulta maggiore del tasso di interesse dei titoli di Stato, ma c’è ancora un disavanzo primario in rapporto al PIL
  3. il tasso di crescita del PIL risulta minore del tasso di interesse dei titoli di Stato, ma non c’è un disavanzo primario e le entrate sono più delle uscite, quindi con un rapporto debito/PIL che decresce
  4. il tasso di crescita del PIL risulta maggiore del tasso di interesse dei titoli di Stato e non c’è un disavanzo primario, così le entrate sono maggiori delle uscite

prima di scendere nel dettaglio di queste quattro situazioni che meglio tratteremo nell’articolo seguente, dobbiamo però dare un’occhiata alla composizione del debito pubblico italiano che risulta nell’emissione di titoli di stato (che rimangono ancora la maggior componente del debito pubblico stesso) sempre più “lunghi” nella loro esistenza, quindi tendendo i titoli ad assumere una scadenza sempre più pluriennale, come si evince da un rapido confronto tra la situazione debitoria del 1982 con un debito di poco più di 232.000 miliardi di lire e durata media di vita dei titoli di poco più di un anno e quella del 2009 con circa 1.500 miliardi di euro (oggi oltre 2000) ed una vita media dei titoli passati nel frattempo a 7 anni, quindi con un prevalere netto di titoli a scadenza 5 e 10 anni rispetto ad altre tipologie a più breve scadenza…ma questo cosa significa?

ovvio che aver prolungato la vita media dei titoli pone minori difficoltà nella gestione del rifinanziamento a breve del debito, ma ha come conseguenza una sempre maggior dipendenza del sistema dal finanziamento di lungo corso, quello cioè praticato dai maggiori investitori internazionali più capaci di poter disporre di risorse adeguate ed impegnate per lungo tempo, quindi con adeguati capitali di rischio (essendo comunque sempre ciò che viene investito sul debito di un terzo, fosse anche un paese, un rischio) ben compensati però dai tassi di interesse praticati, piuttosto che di quei fondi che impegnando il risparmio privato di pensionati e lavoratori, necessitano di rischi minori e di una più pronta “cassa” degli investimenti…

prova di questa tendenza è il fatto che dalla metà degli anni 90 il debito pubblico italiano comincia ad essere allocato massivamente all’estero, mentre fino al 1995 da fonti della banca d’italia (http://www.bancaditalia.it/statistiche/finpub/pimefp/2011/sb14_11/suppl_14_11.pdf ) la percentuale detenuta da investitori italiani, principalmente famiglie che così gestivano o venivano indotte a gestire l’allora alta propensione italiana al risparmio, raggiungeva il 95% del debito stesso, in una corsa sempre più marcata all’allocazione all’estero che oggi ha portato a circa il 56% del nostro debito nelle mani di investitori stranieri, principalmente la francia che ne detiene il 30%, ed a seguire germania e regno unito, in uno schema di possesso del debito che è abbastanza costante per quasi tutti i debiti pubblici europei più a rischio, come da una inchiesta del new york times il cui schema accludiamo al link (http://www.nytimes.com/interactive/2010/05/02/weekinreview/02marsh.html?_r=0)

e da questo punto di vista occorre sottolineare che per un paese l’investimento nel debito altrui è fonte di una casa continua che fino a quando esiste stabilità nel rientro degli interessi produce effetti positivi sulla propria bilancia dei pagamenti, attraverso il rientro costante di flussi di cassa pluriennale dovuti all’investimento iniziale della propria liquidità, potendosi tra le altre stabilire condizioni di particolare favore in trattati commerciali e supporti logistici (qualcuno dei lettori ricorderà nel precedente articolo-lancio su cipro come la principale contropartita di eventuali investitori stranieri, segnatamente la cina, sia la disponibilità logistica di porti nel mediterraneo pronti per le proprie merci, porti barattati dai governi con investimenti sul proprio debito, cosa tra le altre già accaduta con la grecia a proposito del porto del pireo)…

quindi la situazione si prospetta in questo modo, con il nostro debito ormai stabilmente nelle mani di paesi terzi, attraverso l’intermediazione di grandi investitori internazionali che gestiscono le enormi partite finanziarie…ed è questo un punto importante, quanto cioè il potere di indirizzo di questi intermediari determini poi l’effettivo controllo del denaro con cui questi paesi investono sul nostro debito, dal momento che erroneamente si potrebbe pensare che siano gli stessi paesi terzi ad investire direttamente partite del loro bilancio, mentre la realtà recita che gli investitori finanziari sono “incoraggiati” dai paesi terzi a rastrellare sul proprio mercato del credito interno le somme necessarie ad investimenti che se da un lato hanno una grande valenza geo-strategica, dall’altro però consentono delle rendite di posizione a queste “famiglie” (le definisco tali perché la loro composizione ricalca ancora lo schema tardo-medioevale/moderno del potere finanziario europeo) che sarebbe illusorio pensare siano solo denari, enormi flussi di denaro, quanto piuttosto la creazione di vere e proprie “signorie”…

ma qui ci avvieremmo a discorsi troppo ampi e speculativi sulla composizione dei reali poteri internazionali, se siano cioè più potenti gli stati o chi detiene le leve del loro controllo finanziario attraverso quegli strumenti liberisti che hanno consentito, a partire dagli stati uniti dell’epoca clinton, alle grandi banche d’investimento mondiale di intervenire sul mercato del credito commerciale, facendo di fatto partire la grande speculazione-bolla finanziaria di questi anni…stiamo ai fatti del nostro debito pubblico

ricordando che se un paese indebitato crolla, crollano anche i creditori, quindi è interesse degli stessi mantenere in esistenza il debito stesso, ogni discussione sull’esistenza del debito verte su quanto un paese possa tassare i propri cittadini o diminuire la spesa pubblica per ripagare i sempre maggiori interessi che saranno dovuti a chi ha sottoscritto il nostro debito, e ricordando che alla data attuale sono circa 80 i miliardi di euro che ogni anno dobbiamo corrispondere come interessi nelle varie aste per il rinnovo dei titoli, la discussione sul notro debito è proprio questa…quanto cioè le politiche di contrazione della spesa pubblica in atto e gli aumenti di imposizione fiscale diretta (imposte) ed indiretta (tasse) saranno sopportabili dagli italiani?

la presenza di un così forte debito pubblico all’interno del bilancio dello stato (abbiamo superato stabilmente i 2000 miliardi di euro con un rapporto tra debito e PIL del 127%) pone il problema del controllo stretto sulla sua espansione, evidentemente già al limite del rientro da tempo, e del relativo rischio di credito, che cioè il paese non sia più in grado di onorare gli impegni sottoscritti con i creditori, quindi non riesca a rinnovare il credito stesso e non riceva più denaro per il funzionamento della macchina pubblica, dovendo così rifinanziare di continuo il debito, ma la tempo stesso intervenire pesantemente come abbiamo detto sia sulla spesa pubblica, tagliando le partite “meno produttive” (virgoletto proprio per sottolineare quanto erroneo e distruttivo socialmente sia l’uso di questo termine così caro, seppur poco pronunciato, ai ristrutturatori della spesa pubblica), sia sulle tasse, sia attraverso l’emissione di nuovi titoli di debito, nel rischio però di arrivare ad una emissione superiore a quanto il mercato riesca ad assorbire ed alla conseguente insolvenza su alcune partite in scadenza…

l’esigenza di tenere sotto controllo l’espansione del debito pubblico ha quindi due principali motivazioni:

  • la prima, di carattere finanziario, attiene alla difficoltà reali di trovare chi finanzia il debito pubblico quando questo cresce troppo velocemente e non riesce ad essere onorato alle scadenze, calando la fiducia dei mercati nella redditività del debito stesso con effetto un necessario aumento degli interessi sul capitale investito, quindi con rendimenti più elevati (è questo l’effetto visibile dello spread, cioè il differenziale sugli interessi del debito che paga un altro paese considerato più affidabile) ed analogo aumento degli interessi subentra se,  crescendo la tassazione del risparmio investito sul debito pubblico, diminuisce l’interesse netto che rimane al risparmiatore, poco invogliato ad investire quindi se non con la promessa di maggiori interessi…e maggiori interessi aggravano il deficit pubblico, cioè quanto occorre per arrivare al pareggio di bilancio, facendo ulteriormente aumentare il debito ed innescando un circolo vizioso che porta come estremo fino alla possibile dichiarazione di insolvenza del debito ovvero al fallimento.
  • la seconda riguarda il cosiddetto “effetto spiazzamento”, cioè il sottrarre sempre maggiori risorse ai consumi ed agli investimenti dei privati con conseguenze sempre più negative sulla crescita economica che alle attuali condizioni di gestione dell’economia è l’unica in grado di offrire un tappo alla falla del debito pubblico crescente (vedremo in seguito come questo assunto sia relativo e crediamo abbastanza dogmatico), pur se è vero che se maggiori interessi sono distribuiti ai detentori dei titoli, quando queste siano imprese, privati e banche commerciali che possono tornare a prestare al circolo economico, degli effetti positivi sono creati nell’ovvia considerazione che un debito interno che riporta gli interessi nel ciclo interno dell’economia ha degli effetti positivi (avremo modo di riparlarne nella nostra proposta di gestione del debito