la deflazione, l’innovazione tecnologica ed il cuneo fiscale…

conosciamo tutti il significato anche spiccio del termine inflazione (aumento prolungato del costo di beni e servizi che causa diminuzione del potere di acquisto della moneta), ma avrete sentito spesso parlare in questo periodo di un rischio deflazione per l’italia, ma cos’è la deflazione in economia?…

il fenomeno è complesso, ma lungi dall’essere una semplice riduzione dell’inflazione che in determinati contesti ha suoi effetti anche positivi, la deflazione è una riduzione del livello dei prezzi accompagnata da una contrazione o stagnazione di produzione e reddito che innesca pericolosi effetti di spirale negativa sull’intera economia produttiva…

in parole povere una crisi deflattiva darebbe oggi il colpo di grazia al paese, vanificando ogni sacrificio fin qui fatto per sanare i bilanci e mantenersi dentro i vincoli imposti dall’europa, che pur sentiti come un peso e sicuramente da ricontrattare, sono però dei vincoli accettati dal paese in un contesto comune e come tali da doversi rispettare per gli evidenti motivi di credibilità internazionale che questo comporta… 

il calo dei prezzi causato dal fenomeno deflattivo è infatti generato dalla forte debolezza della domanda di beni e servizi in un paese, una debolezza strutturale che finisce per frenare la spesa di consumatori ed aziende ben oltre il risparmio naturale in periodi di crisi economica, portando, nell’attesa di ulteriori cali dei prezzi, ad una spirale negativa in cui le imprese, non riuscendo più a vendere a determinati prezzi i beni e servizi che producono o somministrano, cercano di collocare gli stessi sul mercato a prezzi sempre più inferiori, con ovvi minori o nulli ricavi che generano a loro volta sia una tendenza alla diminuzione dei costi sostenibili per l’acquisto di beni e servizi strumentali alla produzione (diminuzione che però trova limite strutturale in un costo intrinseco e non comprimibile oltremodo degli stessi), sia la tendenza a ridurre il costo del lavoro, licenziando dipendenti o sospendendo la produzione per collocare i lavoratori nei recinti della cassa integrazione, quando non intervenendo “politicamente” per un generale calo dei diritti del lavoro sia attraverso la contrattazione decentrata, sia attraverso una contrattazione generale…

l’effetto di spirale è così dato da una tendenza alla riduzione dei costi fino al punto che le aziende, non potendoli oltremodo sostenere, vista la poca propensione del mercato ad assorbire le produzioni per minore disponibilità di denaro da parte dei consumatori, si bloccano del tutto con conseguenze facilmente immaginabili per chiunque e che sono del tutto visibili nella quotidianità del nostro paese in forma di pericolosa stagnazione…

ma il fenomeno deflattivo è legato anche ad altri specifici parametri, tra i quali il mercato del credito e le sue variazioni…

mi spiego…l’elevata intermediazione del credito, quindi la difficoltà al credito stesso ed il numero di soggetti coinvolti in meccanismi di garanzia per poterlo erogare in presenza di alti rischi di mancato rientro dei capitali, è fattore che aumenta il rischio di deflazione, soprattutto in un sistema economico che ha il suo cardine creditizio nelle banche, come quello italiano, nell’evidenza che se manca la liquidità alle imprese queste non potranno più sostenere i costi di produzione in una condizione di difficoltà di mercato, tendendo così alla ripetizione di quanto già esposto in tema di riduzione della stessa produzione…

ora alcune scuole di pensiero individuano l’origine di questa difficoltà per il nostro paese nella poca propensione del settore produttivo a collocarsi sul mercato azionario ed ottenere proprio lì il credito necessario in forma di capitale (ed alcuni numeri sembrano dare ragione a questa tesi se è vero che in italia il credito bancario al settore privato ammonta al 123% del Pil, mentre la capitalizzazione del mercato azionario è il 24% di quest’ultimo secondo i dati 2012), mentre nelle due economie nazionali con cui esistono in europa le maggiori affinità di sistema e in cui gli istituti bancari hanno pesi strategici di grande rilevanza, germania e francia, il credito bancario al settore privato è rispettivamente al 101% del pil e capitalizzazione del mercato al 43% del pil, e 116% e  69,8%…

si tratta di differenze non marginali che spiegano come le difficoltà del sistema bancario dei tre paesi pur essendo sostanzialmente le stesse rispetto alle origini della crisi, il grande portafogli di titoli tossici inesigibili, sviluppano però differenti esiti, dando origine nel nostro paese da un verso alle stesse difficoltà di accesso al credito verso il sistema bancario esistenti di fatto ovunque, ma dall’altro a quel minore ricorso al mercato azionario che non compensa la stretta creditizia…  

così mentre alcuni fautori della capitalizzazione in borsa spingono verso una soluzione di maggior collocamento delle imprese italiane sul mercato azionario, nell’evidenza che però presentarsi al mercato impone quelle dimensioni che le aziende italiane in genere non hanno mai sviluppato per la natura stessa del tessuto produttivo del paese, i rischi di simili operazioni sono il collocamento delle aziende a costi inferiori al valore reale per ottenere subito denaro utile a sostenere la produzione in un contesto peraltro dominato dall’impossibilità della ripartenza dei consumi, perdurando il poco denaro a disposizione dei consumatori…

costoro infatti (ed è la linea del fondo monetario internazionale, di cui padoan, attuale ministro dell’economia è stato un dirigente) suppongono abbastanza in mala fede che l’origine della crisi che ha coinvolto il paese sia una crisi di liquidità finanziaria e che di conseguenza il rischio deflazione sia legato più a fenomeni finanziari legati alla struttura del sistema produttivo italiano, che a quei fenomeni strutturali che hanno eroso il potere di acquisto dei salari, fino al punto di rendere del tutto impossibile una maggiore spesa da parte dei consumatori, e che hanno trovato una causa invece nelle stolte politiche economiche seguite in particolar modo negli anni tra l’ingresso nell’euro e l’inizio della crisi, un periodo del tutto coincidente quindi con la gestione dell’economia affidata a giulio tremonti durante i dicasteri berluskoni, un periodo nel quale la capacità di spesa degli italiani è stata sempre più ridotta da meccanismi di “caduta nelle rate” (il credito al consumo che scelleratamente si è spinto ben oltre l’intellettivo) che hanno indebolito la capacità di risparmio delle famiglie, ed in alcune scelte di fondo che hanno impedito ai salari un adeguamento reale ad una inflazione reale (per anni si sono usate stime inflattive fissate su parametri presuntivi non corrispondenti alla realtà)…

si tratta ovviamente di una riflessione del tutto politica, ma in aggiunta ai danni dei titoli tossici sul mercato mondiale, da noi la crisi è stata aggravata da fenomeni del tutto sistemici ad un modello economico assolutamente non governato…

ma non voglio spingermi su considerazioni appunto politiche, quanto piuttosto spiegare che a mio avviso, l’attuale rischio di deflazione non è di natura finanziaria e di struttura del capitale dell’impresa italiana, pur di fatto presentando anche caratteristiche simili, quanto sottolineare che questo rischio esiste in primis sulla mancata domanda interna, sull’incapacità sostanziale quindi per i consumatori italiani di poter acquistare beni e servizi in quantità maggiori…

è infatti il settore produttivo interno che registra le maggiori sofferenze causate dai minori consumi, mentre sostanzialmente i risultati dell’export permangono positivi ed in rialzo, cosa questa che oggettivamente fa pensare alla necessità di innalzare il livello dei consumi interni attraverso iniezioni di maggiore liquidità nei salari, cosa che necessita di sostanziali immissioni di denaro pubblico direttamente a valere sulle buste paga dei lavoratori attraverso sostanziosi tagli fiscali o a valere sulla contribuzione a carico delle imprese (abbattimento del cuneo fiscale), manovre costose ed i cui risultati sono imprevedibili sul livello dei consumi, nell’evidenza che in un periodo di crisi prima che i consumi riprendano davvero è necessario che si stabilisca un generale clima di fiducia sulle prospettive di ripresa del paese che al momento non è ancora visibile se non da troppo generiche tendenze degli indici di fiducia…

la semplice fiducia non basta e così nell’incertezza che maggiore denaro in busta paga spinga un lavoratore (è qui infatti c’è il punto ancora drammaticamente irrisolto di una occupazione che continua a calare) a maggiori consumi e non a generico “risparmio in attesa di tempi migliori”, una possibile via d’uscita sarebbe spingere e sostenere con sostanziosi sgravi fiscali il mercato verso la produzione di innovazione tecnologica in grado di ingenerare un’attesa di tali sostanziali migliorie, da stimolare, in concomitanza appunto con maggiore disponibilità economica, una maggiore propensione ai consumi di beni e servizi…

proviamo a fare un esempio…se la mia auto ha 6 anni di vita e percorre 15 km con un litro, molto difficilmente sarò spinto a cambiare auto se i nuovi modelli fanno 20 km/litro, quindi migliorando non sostanzialmente le loro performances, ma se ho di fronte un nuovo modello che fa 30-40 km/litro, consuma meno lubrificante e necessita di minore manutenzione , quindi mi consente un abbattimento delle spese correnti superiore al 50%, è molto più probabile che sarò spinto alla scelta di cambiare auto nell’evidenza che a frenarmi non sarà più tanto la spesa dell’investimento, che posso rateizzare e scontare mensilmente con il mio stipendio, quanto il sostanzioso risparmio di gestione mensile, che già affronto, che mi consente di poter meglio gestire quell’aggravio di spesa per l’investimento stesso…

così se ha un senso mettere più denari in busta paga ai lavoratori, va anche previsto che se le organizzazioni datoriali pretenderanno analogo abbattimento del carico fiscale gravante a loro carico sul lavoro, tale abbattimento se non legato strettamente ad un effetto di innovazione da stimolarsi nelle stesse aziende, finirebbe per disperdersi in un generico aiuto che da solo non basta a stimolare il mercato stesso del lavoro, nella palese evidenza che un’impresa assume solo se ha più commesse che giustifichino un maggior numero di lavoratori e non se il lavoro costa genericamente un po’ meno…      

le risorse disponibili sono davvero tanto poche nel bilancio dello stato che disperderle in rivoli improduttivi non avrebbe alcun senso…se allora si crede che abbattere il costo del lavoro per le imprese abbia un senso, che lo si faccia vincolando tale contribuzione alle innovazioni sostanziali di processo produttivo in grado di materializzare quella genialità di un paese che ne ha ancora tanta, ma necessita adesso di uno sforzo di fiducia e di buon indirizzo dell’uso delle finanze pubbliche…

miko somma