comunicato stampa

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Più del governo delle cose contò il bilancino

Premettendo che nulla di personale mi oppone a Luca Braia, pur nell’evidenza di sostanziali, differenti retroterra culturali, politici ed antropologici, la sua nomina assessorile mi lascia perplesso non solo su competenze specifiche per ricoprire una carica che rappresenta poste finanziarie molto rilevanti per la regione (i fondi comunitari) e un fondamentale asse vocazionale del nostro sviluppo regionale, quanto sulle modalità che lo hanno portato a sostituirsi ad un “tecnico” vero, il pur criticabilissimo ottati, in un non meglio precisato rimpasto che, restando tale, non si comprende come rappresenti quel ritorno alla politica, auspicato da tanti, e non piuttosto una cencelliana spartizione delle postazioni che “farebbe” ritornare il sereno nella tormentata casa del Pd di Basilicata.

Che la nomina di Braia quindi si consumi non solo sulle promesse alla famiglia antezziana di ottenere “posti al sole” per i rampolli dopo il determinante appoggio alle primarie per la scelta del candidato alla presidenza della regione e sul debito accumulatosi alle primarie per la segreteria regionale Pd, dove il “povero” Braia è stato “bruciato” sula pira delle contingenze e dei numeri, quanto soprattutto sull’altare delle elezioni amministrative a Matera in un do ut des per assicurare sostegno a un Adduce in cui non si vorrebbe replicare quanto già accaduto a Potenza, dovrebbe essere chiaro a tutti.

Così chiaro apparirebbe il bilancino degli equilibri che salva una candidatura di peso – ma reggerà poi l’impegno degli antezza-renziani a Matera? – ponendosi però forte il tema di un eccesso di fungibilità della giunta regionale a “fatti” altri rispetto a quanto ragionevolmente ci si aspetterebbe, rendendola di fatto la merce di scambio per accordi di pace più duraturi dell’attuale tregua armata tra le astiose tribù familistiche del Pd lucano.

Tribù che, lungi dal condividere altro che l’ingresso di casa, sono tuttavia più pronte alla costruzione di sala mensa comune in cui “costringere” a capotavola il satrapo tardo-renziano Pittella, dividendo pane e companatico, che indurre il governatore a rivedere i suoi obiettivi ed i suoi metodi e così rilanciare la progettualità plurale di cui pure si sentirebbe la necessità.

Perché – triste ammetterlo per chi, come il sottoscritto, era entrato nel Pd per tentare di “usare” i suoi numeri per obiettivi più congrui alla natura reale di territorio e popolo lucano – il Pd di Basilicata non è un partito, ovvero luogo di dibattito e confronto anche aspro, ma un’accozzaglia di generi politici dove il cemento unificante è una continua mediazione sulle postazioni e mai sui temi, che la natura del Pd nazionale indirizza e governa secondo le logiche renziane di un partito-nazione come morte definitiva della politica e dei pensieri politici in nome di un consenso indifferenziato che trasla principalmente per il vero partito, quello degli eletti che fa da parterre ad un monarca, alla sua corte ed ai satrapi locali.

Non stupisce allora che la nomina di Braia, a cui comunque faccio gli auguri di ben operare, anziché scatenare putiferi di indignazione per i modi ed i tempi in cui è nata e per le sue competenze, invero scarse, in un settore dove la politica “deve” intrecciarsi con una “visione” del mondo agricolo per divenire reale governo del settore – e neppure voglio parlare dell’opportunità per altre cause – venga salutata con entusiasmi da social network ed obblighi di filiera dagli uni, i renziani convinti e i convertiti di comodo, e supinamente accettata dagli altri, perché probabilmente tutto verrà presto compensato in riedizione del racconto triste che al governo delle cose, in un momento di grave difficoltà economica e sociale per questa regione e per i suoi abitanti, preferisce il bilancino del riequilibrio delle postazioni.

Miko Somma

contributo/comunicato stampa

Tra il martello dell’italicum e l’incudine del nuovo senato.

Tralasciando gli effetti della cosiddetta riforma del titolo V della Costituzione, di cui molte volte ho avuto occasione di parlare, sia per stigmatizzarne effetti di forte centralizzazione di potestà legislative ad oggi devolute alle autonomie locali, sia per avvisare di “effetti locali” di tale deprivazione potestativa che non mancheranno di farsi sentire sulle risorse naturali, la gestione delle acque, il ciclo dei rifiuti e via discorrendo, a concentrarsi sulla nuova struttura istituzionale designata da una riforma che cambia la forma di governo del paese, consegnandolo ad un premierato forte senza basi logiche per la nostra cultura democratica, e soprattutto senza contrappesi che in altre culture consentono la sopravvivenza di forti decisionalità accentrate nel rispetto delle garanzia democratiche, il quadro appare fosco.

Il nuovo senato sarà composto da 95 componenti eletti dai consigli regionali, quindi da maggioranze consolidatesi altrove che a livello nazionale, più 5 nominati dal Capo dello Stato in carica per soli 7 anni, eliminandosi così la figura del senatore a vita. 95 componenti, eletti dalle assise regionali con un metodo proporzionale (e tra cui almeno un sindaco), che quindi se avranno competenza legislativa su riforme e leggi costituzionali, sulle leggi ordinarie potranno solo chiederne modifica alla Camera, che non sarà obbligata a tenerne conto se non per leggi che riguardano il rapporto tra Stato e Regioni, in ogni caso potendone respingere la richiesta con voto a maggioranza assoluta e ci chiediamo allora se tale strumento legislativo serva a qualcosa, non avendo né caratteristiche di Camera delle Regioni, né di una struttura di ripensamento legislativo tarato sugli impatti delle leggi che riguardano i territori.

Il disegno di sommare ad una Camera eletta senza preferenze grazie all’Italicum, un Senato con una legittimazione di secondo grado, quindi con un deciso regresso del livello di incidenza popolare sui processi decisionali, dunque si compie, ma la stessa norma che struttura un Senato ininfluente di fatto sulla legislazione ordinaria, definisce un “ente inutile” probabilmente sistematicamente ignorato, anche per via di quelle maggioranze assolute per respingerne le richieste di revisione sulle leggi di interesse Stato-regioni, che è la stessa composizione maggioritaria della Camera, 354 seggi alla maggioranza, a rendere opzionale.

Ma stranamente  il nuovo Senato ha piena potestà legislativa su riforme e leggi costituzionali, con ciò delineandosi in concreto l’ipotesi che se la maggioranza del Senato, quindi dei consigli regionali, avrà stesso colore politico di quella alla Camera, tutto – ma proprio tutto – potrebbe essere approvato senza la difficoltà delle maggioranze qualificate, mentre, prevalendo al Senato un colore politico opposto a quello espresso alla Camera, potremmo trovarci di fronte ad una inedita trincea ostruzionistica fra chi ha legittimazione di primo grado, la Camera, e chi, il Senato, l’avrebbe di secondo grado, in un quadro in cui un grande peso avranno proprio i 5 senatori di nomina presidenziale, il cui peso proporzionale al Senato aumenta sino al 5% del totale dei senatori, di fatto costituendosi un “partito del Presidente”, la cui figura di garante potrebbe a quel punto divenire meno neutrale.

Ma le conseguenze più pericolose, quelle che a mio avviso delineano il premierato forte di cui pavento l’apparire in una cultura nazionale affatto pronta, riguardano l’elezione del Presidente della Repubblica e dei giudici costituzionali.

I senatori parteciperanno all’elezione del Presidente della Repubblica per eleggere il quale sarà, come oggi, necessaria la maggioranza dei 2/3 sino alla terza votazione, dei 3/5 nelle successive quattro e della maggioranza assoluta dalla nona in poi, in un limite così evanescente che al partito/coalizione di maggioranza basterebbe solo non partecipare alle votazioni fino alla nona per scegliersi un Presidente della Repubblica completamento “fatto in casa”, con buona pace della garanzia per tutti che la figura del Presidente deve necessariamente rappresentare.

Sinora il collegio elettorale per l’elezione del Capo dello Stato era di 630 deputati più i 320 Senatori (quindi compresi i senatori a vita) più i 58 delegati regionali, per un totale di 1.008 grandi elettori, la cui maggioranza assoluta per l’elezione del Presidente della repubblica era di 505. Nel nuovo Parlamento riunito in seduta comune con 725 membri la maggioranza è di 363 voti e così considerandosi che con l’Italicum, la maggioranza disporrebbe già di 354 seggi alla Camera, ciò significa che con il voto di soli 9 senatori, questa stessa eleggerebbe il Presidente della Repubblica da sola ed ancor peggio quel che riguarda l’elezione dei giudici costituzionali, dove, ad una maggioranza di governo d’accordo con il Presidente, basterebbero solo 4 senatori per prendersi tutti i 5 giudici, che andrebbero ad affiancarsi ai 5 di nomina presidenziale, quindi con 10 giudici di maggioranza su 15.

Una manovra questa tra riforma del Senato e approvazione della legge elettorale Italicum, che rischia di schiacciare tra un’incudine ed un martello la democrazia, pure imperfetta per gli uomini che l’hanno interpretata e non certo per l’architrave della nostra Carta Costituzionale, che abbiamo ereditato da una guerra ed una dittatura, una manovra pericolosa e di cui appare chiara la vocazione al premierato forte, una opzione istituzionale che l’attuale Presidente del Consiglio identifica completamente con se stesso, chiarendo definitivamente il senso della democrazia che egli incarna.

La sinistra non può indugiare oltre, avendo finora troppo consentito a costui di avanzare in un’opera di distruzione democratica che ha come fine ultimo lo stravolgimento della rappresentanza da popolare a fortemente e lobbysta, la trasformazione del diritto al/del lavoro da fonte di dignità a funzionalizzazione ai cicli economici globali e al profitto di impresa senza regole, la sottomissione più cupa dell’ambiente e delle risorse naturali alle logiche corporative ed alle mire delle multinazionali, l’intromissione privata nel ciclo degli interessi pubblici legati alla previdenza, all’assistenza, alla sanità, alla scuola, la messa in mora dei diritti acquisiti nei confronti della lotta per la sopravvivenza in uno stile darwiniano dove si fatica a comprendere se vi sia ancora posto per i più deboli.

Altrove ciò magari lo si chiamerebbe un golpe bianco, consumato nella complicità abietta per motivi di sopravvivenza personale di chi più di tutti avrebbe il dovere di comprendere, la sinistra nell’accezione più vasta che ciò rappresenta, ed organizzare forme di resistenza attiva a questa deriva, resistenza attiva che certo non si comprende quale funzione avrebbe mai se la si fonda sempre su un “ultimo si” pronunciato al soglio di un trono su cui ormai siede un piccolo, piccolo dittatore. E farlo cader dal trono per rimettere la strada delle riforme sulla via corretta, ciò che serve al paese, è un compito di sinistra.  

Miko Somma

Comunicato stampa

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Qualche “noi” che mal s’addice ad un accento senese.

Quando ci si reca in Val d’Agri a parlare di zone franche, come ha fatto l’assessore Berlinguer, sarà a causa dei numerosi precedenti, sarà per un minimo di conoscenza delle legislazione di riferimento, ma il mio sospetto è che si dia in pasto farina di millanteria ad allocchi, piuttosto che parlare di cose serie. Se infatti si parla di zone franche e così della fiscalità di vantaggio a cui allude l’assessore sulle accise dei prodotti energetici, il primo problema è l’uso di una terminologia precisa, senza cui si rischia anche di non farsi comprendere, peggio, di essere frainteso, o ancor peggio, di volere menare il can per l’aia, suggerendo l’osservazione del dito zona franca piuttosto che della luna, lo sfruttamento petrolifero.

La fiscalità di vantaggio è una agevolazioni fiscale che comporta una contrazione di gettito per l’ente erogatore, in questo caso lo stato, a vantaggio di determinati soggetti, i cittadini della Val d’Agri, e data per scontata l’esclusione di altri, il resto dei cittadini italiani e lucani, che pur si trovano nelle medesime condizioni in termini di presupposti impositivi e di capacità contributiva, deve essere motivata in termini oggettivi, il perché si agevola in quel luogo, e sostanziali, come e quanto si agevola fiscalmente, ed in quanto trattasi di un’agevolazione che crea sperequazione, deve contenere l’elemento di riequilibrio per cui si adotta il vantaggio nel riconoscimento di uno svantaggio locale conclamato, reso evidente e generalmente riconosciuto nella sua materialità, quindi nel caso disagio ambientale/economico.

Le zone franche trovano spazio normativo all’interno del diritto doganale comunitario, qualunque sia l’espressione e lo spazio giuridico che le connota negli stati membri della U.E. all’interno delle rispettive normative nazionali, e le disposizioni che le regolano sono al Reg Cee 12.10.92 n. 2913, Istituzione del Codice Doganale Comunitario, e Reg Cee  2.7.93 n. 2454, Disposizioni di Applicazione del Codice, ricondotte a due sole definizioni, zone franche e depositi franchi, con la seguente dizione, “Le zone franche o i depositi franchi sono parti del territorio doganale della Comunità o aree situate in tale territorio, separate dal resto di esso…Gli Stati membri possono destinare talune parti del territorio doganale della Comunità a zona franca o autorizzare la creazione di depositi franchi.”, espressione di fatto poi emendata nell’approvazione da parte del parlamento europeo l’11/09/2013 del nuovo Codice Doganale, che, introducendo alcune modifiche, ha eliminato la distinzione tra deposito franco e zona franca, inserito le zone franche tra i regimi doganali speciali di deposito e non più tra altre destinazioni doganali e abolito le zone franche “non intercluse” (di cui all’articolo 168 bis del previgente codice).

A seguito di queste precisazioni l’elenco delle zone franche in Italia è costituito dal Punto Franco di Trieste, dal Punto Franco di Venezia, dalla Zona Franca di Gioia Tauro, unica zona non interclusa in Italia. Valle d’Aosta e Gorizia sono nominalmente zone franche, ma le esenzioni/agevolazioni fiscali di cui godono sono dovute a leggi dello stato che compensano la mancata istituzione della zona franca e non a specifici provvedimenti europei, mentre la città di Livigno, a norma dell’art. 3 del Codice è zona extradoganale, così connotandosi un territorio doganale della Repubblica Italiana costituito dall’intero territorio nazionale, tranne i comune di Livigno, il comune di Campione d’Italia, le acque nazionali del lago di Lugano,conunichezonefranche quelle citate.

In conclusione, se si parla di zona franca, che sia integrale, che sia zona franca al consumo o si tratti di altre espressioni, occorre ricordare che non esiste alcuna definizione giuridica alla quale riferirsi, e la precisazione non è peregrina, trattandosi nel caso delle dichiarazioni dell’assessore Berlinguer o del fumus millantatorio di qualcosa che non esiste ancora nella legislazione europea, seppur fosse quella italiana ad istituire una simile prospettiva di esenzione/agevolazione fiscale per la Valle dell’Agri, o di una forma di suadenza collettiva che sostanzialmente agita sempre la stessa carota davanti all’asino affamato per convincerlo a tirare la carretta. Di sostanza giuridica nelle sue dichiarazioni non v’è nulla.

E non vi è nulla perché se perno centrale del complesso di creazione di queste aree è l’art. 107 CE, il cui contenuto è concepito come garanzia del principio di libera concorrenza, a sua volta posto a difesa del mercato comune, stabilendosi che, salvo deroghe contemplate dal Trattato, sono incompatibili con il funzionamento del mercato comune, e vietati “nella misura in cui incidano sugli scambi”, gli aiuti in qualsiasi forma concessi dagli Stati quando “favorendo talune imprese o talune produzioni, falsino o minaccino di falsare la concorrenza“, non si comprende sulla base di quale normativa europea un tale beneficio territoriale possa essere concesso, demandandosi così a totale carico dello Stato italiano il peso del mancato gettito erariale. Così la domanda che sorge è “Può lo stato italiano assumersi tale gravame e sostenerlo in sede europea come attività non influente sulla libera concorrenza?”

Se poi l’assessore, giocando sui termini e supponendo l’asino ad interlocutore, parla di un qualcosa di simile alle zone franche urbane (ZFU), occorre ricordi che questa espressione nel panorama giuridico italiano è stata introdotta con la legge 27.12.2006 n. 296, chiarendosi che l’obiettivo della zona franca urbana è quello di sostenere le attività economiche in zone urbane svantaggiate, rafforzando le attività economiche con incentivi in forma di esenzioni/sgravi fiscali e sociali, consistenti in 1) esenzione dalle imposte sui redditi per cinque anni, 2) esenzione Irap, 3) esenzione Imu, 4) esonero versamenti dei contributi previdenziali, in un regime di aiuti autorizzato dalla Commissione in base all’art. 87, par. 3  lettera c del Trattato CE., essendo state istituite 44 zone franche urbane, tra cui Matera, nel decreto attuativo del 19/03/2013 a firma del ministro dello Sviluppo Economico Passera. Ma l’assessore non parla certo di questa possibilità, non trattandosi nel caso della Val d’Agri di un comprensorio urbano.

Allora forse l’assessore parla delle Zone Economiche Speciali o forse delle Zone Franche Fiscali, i cui contorni però non sono definiti a livello comunitario, essendosi delineata opposizione della precedente Commissione su due proposte della Merkel, la Zona franca fiscale per il porto di Amburgo e le zone economiche speciali per i paesi in crisi dell’Europa Mediterranea, evento che crea un precedente forse invalicabile per l’attuale Commissione presieduta da Juncker.

Non rimane allora che pensare a forme di fiscalità di vantaggio a livello regionale, dove l’orientamento precedente, cioè che le agevolazioni fiscali, disposte attraverso riduzioni del carico tributario, fossero acquisite al regime degli aiuti sull’assunto dell’equivalenza fra mancata realizzazione di gettito e spesa erogata a carico del bilancio dello Stato, è stato ribaltato con la sentenza del 6/09/2006 della Corte di Giustizia, che riguarda misure di riduzione delle aliquote delle imposte personali e sulle imprese nella Regione autonoma delle Azzorre, che la Commissione ritenne aiuti di Stato autorizzabili parzialmente, in quanto finalizzati a superare gli svantaggi dell’insularità, affermando di fatto che è il territorio nel suo specifico fisico-istituzionale a rappresentare il contesto in relazione alla selettività della misura.

I parametri di valutazione vengono individuati in uno statuto politico/amministrativo distinto da quello statale, un potere di assumere decisioni di politica fiscale senza l’intervento dello Stato, la mancanza di compensazione della riduzione del gettito mediante sovvenzioni ad opera del governo centrale, così chiarendo che è l’autonomia regionale a suggerire l’ammissibilità dell’esenzione, quindi in sostanza un provvedimento che in Italia riguarda le sole autonomie statutarie delle regioni a statuto speciale e non certo la Regione Basilicata.

Allo stesso livello opera anche la legge 5/05/2009, n. 42, “Delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell’art. 119 della Costituzione”,  che all’art. 7 comma c  recita: “ c) per i tributi di cui alla lettera b), numero 1),(tributi propri derivati, istituiti e regolati da leggi statali, il cui gettito è attribuito alle regioni) le regioni, con propria legge, possono modificare le aliquote e disporre esenzioni, detrazioni e deduzioni nei limiti e secondo criteri fissati dalla legislazione statale e nel rispetto della normativa comunitaria; per i tributi di cui alla lettera b), numero 2), (le addizionali sulle basi imponibili dei tributi erariali), le regioni, con propria legge, possono introdurre variazioni percentuali delle aliquote delle addizionali e possono disporre detrazioni entro i limiti fissati dalla legislazione statale;”, non riguardando ciò le accise sui carburanti che sono appunto materia statale.

Quindi se di cosa parli l’assessore Berlinguer non è chiaro nel contesto normativo, chiaro invece ci appare l’approccio sempre più politico dell’assessore il cui ruolo doveva essere tecnico, definendosi nei suoi interventi sempre più spesso una sorta di potere di indirizzo sulla destinazione programmatica dei territori che è tipico della politica e che, nel caso di specie, sembra volere dire ai cittadini della Val d’Agri “rassegnatevi al petrolio per molto, molto tempo, nel frattempo eccovi il miraggio, che la carotina forse seguirà”.

Sarebbe allora il caso che il presidente Pittella chiarisca se l’assessore ha ruolo politico senza essere stato eletto in questa terra, nonostante l’uso di qualche “noi” che mal s’addice ad un accento senese.

MiKo Somma, partito democratico

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La chiarezza delle scelte.

La situazione determinatasi al comune di Potenza è nota e non necessita di ulteriori commenti, sia per le fasi che hanno preceduto le elezioni, sia quelle tra primo e secondo turno, sia infine le fasi seguenti, quelle dove in un sequenza bizzarra e schizofrenica si è consumato un dramma, la liquefazione della politica cittadina o di quanto ne rimaneva, divenendo così la dichiarazione di dissesto l’epifenomeno di di quella stessa liquefazione.

Ciò chiarito, senza entrare in lunghe analisi storiografiche su una città presa in ostaggio da dinamiche altre rispetto a quelle dell’essere bene amministrata, quello che emerge è un panorama desolante che si palesa oggi drammaticamente non nel punto programmatico con cui si cercano le “larghe intese”, ma nelle larghe intese fini a se stesse (o alla “putenzes”), che ci si dà pena di spacciare come viatico per la salvezza della città dal commissariamento (inevitabile a mio avviso, stante la non congruità tra le previsioni di spesa e quelle di entrata per il 2015), individuando così il male nel bilancio, quasi eretto a totem, e non nelle metastasi della cattiva politica che ne ha prodotto i guasti su cui intervenire.

Cattiva politica che non è solo però il mal amministrare, sbagliando cioè obiettivi e perseguimento di questi, ma anche il non avere programmi e, duole forse ad alcuni doverlo ammettere, questo sindaco e la sua composita “anatra zoppa” non hanno mai avuto un programma, avendo sempre considerato il risultato di vittoria come evento impossibile, né lo hanno mai ipotizzato in 6 mesi spesi a minacciare di carte portate in procura, a spendersi sui social in compositi mantra contro i “vampiri”, a costruire sensi comuni di auto-giustificazione nell’opinione pubblica, e non, come pur ci si poteva aspettare, a mettere in piedi una visione e una strategia amministrativa convincente ed efficace, limitandosi all’atto politico, e non amministrativo, di un dissesto usato come base su cui costruire un ricatto per la sopravvivenza.

Ora è chiaro che le responsabilità del centrosinistra potentino sono evidenti, come altrettanto evidenti le responsabilità che decorrono per tutte le giunte susseguitesi dal post-terremoto, ma ciò non basta e non basterà per costruire una alternanza, servendo appunto il progetto e l’attribuzione a questo e solo a questo di chiamate alla responsabilità collettiva sulle quali poi costruire percorsi condivisi, mancando il quale il giudizio ovvio dei cittadini sulle stesse larghe intese sarebbe quello di un inciucio costruito a tavolino. Cosa la politica non può più permettersi, persino dal suo stato liquido, persino a Potenza

Così nel gioco denominato “a chi tocca muovere?”, parrebbe che ora la palla sia nelle mani di un pd di Potenza che di fatto è inesistente come entità democratica, nella sua non convocazione degli organi di assemblea, palesato anche dalla chiusura della sede cittadina, e “commissariato” da capicordata che a tutti i cittadini appaiono come correi di tale situazione – ed evidentemente costoro ignorano o fanno finta di non vedere che a tale sostanziale giudizio di correità occorrerebbe rispondere con il senso di responsabilità del mettersi da parte e non giocare alla ulteriore liquefazione della politica, inseguendo larghe intese senza un progetto.

Chiedo pertanto, credendo di interpretare sentimenti diffusi tra gli iscritti, che il segretario cittadino, nel presentarsi dimissionario, come pure il sottoscritto gli chiedeva per tempo dopo le elezioni, insieme a tutta la segreteria, ad un congresso cittadino di cui non si conosce la data nonostante l’urgenza di una convocazione, riconosca la marginalità nelle trattative con il sindaco della sua figura di capogruppo, così come per l’interezza della gestione di questa fase delicata, e convochi subito l’assemblea degli iscritti pd di Potenza, assemblea a cui sola poter delegare un vero dibattito e la decisionalità esclusiva sul sostenere la giunta De Luca o fare in modo che essa termini nella mancanza fattuale dei numeri democratici, decisione questa che implica collettivo perché si ritrovi dignità e senso politico.

Responsabilità della politica è la chiarezza delle scelte, la buona amministrazione ne è conseguenza.

Miko Somma, partito democratico.

Comunicato stampa

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La trasparenza opaca

Sono tempi in cui la parola trasparenza assume rilievo particolare nella comunicazione, sia da parte di chi la invoca da amministratori e politici, con ciò generandosi domande su etica della stessa politica e sua percezione in una visceralità che troppo spesso esprime condanna preconcetta/preventiva, sia da parte di chi, più o meno impegnato nella cosa pubblica e nelle sue responsabilità, tenta di offrirla ai cittadini in modi e tempi che però sempre più spesso si rendono merce di scambio tra richieste ormai trasversali di nuove pratiche politiche e tentazioni in agguato di far assumere alla risposta, quindi alla pretesa trasparenza sui propri atti, valore di puro significante retorico, di maniera, tale così da eludere ed inertizzare quella stessa richiesta.

Accade così che sia soprattutto sui social, strumento a cui innegabilmente oggi tanti cittadini ricorrono nel tentativo di distinguere tra vero e verosimile in politica (più spesso ricadendo nella seconda), che si ricorra ad usi autogestiti, o gestiti da supposti professionisti della comunicazione, di pagine dedicate all’attività di politici ed amministratori, a volte persino di istituzioni, nell’ottica di soddisfare in modo più diretto una moderna bulimia del cittadino di notizie e dati, purtroppo spesso falsati non dal dato in sé, ma dalla comunicazione dello stesso più in forma di spot idolatra per tifosi (ed ovviamente al contrario per i non tifosi) che di informativa concludente, generandosi così commenti, quindi partecipazione, o ai limiti della teologia servile o oltre ogni ragionevole contestare comunicazione, personaggio, istituzione, dovendosi forse concludere che i social a volte non servono a comunicare trasparenza, informazione in sintesi, ma per innescare pure passioni, in uno specchio triste di cosa la politica sia diventata.

Verrebbe da chiedersi quale sia l’utilità per il politico “vero” di aprire sui social una propria pagina solo per accogliere commenti di lode acritica dai supporters, se non appunto auto-elegia narcisista fondata sul senso del pecorile da un verso o ipocrita accoglimento della contestazione (a cui quasi mai viene fornita esauriente spiegazione), e così vien da chiedersi senso e utilità di pagine di istituzioni, che ben altre finalità devono avere, che non fare da camera del rosario supplice o da vomitatoio pubblico.

Ma il punto non è trattare di comunicazione, quanto chiedere conto del perché presidente della giunta regionale e giunta stessa abbiano aperto due pagine facebook a pagamento, sponsorizzate si direbbe nel cifrario linguistico del social, i cui contenuti non paiono informativi, quanto elegiaci dei “mi piace” di maniera e dei commenti dal tono calcistico a cui ovviamente, nell’impossibilità di alcun “non mi piace” in cui si esprimerebbe contrarietà più o meno motivata all’operare dell’istituzione, si accompagnano sia critiche serrate e legittime, ma anche offese, visceralismi ed argomenti da suburra, in un contesto dunque nulla affatto adatto all’ufficialità, seppur supposta colloquiale e diretta, che la comunicazione di una istituzione (ed istituzioni sono il presidente di una giunta regionale e la giunta, anche su un social) deve assumere per essere appunto informazione cogente e concreta e non altro.

E se su quelle pagine non c’è vera informazione, ma la comunicazione continua di uno spot elettorale e dal sapore personalistico, il cui costo ritengo non debba essere a carico della collettività, sovviene la domanda se non occorra chiarire nei dettagli modalità ed esercizio di quelle pagine – chi scrive, per conto di chi scrive, cosa scrive, chi lo/a controlla, come è stato inquadrato/a, a quanto ammonta il suo emolumento, che supponiamo non essere a carico del presidente e/o dei membri della giunta, visto il carattere che pretendono di assumere le pagine in questione – con il più chiaro approccio informativo ed i maggiori dettagli che magari una pagina di giornale può assicurare? In altri termini il presidente ci spieghi come mai dovrebbero essere le casse pubbliche a pagare il lavoro di qualcuno di cui non sono noti troppi particolari per desumerlo come pacificamente accettato a carico della collettività.

E tale prima domanda andrebbe soddisfatta con un dettagliato rapporto pubblico sulla interezza di una struttura informativa di cui i lucani invero poco conoscono, a cominciare dai collaboratori del gabinetto di presidenza ed assessori, per finire alle attività ed all’organigramma del sito basilicatanet, di cui forse andrebbero chiaramente indicati numero, mansioni ed inquadramento di collaboratori e responsabili, mission, costi globali di esercizio, allocazione logistica e via discorrendo nei tempi più rapidi possibili, chiedendosi se non sia poi il caso, nell’evenienza dei pesanti e noti tagli al bilancio regionale esplicitati nella legge di stabilità e dalla revisione e qualificazione della spesa, di razionalizzare quegli stessi costi che, se dobbiamo supporre ragionevoli, vanno però anche esplicitati con chiarezza, ed a cui debbono corrispondere servizi efficienti, anche rimettendo in funzione qualche link su trattamento economico e patrimonialità degli assessori.

La trasparenza dev’essere informazione, quindi significato, non propaganda, quindi mero significante, nel cui caso è la stessa trasparenza a divenire opaca.

Miko Somma, partito democratico. 

 

Comunicato stampa

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Differenze tra un politico ed uno statista.

L’intenzione prima, come preannunciava il mio commento allo specifico post sulla pagina facebook del presidente Pittella, pagina da cui si lancia la proposta di indirizzare domande sulla questione dell’art. 38 ad un indirizzo di posta elettronica dal quale egli avrebbe risposto (nel dubbio irrisolvibile che fosse qualche testa d’uovo del suo staff di comunicazione a rispondere), era palesare riflessioni e critiche ad riguardo un ricorso in/di merito alla Corte Costituzionale che doveva essere suggerito più dalla ragion critica e dal cuore, che non dall’appartenere a sensibilità politiche, ma rigettando in toto l’idea che sia il social “il luogo del dibattito” e non un “luogo” qualsiasi, le mie riflessioni sono indirizzate a che ritengo ancora fortemente lo strumento più adatto alla comunicazione politica, la carta stampata.

Presidente, come saprà la mia posizione personale e politica sulla faccenda dell’art. 38 era quel netto, inequivoco addivenire all’impugnativa e ad altre azioni locali, che le oltre 14.000 firme di sottoscrizione di cittadini alla petizione lanciata a metà novembre avevano sostanziato politicamente e che anche le modalità con cui le stesse sono state consegnate al Presidente del Consiglio Regionale come garante dell’assetto democratico avevano sugellato come evento della democrazia, e se di quelle firme pure si è tenuto conto, non gli si è dato però conto con atti concreti, soprattutto in conseguenza della mozione del 4 dicembre u.s. a cui, a mio avviso, le modifiche intervenute al testo dell’art. 38 non hanno reso giustizia, non contenendo queste ripristini di prerogative regionali come richiesto, ma la dislocazione decisionale in un quadro di intesa che rimane sostanzialmente fatto “esterno” alle potestà regionali della regione più fortemente interessata al piano delle aree.

Ma il punto che volevo sollevarLe non è l’aspetto tecnico-giuridico della vicenda, tra le altre spesso da me trattata con dovizie e mai confutata da alcuno, quanto declinare quello stesso aspetto tecnico in un punto politico che pare essere stato del tutto dimenticato sia dalla politica che dalla piazza, che pure lo aveva evocato nella manifestazione del 4 dicembre, riuscendo però a sostanziar più proteste in forma di inutili “assedi”, che non di vertenzialità che indicassero richieste contenutistiche, tranne appunto la petizione che veniva consegnata e che in quella piazza pure viveva.

E il punto politico che non può essere eluso neppure dalla nuova formulazione dell’articolo rimane non la tecnica giuridica del suo cambiamento con cui oggi lo si suppone più costituzionale, tanto da evitare di impugnarlo con certa dose di ipocrisia e calcolo e dimenticare che il compito di un Presidente di una Giunta e di un Consiglio Regionale è, a diritto ed a prerogative evidentemente lese dal nuovo testo di legge, anche ricorrere sic et simpliciter alla Corte Costituzionale, senza considerazioni altre che non la semplice lesione del diritto, ma la valenza politica che quel dettato introduce sul futuro della regione.

In altri termini se il dibattito si sposta sui tempi dilatati che il nuovo dettato sembra assicurare, anche al di fuori della volontà esplicita del Governo di non privarsi della risorsa idrocarburi lucani, in una visione del testo modificato che sembra presupporre l’impaludamento della norma in meccanismi farraginosi, e si sposta così sull’immediato pericolo scampato, ciò non significa affatto che quei tempi domani non diverranno concreti in un quadro legislativo in cui nel frattempo saranno probabilmente intervenute la riforma del Titolo V della Costituzione e la “cancellazione” delle regioni e delle loro potestà legislative, e, divenendo concreti, materializzandosi nell’incubo “damigiana petrolifera” che, a volere essere seri, non è proprio quanto già autorizzato in Val d’Agri e Val Sauro, e che non richiede di essere novellato normativamente per arrivare ai quantitativi autorizzati, ma l’estendersi delle aree all’intera regione.

Il punto politico, Presidente, è se Lei considera quanto accadrà solo tra qualche anno, il tempo tecnico che occorre per passare dalla oggi contorte fasi di autorizzazione e disegno delle aree interessate alla produzione eventuale di idrocarburi all’esplorazione concreta e poi alle estrazioni vere e proprie, in prospettive di effetti trentennali, forse anche maggiori, o se considera solo quanto accadrà nel volgere di una esperienza amministrativa da cui ripartire per nuovi traguardi, l’orizzonte cioè di quei pochi anni di veduta politica che De Gasperi indicava come il distinguo tra uno statista che guarda al futuro ed un politico, o un politicante, come dicesi oggi, che guarda solo fino alle prossime elezioni.

E così l’unica domanda che le pongo è capire quale sia il suo orizzonte temporale in una vicenda che pone domande sul domani, quale domani avrebbe questa terra una volta ridotta a reservoir petrolifero, come è ben evidente nelle intenzioni di chi suggerisce strategie al manovratore ed al legislatore, forse meno chiaro a chi crede che barattare quel futuro per una propria posizione personale sia etica e non lordume da guerra di posizionamento in attesa degli eventi che verranno.

La Basilicata, Presidente, come tutti sappiamo, ha scarso peso demografico nei numeri nazionali per essere incisiva, ma se la supposta autorevolezza della classe politica lucana serve solo per decantare presunti successi (che tali non sono affatto nella lettura del testo e nella previsione degli effetti) a solo scopo interno rispetto all’esplodere dei dubbi e delle contraddizioni, mi permetta di dubitare che Lei sia parte di quell’ormai sempre più ridotta categoria degli statisti e che invece Lei non sia che la fotografia di un presente fatto di politici che tristemente costruiscono un domani niente affatto bello.

Miko Somma, partito democratico.

Comunicato stampa

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Fuffa o becchime per allocchi

L’aria di festa paesana sorta intorno all’approvazione in legge di stabilità 2015 dell’emendamento 553 sembra la felicità del condannato all’impiccagione perché alla ruvida corda di canapa si sia deciso di sostituire l’eleganza di un cordino di seta, non derivando da questa approvazione alcuna miglioria del testo approvato della legge 164/2014 di conversione del decreto 133/2014, noto come “sbloccaitalia”, segnatamente a quell’art. 38, semmai verificandosi un curioso fenomeno di interessata presa in giro della gente lucana che al lettore più attento non dovrebbe affatto sfuggire, mentre continua una prassi artatamente confusa del governo di scrivere leggi illeggibili (ciò attenendo a culture della legislazione ormai giunte ai minimi storici) approvate da un parlamento succube di “pratiche del decreto compiuto”.

E se il presidente Pittella esulta nel suo renzianesimo provinciale e con lui tutta una convertita corte di “stolti” che sembrano omaggiare più una interessata filiera di opportunità personali e di cordata che si celano dietro l’atteggiamento più che supino al governo nazionale, che una cultura dell’interesse reale del territorio – ormai persino dimentichi di autonoma capacità di lettura legislativa – personalmente quest’aria di festa pare del tutto fuori luogo ed a tratti imbarazzante per subalternità, una subalternità che è ormai considerazione quotidiana dei lucani comuni, quelli non “legati” a quelle stesse filiere.

Il dato è che l’intervenuta modifica che si sostituisce all’art. 38 bis della legge 164/2014 che converte il decreto 133/2014, quindi il testo del novello 38/1-bis. “Il Ministro dello sviluppo economico, con proprio decreto, sentito il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, predispone un piano delle aree in cui sono consentite le attività di cui al comma 1. Il piano, per le attività sulla terraferma, è adottato previa intesa con la Conferenza unificata. In caso di mancato raggiungimento dell’intesa, si provvede con le modalità di cui all’articolo 1, comma 8-bis, della legge 23 agosto 2004, n. 239. Nelle more dell’adozione del piano, i titoli abilitativi di cui al comma 1 sono rilasciati sulla base delle norme vigenti prima dell’entrata in vigore della presente disposizione.» che sostituisce il testo “Il  Ministro  dello  sviluppo  economico,  con  proprio decreto,  sentito  il  Ministro  dell’ambiente  e  della  tutela  del territorio e del mare, predispone un piano delle  aree  in  cui  sono consentite le attività di cui al comma 1.”, se forse appare più “costituzionale” in una percezione che non dovrebbe essere interesse della Regione Basilicata, quanto del Governo, di fatto non cambia la sostanza di quanto disposto nella interezza del combinato dell’art. 38 e dei precedenti, la decisione finale sulle aree ad interesse per la prospezione, ricerca, coltivazione e stoccaggio nel sottosuolo di idrocarburi (comma 1 art. 38 legge 164/2014) non spetta alla regione, ma ad una generica intesa di una conferenza di servizi, dove la parte lucana (supposta portatrice degli interessi territoriali) si limita alla sola presidenza della giunta regionale, dovendosi accontentare di mera rappresentanza per i contributi di ANCI, UPI ed UNCEM.

E la cosa non finisce certo qui, dovendosi “incassare” anche l’ulteriore “goal” che porterebbe al 5 a 0 la partita (per il Governo, non certo per la Basilicata) dei termini perentori all’intesa posti dall’articolo 1, comma 8-bis, della legge 23 agosto 2004, n. 239, che fissa 150 giorni per l’intesa dove si presume assenso (di fatto esistendo diktat e non alcuna intesa ove si è obbligati a dire si), 30 per obbedire agli “ordini” del Governo che avoca a sé in caso contrario la decisione, ulteriori 60 perché quest’ultimo dica infine di si ad un piano delle aree elaborato con decreto ministeriale (quindi fuori dal Parlamento) e da approvarsi non in stretta relazione con le regioni interessate, ma nel complesso della conferenza e quindi della sua generalità di temi, spingendo così all’angolo la nostra scarsa demografia, nella caduta di interesse generale allo stesso piano di aree vocate alle estrazioni che, proprio a leggere la Strategia Energetica Nazionale e le sue previsioni di aumenti sino al 15% del fabbisogno energetico nazionale della quota estratta nell’Appennino Meridionale, lascia ben pochi dubbi su quale sia in terraferma il bacino più interessato.

Ciliegina finale che porta infine ad un risultato tennistico è poi la regolazione dei titoli presentati nelle more di approvazione del piano delle aree che viene demandato alla normativa vigente prima della modifica, quindi allo stesso art. 38 nella sua globalità ed al comma 1/bis così come formulato nella sua approvazione precedente alla novellazione intervenuta, in un “pastrocchio” legislativo la cui funzione si presta anche alla presentazione di titoli che finirebbero per essere approvati fuori dallo stesso piano, non essendo più vigente la normativa antecedente il 38 stesso e dovendosi per principio generale legiferare in Parlamento per la regolazione dei rapporti sorti durante la “vacatio” in oggetto, mentre rimanedo integro il testo che conferisce entro 180 giorni la titolarità della istanza di titolo concessorio, come al comma 7 dell’art. 38, di fatto si bypasserebbe ogni regolazione con un effetto far-west.

E tutto ciò accade in un contesto non affatto modificato per ciò che concerne i “bocconi amari” del 38 e precedenti, in tema di esproprio, di vincolo di uso, di varianti urbanistiche e via discorrendo, semmai dovendosi rilevare che l’unica norma che poteva salvaguardare la regione da ulteriori estrazioni fuori dalla “bufala” del dover regolare le attuali autorizzate e non ancora attive (Tempa Rossa ed il limite di raggiungimento dell’estratto alla intesa per la Val d’Agri, cosa per la quale, ad accordi firmati da anni, non si comprenderebbe allora perché legiferare in modo tanto permissivo e favorevole alle compagnie da costituire di fatto una liberalizzazione) altro non era che il recepimento dell’odg approvato alla Camera, con parere positivo del Governo, che limitava a 154.000 barili/giorno la quota massima di estratto, ovviamente traducendo quella cifra espressa nella giuridica formulazione del “secondo le intese già raggiunte ed operanti” da inserirsi nella Legge di Stabilità, cosa dalla quale il Governo si è ben guardato, poiché avrebbe fissato un limite invalicabile che evidentemente non si vuole affatto.

Questa la realtà che ruota intorno a quell’articoletto così scarno nel suo peggiorare forse la situazione, che da noi però è stato inteso, malinteso e fuorviato per esigenze altre dagli interessi del territorio a non voler sopportare ulteriori aumenti di quote produttive, sia nelle zone già oggetto di estrazioni per gli accordi, sia in tutte le altre “a rischio”, quasi tutta la regione, a voler considerare anche le varianti di estensione dei titoli concessori per le infrastrutture a sostegno.

Cosa ci sia quindi da inneggiare rimane un mistero, mentre invariata è una necessità, che la Regione non aspetti gli ulteriori 60 giorni concessi dal 553 per opporsi, ma lo faccia da subito prima al 38 nel suo complesso, poi al 553 nel particolare, avendo nel frattempo il gruppo di cui mi onoro di far parte stamane presentato e consegnato al Presidente del Consiglio Regionale quasi 3000 firme alle oltre 11.200 già presentate di sostegno alla petizione popolare che abbiamo lanciato nella prima decade di novembre, e per la quale finora oltre 14.000 cittadini hanno apposto la loro firma che è una forte richiesta politica al Presidente della Regione di fermare le bocce della sua partita persa che però non ha alcun diritto di perdere per tutti noi lucani.

Si opponga ed eviti quindi, insieme ai consorziati di non abili alla lettura che sembrano sostenerlo, di spandere ulteriormente fuffa o becchime per allocchi.

Miko Somma, partito democratico.

 

Comunicato stampa

ieri non mi è stato possibile pubblicarlo sul blog, a causa di problemi manutentivi sul server che hanno impedito l’accesso per qualche ora…inviato comunque alla stampa, posso solo ora pubblicarlo…e magari avrete fatto in tempo a leggerlo sui giornali…

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Una regione che deve cominciare a far tesoro delle sue povertà

Il paradosso di salvezza relativa delle regione da aumenti estrattivi che sono in nuce nell’art. 38, nella riforma del titolo V e nella strategia energetica nazionale che ne è la matrice causale, è probabilmente nel prezzo del greggio, sceso ormai a livelli tali da non essere forse più conveniente avviare processi di sistema, troppo vicino al cosiddetto break even che le compagnie fissano intorno ai 45 dollari/barile, ma sufficiente ancora a garantire che lì dove si estrae o dove le autorizzazioni sono in essere, si continui a farlo, compensando con le quantità estratta il minore introito.

Ciò ovviamente non significa aumenti estrattivi immediati nella Val d’Agri, ma probabilmente la tendenza a fare in modo che quanto al memorandum in tema di aumenti, i 26.000 barili/giorno, diventi presto realtà dopo una stagione in cui lo stesso sembrava dimenticato tra decreti attuativi e la nuova contestata disciplina.

Ora che il prezzo del greggio sia sceso a livelli inferiori ai 60 dollari a barile per il prezzo di riferimento del wti (il greggio americano) e del brent (il greggio del mare del nord) abbastanza evidentemente è frutto sia della crisi che innesca minori consumi, quindi maggiore disponibilità, quindi minore prezzo, sia di strategie di produzione da parte dei paesi opec che non possono permettersi di produrre meno per sostenere un prezzo che dipende sempre meno dalle loro riserve e sul quale minori sono quindi le prospettive di controllo dello stesso, nonché dalla sempre maggiore abbondanza di idrocarburi da scisto di produzione americana, che probabilmente in questo momento storico sono il volano di una guerra di logoramento rispetto alla Russia di Putin ed alle sue nuove mire imperiali. Ma tutto ciò, come rileva l’articolo della Nuova, qualcosa pur significa per le casse della regione Basilicata, dove l’apporto delle royalties costituisce un punto nodale della gestione finanziaria dell’ente che ne risente in termini di minori disponibilità finanziarie, ancorchè bloccate dai vincoli del patto di stabilità:

Questo naturalmente letto nella quotidianità significa che i quasi 170 milioni di euro del 2012 – diventa molto divertente ricordare che fino a poco prima l’allora presidente De Filippo si scherniva dietro 50-60 milioni che in parte il sottoscritto ha evidentemente fatto “lievitare” con la sua penna e quattro calcoli-  diventano cifre meno rilevanti prospetticamente i per bilanci regionali, ma soprattutto per le partite finanziarie ed assistenziali che da queste poi dipendono, forestazione, vie blu, copes ed ancora università e sanità dove sostanziano la tenuta dei L.E.A. altrimenti poco gestibili. Si obietterà che nelle pieghe del patto di stabilità ciò non costituisce problema e che a minori entrate ciò che si decurterebbe realmente è la quota ad oggi accantonata come riserva, ma ciò in tutta evidenza significa minori gettito accantonato da destinare all’investimento in caso i vincoli si allentino.

E naturalmente questo impone una doverosa riflessione sulla stabilità delle risorse finanziarie regionali, che, come la variabilità intervenuta sul prezzo del petrolio insegna, rischiano di esser dipendenti da fattori di rischio non controllabili in loco e così mutevoli fino al punto di non costituire più partite affidabili di bilancio, almeno fino al momento in cui continuerà la loro immissione nel bilancio corrente e non, come auspicabile, nella spesa per investimenti strutturali. In poche parole se ci crede di potere continuare a fornire assistenza a circa 4.000 operai forestali perché in qualche modo possano poi accedere ai “benefici” della disoccupazione, occorre tener di conto che tale operazione potrebbe risultare variabile di anno in anno e non ottenere più i risultati sperati – ed ovviamente anche il consenso elettorale derivante – esattamente come su ogni altra partita finanziata dalle royalties dirette.

Ciò che si palesa così come evidente è la caduta del modello sociale fondato sulle royalties come “cassa”, una pratica scellerata economicamente e, seppur comprensibile nei suoi ruoli di “paracadute sociale”, fuorviante rispetto ad ogni idea di sviluppo reale del comparto economico locale, nella evidenza di un fallimento epocale e di estraniamento dalla realtà di classi dirigenti nate 20 anni fa sulla base di un modello politico del tutto crollato sia di fronte alla crisi, sia soprattutto rispetto al fiato cortissimo delle politiche reali di sviluppo, incapaci di fare sistema del territorio nella valorizzazione delle potenzialità, piuttosto riducendosi ad un modello esportativo affidato a pochi attori economici, sostanzialmente fiat ed eni, la prima entrata in crisi ed avendovi trascinato l’indotto locale, la seconda per sua natura poco occupazionale ed i cui numeri reali ancora oggi sono oggetto di campagne di propaganda a giorni alterni, che essenzialmente lascia al territorio le sole royalties come segno di una sua presenza operativa.

In poche parole, aver “royaltizzato” l’economia regionale ha di fatto sviato le risorse verso un sistema baronale e parcellizzato di spesa delle stesse senza operazioni di sistema, impedendosi ciò che risorse da considerarsi in guisa di straordinarietà avrebbero pur dovuto spingere a pensare e tentare di realizzare, un progetto regione di ampio respiro e novità in grado di rendere la marginalità geografica e produttiva come attrattore dei processi innovativi che in tutta Europa si giocano oggi proprio sulle regioni più svantaggiate, partendo dalla rivalutazione del loro isolamento come elemento di “differenza” che fa la “differenza”, e non solo in termini turistici, ma nel senso di un più ampio settore produttivo legato al territorio ed a sue specificità altrove introvabili, il “terroir” a volerne fare una traslazione dal mondo vitivinicolo.

Trovare, rivalutare, imporre quel terroir sarà compito di ben altre classi dirigenti in grado di comprendere che ogni euro di royalties investito in assistenza a fini elettorali sottrae esponenzialmente decine di euro al settore produttivo di una regione che deve cominciare a far tesoro delle sue povertà, mentre auspicabile sarebbe che lo stato cominci a considerare il petrolio lucano non più materia energetica, ma riserva strategica di prodotti di sintesi di un paese che ancora ha una grande impresa manifatturiera. E dietro le firme che abbiamo raccolto e presentato e che ancora raccoglieremo e presenteremo non c’è solo protesta, ma la richiesta di cambiamento di paradigma produttivo, in Basilicata come nel resto del Paese.

Miko Somma.

 

comunicato stampa

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L’unità non è nella mediazione tra gruppi dirigenti

L’impressione rimane quella di una assemblea PD che non si è affatto aperta al dibattito sull’art. 38 ed impugnativa, rimanendo piuttosto confinata contenutisticamente a passerella di interventi notabilari dal tono spesso ripetitivo ed ecclesiale, in grado di far assopire ogni forma di partecipazione della platea di delegati, molti dei quali giovani che, ben oltre le correnti, probabilmente avrebbero espresso dubbi e richieste di chiarimenti verso la posizione che senza voto pare aver chiuso quella stessa assemblea e che, in estrema sintesi, si potrebbe riassumere in un “i nostri parlamentari tratteranno con il Governo la modifica dell’art. 38 nella legge di stabilità, ormai prossima all’esame parlamentare, quindi non vi è bisogno alcuno di impugnare per non scontentare Renzi, se non come ultima possibilità”.

E potrebbe sembrare un ottimo risultato, se non vi fosse quella distanza semantica enorme tra ciò che in democrazia è sostanza, la forma, e ciò che non lo è (o lo è solo in funzione della prima condizione), quelle relazioni che ancora una volta s’adducono a “motivo” politico, questa volta incardinandole in una supposta autorevolezza, più volte citata a mantra acritico, che la classe dirigente lucana avrebbe in virtù della sua partecipazione al Governo, due sottosegretari, e a una Giunta Regionale fotocopiata ad immagine e somiglianza con il dominus romano che così garantirebbe quel magnanimo, inusitato e incommensurabile ascolto delle istanza made in Lucania che in verità e dovendoci raccontare la verità per intero non ci pare di avere finora recepito quando si parlava di comitatini e di voti sacrificabili.

Questa analisi ovviamente e come pronunciato dal sottoscritto nel suo sospirato intervento alla coda di un’assemblea che non trattando temi organigrammatici non si comprende perché abbia visto il forzoso scivolamento dello stesso in favore di molti interventi clonati sulla relazione del segretario e prolusione del presidente, non significa che i buoni risultati economici ottenuti, ancorchè parziali e da chiarire fino in fondo nei loro effetti pratici, dai nostri parlamentari sulla riscrittura in commissione del disposto che ci riguarda più da vicino (ma è chiaro che è l’intero complesso della legge a riguardarci come lucani ed italiani) non siano rimarchevoli e positivi, ma piuttosto che è una operazione di deviazione dal senso comune quello spostare la risposta alla vera domanda che i lucani si pongono, “ma l’articolo 38 farà aumentare le estrazioni, oltre quelle già autorizzate?”, dall’ovvio “si, con la formulazione dell’articolo in breve tempo ciò sarà possibile” a quella più tranquillizzante di un “arriveranno molti soldi”.

Ora è abbastanza evidente che quella stessa classe dirigente che edulcora il contenuto dell’articolo 38 addormentando il senso comune sui denari che arriveranno dai due precedenti, ben conosce invece il rischio reale del dettato di legge e sull’evidenza del pericolo tenta una difficile mediazione per limarne almeno gli aspetti più pericolosi, uno con il tetto estrattivo a 154.000 barili/giorno come da accordi per la Val D’agri e Tempa Rossa, già passato come o.d.g. alla Camera (che impegna il governo, ma non lo obbliga), l’altro sulla modifica concertata con la Conferenza delle Regioni del senso dell’intesa di cui allo stesso 38, da far passare entrambi o anche singoli come emendamento alla legge di Stabilità, con ciò naturalmente tentando di recuperare ciò che il decreto toglie, il controllo democratico locale su una materia che a costituzione vigente è ancora potestà delle regioni. E si dicono sicuri che lo otterranno.

Buone dunque le intenzioni, ma quale e dove sia il punto di ancoraggio di queste intenzioni alla prassi decisoria di un Governo che in genere impone con la fiducia il consenso alle camere, piuttosto che far in modo che facciano ciò per cui sono state elette, legiferare? E chiedersi dove e quale sia “la pezza di appoggio” di queste sicurezze non è una mera operazione di lana caprina, ma sostanza stessa della democrazia, perché se la “pezza” è nelle relazioni, e quindi nei soggetti, immediatamente si pone serio il problema di quale sia la fiducia di cui poi localmente dispongono gli attori, oltre che la più generale preoccupazione che lo scivolamento nelle leadership forti dei premierati nazionali, corrisponda poi alla nascita di esarcati locali e non di fatti democratici, come sembra peraltro indicare la ulteriore caduta della partecipazione popolare alle elezioni regionali in Calabria ed Emilia Romagna.

E se alla prima domanda è facile osservare che se ancoraggio esiste, non è nei fatti della democrazia formale che pure è base della democrazia reale, e meglio allora andrebbe spiegato sia ai lucani che ai partecipanti al massimo organo decisiorio ed assembleare del principale partito della regione, piuttosto che calarlo come atto di fede che mortifica la partecipazione ed il dibattito collettivo per una passerella declaratoria di notabili, e forse più nella sudditanza di corrente e nei posizionamenti personali si trova la radice della decisione di non “urtare” il Governo con l’impugnativa se non come ultima speme, alla seconda altrettanto facilmente si può osservare che quella fiducia, semmai esistita, probabilmente non esiste più da parte dei cittadini, risiedendo piuttosto solo in filiere baronali di consenso.

Sulla scorta di queste considerazioni, il sottoscritto, che non appartiene a correnti interne sia locali che nazionali (sarà che per me l’appartenenza si esprime sul consenso ad un documento programmatico e non mai ad una persona fisica con cui troppo spesso si identifica la politica), ho ricordato al presidente Pittella, al segretario regionale Luongo, ai parlamentari ed alla parte di assemblea rimasta in sala che se l’unità non è nella mediazione tra gruppi dirigenti, ma nella sintesi di un dibattito reale in un partito plurale e non baronale, presentare l’impugnativa al decreto è atto dovuto rispetto alla lesione del diritto corrente che il dettato dell’articolo 38 opera sulle competenze regionali ed in subordine municipali, e così sui cittadini che queste istituzioni elette rappresentano con l’elezione diretta e non “porcellizzata”, dei rappresentanti, ed è atto di dignità di una regione e di un popolo a cui non si possono raccontare più frottole od imbonire rimedi da fiera medioevale, un popolo che sembra avere ormai capito tutto.

Si faccia subito opposizione e nel frattempo si vada avanti con ogni trattativa, ma rendendola pubblica e così democratica. Anche perché ci sono ormai molte migliaia di cittadini che apponendo la loro firma ad una petizione, stanno chiedendo ad un presidente di fare il presidente, come si avrà modo in pochi giorni di mostrargli consegnandole allo stesso, firme che rappresentano un dissenso che non vive solo sulle piazze, ma all’interno del partito di cui egli è massima espressione amministrativa locale.

Miko Somma, partito democratico  

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Un dovere etico opporsi all’art. 38, non lesa maestà.

Ciò che lascia letteralmente basiti nella lunga lettera urbi et orbi alla comunità lucana del presidente Pittella non è tanto la sua inopportuna scompostezza in un momento in cui la stessa società lucana esprime con nettezza la sua contrarietà a ciò che l’art. 38 porta con sé, l’estendersi a tutta la regione di mire all’idrocarburo ovunque le compagnie e un ufficio ministeriale, l’UNMIG (più un braccio armato del petrolume salottiero che organo di funzione pubblica) ritengano conveniente mirare, quanto la sua dislessia comunicativa e la ipovisione di ciò che a suo dire si qualifica come una raccolta firme ad una petizione popolare promossa da movimenti legati a non meglio precisati esiti elettorali del passato.

Sappia allora il presidente che il movimento a cui si riferisce, stigmatizzandone la presenza davanti a chiese e parchi pubblici con i suoi banchetti, quasi non fossero questi dei luoghi pubblici opportuni, è ampiamente trasversale, partecipato e comprende persino pezzi importanti del suo partito, tra cui con umiltà il sottoscritto e molti militanti che credono così di dovere interpretare non gli umori di gruppi in qualche modo dirigenti, ma il sentimento diffuso dei cittadini lucani che non vogliono sentire parlare di ulteriori espansioni della faccenda idrocarburi e della melma che in 16 anni si è trascinata dietro.

Ma, ed è triste notarlo ancora, di argomenti concreti il presidente non ne ha per difendere quell’articolo e non ne ha sulla vera ed unica questione a cui tenta di non rispondere da tempo, deviando il tema da ciò che crudamente esso rappresenta – quell’articolo, così formulato, facilita procedure di concessione di titoli minerari e non si comprende perché fatta la legge poi una compagnia non debba approfittarne, cominciando attività di ricerca ed estrattive senza valutazioni politiche che provengano dagli enti locali, bensì aspetti meramente tecnici, fondati su criteri dettati da decretazioni ministeriali – piuttosto usando argomenti economici neppure affrontati nel merito, ma lasciati in sospeso a mo’ di caroti per allocchi, furbetti e purtroppo i tanti disperati di una società resa debole da tanti, troppi malaffari.

E nel suo stile consueto, che rileva profonda dislessia politica, egli continua ad agitare la sua amicizia con il presidente del consiglio come un “contenitore di speranza” di quel trattamento particolare che sarebbe, senza riferimento alcuno ai precedenti che vanno però in senso contrario, in qualche modo riservato alla nostra regione. E tutto ciò appare vergognoso perché offende non solo l’intelligenza dei lucani, ma persino quell’idea di democrazia che ritiene che, oltre i luoghi fisici di una democrazia reale, siano il confronto multivettoriale e il merito stesso delle cose a essere “luogo” della democrazia, e non quelle relazioni personali che in quanto tali rischiano di precipitare il concetto stesso di democrazia in oligocrazia ed una regione in un califfato, o peggio un esarcato governato da stolti funzionari.

Che quindi il presidente stia tentando di blandire e stigmatizzare la petizione popolare – che pure è un fatto della democrazia che occorre imparare ad accettare – attribuendole fini strumentalmente politici e populistici è del tutto ridicolo, oltre che fuori luogo, quando, oltre e nelle sue “relazioni”, è egli stesso che agita la “carotina” di benefici economici in rapido arrivo e di cui non si fatica a individuare il tenore di grida populiste a giroposta assistenziale, uno strumento cioè volto al mantenimento di un consenso che vacilla clamorosamente, dopo la sua “rivoluzione democratica” già archiviata per la conservazione più grigiastra del potere e delle sue filiere. Che non pronunci neppure la parola strumentale, proprio lui che durante le primarie ha trascinato nel suo carniere opportunismi, destrismi, affarismi di natura varia ancora da chiarirsi e quella quota di sfruttamento bieco della disperazione della gente che è diventato affare quotidiano per politicanti pseudo-nuovisti, da via Verrastro fino a Palazzo Chigi.

Si rassegni quindi a considerare quelle firme come la civile risposta dei cittadini e ne attenda migliaia, che avremo il piacere di consegnargli a breve per fargli considerare la materia del ricorso alla Corte Costituzionale come dovere etico-politico di un Presidente e non come un affronto o una lesa maestà.

Miko Somma.

Comunicato stampa

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Tra la sacra piazza, il califfo, i pescivendoli, c’è una petizione che contiene la regione.

Le pulsioni auto-generatesi nella piazza anti-art. 38 di questi giorni sono il sintomo di un malessere di fatto ormai generale sulla questione idrocarburi che non può passare inascoltato da parte degli organi di governo regionale, qualsiasi siano le parole d’ordine, qualsiasi le estemporaneità o le incongruenze politiche che la stessa piazza mostra come ogni piazza che sia popolare, condivisa e coesa intorno ad un tema che non sarà una conferenza stampa ancien règime, riverniciata a casereccio cambiaverso, a sopire, perché sono le ragioni stesse della protesta a superare i dati tecnici e generali sulla situazione petrolio, dati di cui il sottoscritto, con una interrogazione fatta presentare in consiglio regionale, ha finalmente reso auto-edotta una giunta e un presidente che finora parlavano a vanvera.

Ed i dati dicono che, ben oltre le rilevanze economiche che paiono rendere i proventi degli idrocarburi così necessari all’economia regionale (mentre forse più vero sarebbe che è il costo economico di anni di clientele di filiera e sprechi cialtroni ad avere necessità di quei proventi) ridurre a monetarizzazione i dati innegabili di un articolo che “apre” le porte alle trivelle con miglioramenti si ottenuti, ma mutevoli e liquidi nelle previsioni di finanza nazionale e sul principio reso asettico di un “trivello, però vi pago” che farebbe da pretium doloris (e che non tiene conto che a volte esiste anche chi non ha prezzo), è atto democraticamente pericoloso e ben poco lungimirante.

Un atto di pervicacia che se da un lato appare non volere tener di conto che assumere la presidenza di una giunta regionale obbliga anche a non confonderla con un califfato, dall’altro pur dovrebbe aprire la riflessione su quale possa essere il futuro di una regione di cui l’intero territorio sarà condizionato da strategicità, quindi vincolo di destinazione, varianti urbanistiche coatte, quindi sostanziale impossibilità alla programmazione a medio-lungo termine degli enti locali, decretazioni e circolari ministeriali che di fatto assumono da noi carattere di strumento di legge, assoluto condizionamento del nostro territorio a politiche di mercato e finanziarie degli operatori che condizionerebbero non solo il territorio stesso, ma persino le sue finanze, dal momento che l’economia regionale ne sarebbe del tutto condizionata.

E se questa non è una forma di neo-colonizzazione funzionale di un territorio marginale di che format democratico stiamo allora parlando, di che assetto di relazione tra politica locale e popolazione, di che relazione di leale collaborazione tra stato ed autonomie locali? E quale classe dirigente servirà mai per gestire un territorio che di fatto necessiterà più di plenipotenziari delle multinazionali che di politici ed amministratori?

Ovviamente le parole di Pittella e Speranza scavano solchi profondi tra la rappresentazione pur ideale  di una politica al servizio della gente e la realtà che da quell’articolo 38 pende più che minacciosa sulla questione petrolio in questa regione, solchi profondi tra le relazioni personali che non esito a definire di servitù sciocca in un caso e puro conservazionismo di posizione nell’altro e la condizione, sperabile ed auspicabile per chi crede ancora nella politica come strumento di regolazione della vita della comunità, che tanto a Roma, tanto a via Verrastro vi si stia per difendere gli interessi veri della regione e dei suoi abitanti, non per altre ragioni rimescolate ad arte nella solita solfa tutt’appostista che credevamo ormai alle nostre spalle.

E se la storia è quella già vista, altrettanto già vista sarà quel solito scegliersi l’interlocutore con cui far scaramuccia, la piazza pura e le sue pulsioni più facilmente smontabili, scelte con cura tra i significanti adatti allo scopo di stigmatizzare la protesta come il visceralismo anti-moderno che necessita sempre dei suoi “pescivendoli”, magari attendendo un naturale sopirsi delle proteste nel continuo ricorrere alla mobilitazione.

Ma esiste anche altro nella protesta, esiste chi intende la piazza come uno strumento di coesione tra sensibilità differenti che necessitano di raccordarsi intorno a progetti comuni, e non come fine ultimo da devolversi in slogan e fumogeni da stadio per le velleità di improbabili masanielli, esiste chi intende la protesta come il primo segno del risveglio collettivo di una regione che non ne può più di oligarchi, di filiere, di vendite a saldi, di bugie e mezze verità, di paludi, di inefficienze e sprechi, di quell’universo in cui la faccenda idrocarburi è nata e vissuta fino ad ora.

Esiste chi crede che la politica debba ascoltare la piazza e le sue rivendicazioni organizzate anche in forma di una petizione che chiede semplicemente ed a ragion veduta al presidente Pittella di compiere  il suo dovere, rappresentare i cittadini, mediante tre semplici atti, opporsi all’art. 38 nella ragion veduta della lesività nei confronti di prerogative legislative regionali a oggi vigenti costituzionalmente, di fatto riscrivendo la costituzione con leggi ordinarie, bocciare ogni istanza giacente presso la Regione per impedire il suo traslarsi nella disciplina del Titolo Unico al 31/03/2015 e per impedirle tout court, indire al più presto, previa adozione di idoneo strumento legislativo regionale, referendum consultivo su ogni ipotesi di aumenti di estrazioni.

Presidente Pittella, Capogruppo Speranza, la piazza, quella che si denigra quando si vuole negarne la ragione causale, ma quella che si sceglie come interlocutore privilegiato perché la si suppone stadio e poca conoscenza delle cose per meglio disarticolarne le motivazioni, quella piazza, fatta di giovani che però studiano e si informano, di operai che lavorano duro nelle più difficili condizioni o che vorrebbero soltanto lavorare, di pensionati a pochi euro e di famiglie intere, di padri e figli, quella piazza firma a migliaia la petizione che avremo il piacere di consegnarvi per ribadirvi che la regione è dei cittadini e non di un Presidente del Consiglio e dei suoi amici delle multinazionali.

Miko Somma

Comunicato stampa

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Non è un Miracolo a Matera…

Non fosse stato per l’accurata preparazione cui è stata sottoposta la candidatura, l’indiscutibile grande bellezza di una città paradigma del trascorrere dei millenni dalla preistoria fino alla sua modernità, una partecipazione, a tratti commovente, dell’intera popolazione lucana al lungo processo d’avvicinamento al momento in cui il ministro Franceschini ha pronunciato il suo nome, potrebbe gridarsi al miracolo ed invece Matera passa dall’essere città candidata, già un onore anche rispetto a candidature concorrenti di città di grande prestigio storico e culturale, a divenire capitale europea della cultura 2019 con tutte le carte in regola, quelle storico-artistiche, dai Sassi al suo barocco, quelle culturali con eventi che via via hanno assunto carattere di regolarità e grande proposizione partecipativa, quelle civili, riassunte in un marginalità geografica che lungi dal chiedere alcun mendicio riparatore, propone invece quella sua differenza che diviene nuova centralità in un paese per sua natura, storia e carattere policentrico.

Matera così vince e non è un miracolo o una casualità o persino un regalo, ma il finale di una lunga e faticosa corsa in cui sarebbe stato impossibile, inutile, persino assurdo verso la propria storia e cultura mentire e mentirsi, perché se ha vinto una piccola città che coniuga passato e presente verso il futuro di una regione altra in un meridione altro – un meridione “minore” agli sguardi e al metro di giudizio con cui in genere si accede al concetto stesso di sud – vuol dire che ha vinto la forza morale di presentarsi per ciò che consapevolmente si è, senza belletti o sovrastrutture, senza stereotipi e luoghi comuni.

Ma, a gioia ancora corrente, è già da oggi che Matera e la regione intera devono prepararsi alla sfida di quale territorio, quale cultura, quale futuro, quale “motivo” si offrirà alla percezione ed alla fruizione di un pubblico internazionale più attento, più profondo, più esigente del “mordi e fuggi” di cui in genere è stato finora composto il nostro turismo, ed a cominciare dal dato primario che non avremo più turisti, ma più “viaggiatori”, sulle nostre strade, nei vicoli, nelle piazze di Matera, sperabilmente della regione, poiché chi si muove sull’onda della cultura e della storia preferisce di gran lunga il viaggio difficile, ma denso, alla residenzialità ridanciana e vacua dei villaggi vacanze e del consumificio dei luoghi.

Così che la vera sfida è preservare il nostro territorio per ciò che esso è nei contrasti e nei tagli di luce, nella urbanizzazione entropica a risorse fisiche, economiche ed umane e nella meravigliosa solitudine dello spirito che anche un acciottolato di campagna può donare, nel frinìo delle cicale e nella spazialità del volo del nibbio reale che accompagnano i sensi persino nei nostri centri urbani, nella convinzione di una “differenza” di questa terra da ogni altra terra, differenza che misura un tempo ed uno spazio in grado di dilatarsi come “altro” in una Europa sempre più simile, omogenea, “uguale”.

Matera vince per questa differenza che racconta un territorio, la sua storia e le sue genti “socialmente difficili” senza affabulare/affabularsi in narrazione epica, ma lasciando sedimentare sulla pelle di chi la trova, senza neppure cercarla, quella forma del sentimento e dell’emozione che è già nelle cose, negli odori e nei sapori, nei manufatti, nel sole, nei volti dei suoi abitanti, che se non sono certo più quelli di scatti antropologici, nei tratti portano ancora la cesura tra mondi diversi al centro del Mediterraneo.

Il miglior modo di “costruire” la capitale della cultura è lasciare che sia il territorio lucano in cui vivono i lucani a mostrarsi per ciò che è e non per ciò che alcuni vogliono che sia, per ciò che offre agli sguardi che osservano l’intimo delle cose ed alla gioia anche difficile dei sensi, e non per ciò che da qualche parte essa conserva in forma di risorsa, per ciò che si rinnova nei secoli e nelle generazioni e non per ciò che si consuma hic et nunc per qualche punto decimale di un qualsiasi freddo metro di valutazione o per insani faraonici desideri di calare e colare ovunque una presenza umana troppo invasiva e meno attenta ad un tramonto intravisto da San Pietro Caveoso che al metro cubo di una infrastruttura inutile.

Matera 2019 non sia solo l’inizio/fine di un periodo, ma l’occasione di riscrivere con parole, fatti ed atti nuovi il futuro/presente di una regione che la sua modernità deve cercarla nella storia e nella terra.

Miko Somma

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L’aiuto impossibile, improponibile, indecente

Pur essendomi riproposto di non intervenire nel dibattito cittadino, non posso non constatare il pericolo di quel “buco” di bilancio incombente sul futuro della città capoluogo, tanto da pregiudicarne persino la continuità democratica nel rischio dissesto e commissariamento, buco però su cui non abbiamo merito della consistenza, dovendo il sindaco De Luca nominare suoi “esperti di fiducia” (e non lo era anche il suo assessore?) al fine di contabilizzarlo e portarlo alla missione di ripiano che il presidente Pittella, se prima condiziona ad una discussione consiliare – forse memore di troppe incongruenze sulla faccenda degli idrocarburi – poi però, nel suo stile, si “allunga” ad assicurare nella generica formula “la regione non sia un bancomat”.

Ora che la regione non debba o possa essere il bancomat per i dissesti dei comuni è argomento a cui immagino siano in primis gli altri 130 comuni lucani ad esser sensibili, maturandone in caso contrario, un senso di palese ingiustizia nei loro confronti, anche per via delle ripetute dazioni finanziarie che, in ordine sparso, si sono riversate finora sulle disastrate casse comunali del capoluogo, argomento questo non di secondo piano in un momento in cui quasi tutti i comuni lucani sono in difficoltà, ma il problema reale forse è di ben altra natura.

Ammesso che pur si riesca a stabilire in maniera contabilmente evidente il buco di bilancio e che sia in qualche modo oggetto di ripianamento da parte della regione, da dove mai verranno queste risorse, se solo fino a qualche settimana fa si lamentava della probabile bancarotta dell’ente regionale se non si fosse intervenuti sul patto di stabilità interno? E tali dazioni non metterebbero la regione di fronte a sforamenti dei parametri del proprio bilancio tali da essere ancor più pericolosi, se possibile, di un dissesto finanziario del capoluogo?

Risorse che o coprono subito e per intero un disavanzo dai 10 ai 24 milioni di euro (vedremo quando e quanto il funzionario, nel frattempo divenuto dirigente, farà i conti) o a poco servono, vista la fase di chiusura del bilancio comunale che non ammette tempi troppo lunghi.

Che poi al comune di Potenza nessuno abbia ancora pensato ad esperire ogni possibilità di accesso a quel fondo rotativo per la stabilità degli enti locali, al decreto dell’11 gennaio 2013, approvando il piano di riequilibrio finanziario decennale che se ne possa avvalere, soprattutto considerandone sia la entità ammissibile (approssimativamente 18 milioni di euro), sia la mutualizzazione a tasso 0 che per dieci anni comporterebbe oneri finanziari aggiuntivi al bilancio del comune di meno di 2 milioni di euro, sia infine considerando che la regione Basilicata ha stanziato già 1,5 milioni di euro di risorse proprie da erogarsi agli enti con piano di riequilibrio approvato dalla Corte dei Conti, tutto ciò fa comprendere che la vera natura del problema è politica e non esclusivamente finanziaria.

Politica perché il problema pare essere più chi si ritroverà la patata bollente dei tagli di spesa corrente in caso di un accesso al fondo di rotazione (5% strutturale), cosa che non mancherebbe di avere delle più che prevedibili conseguenze sul consenso dell’amministrazione in carica, o degli inevitabili rincari sui servizi a domanda individuale o dei tagli degli stessi nel caso di un dissesto finanziario che porti in seguito al commissariamento del comune ed a inevitabili seguenti provvedimenti di risanamento, cosa questa che avrebbe un peso politico non indifferente nel momento di nuove elezioni.

Ed ecco il vero punto sul quale si gioca la partita politica, consapevole la giunta un carica di non avere agibilità politica sui numeri consiliari e non volere pregiudicare la propria azione in larghe intese difficili da spiegarsi ai propri elettori, consapevole il centrosinistra che ogni scivolamento nel dissesto sarebbe un atto di accusa conclamato verso le proprie passate gestioni.

Una situazione complessa, ma nella quale pare entrare a gamba tesa il presidente Pittella con una ingiustificabile disponibilità al salvataggio di un bilancio consolidato strutturalmente deficitario e di una giunta che, non colpevole della situazione attuale, non dispone però di agibilità numerica in consiglio comunale e non ha alcuna possibilità di gestire l’amministrazione, pure in un ipotetico salvataggio che sono i numeri della finanza regionale stessa a non consentire. Verrebbe da chiedersi perché Pittella offre impossibili aiuti a De Luca, per salvare Potenza o per continuare la sua guerra interna al Pd?

Condizioni politiche che suggerirebbero quindi come vie obbligate o tentare extrema ratio di salvare il bilancio affidandosi al fondo di rotazione (suicidio politico per De Luca e il suo peculiare centrodestra) o, considerando impossibile in quantità finanziaria, improponibile politicamente verso la intera regione, indecente perché segue logiche celate di equilibri tra le fazioni pd in lotta, tali importi di aiuti regionali, la rassegnazione operosa al dissesto e al commissariamento che, se pure porterà ad aggravi di spesa notevoli per i cittadini, allo stesso tempo libererà la città sia dalla melassa di un bilancio impossibile a sanarsi nella continuità politico-contabile con cui si è formato finora, sia dal peso amministrativo della “leggerezza” mediocre con cui la città è stata finora divorata da interessi intrecciati privati e clientelari, ma soprattutto libererà Potenza dalla condizione democratica insostenibile palesatasi in primavera per giochi, controgiochi e doppigiochi, condizione che serve sanare con un nuovo voto, quando serviranno uomini e pratiche politiche nuove, non inciuci o trame o politicismi di dubbio gusto.

Miko Somma

 

 

 

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Confilitto e termini, tra Machiavelli ed il Gattopardo.

Confesso che la spropositatamente lunga relazione del presidente Pittella sull’affaire degli idrocarburi connessa al decreto 133/2014 (meglio conosciuto come “sblocca italia”), che nella giornata del 23 u.s. ha occupato per ben 70 minuti il Consiglio Regionale, mi ha lasciato interdetto, non tanto in termini di pochezza argomentativa continuata su una questione che non è misurabile solo in termini economici o meramente legati al patto di stabilità –di ben altre valutazioni si dovrebbe tener conto –  quanto per la raffazzonata e annacquata spiegazione, quasi una scusa, per i comportamenti “solitari” e “relazionali” del presidente nel merito dei colloqui con il Governo, un comportamento questo che più volte ho avuto modo di stigmatizzare come non consono alla forma-sostanza della politica.

Ma il punto non è accusare Pittella di aver tentato una mediazione impossibile con mezzi non consoni, trattare con chi ha già deciso e senza che il Consiglio Regionale venisse informato formalmente della questione, lasciando così spazio a interpretazioni che molto male hanno fatto all’intera società lucana, e neppure di aver troppo tardi compreso il “trabocchetto”, essendo chiaro che i colloqui con il ministro Guidi ed il sottosegretario Vicari tendevano a verificare la “disponibilità trattante” più che riconoscere a Cesare ciò che ad Augusto non era stato riconosciuto, di avere “indorato” con comunicazioni scorrette una sconfitta come una vittoria, seppure al primo tempo.  

Il punto è che, dopo quanto accaduto con la presentazione del decreto, forse è pura patologia fideistica riporre ancora questa ostinata fiducia in un governo le cui intenzioni sono chiare – può essere possibile che, mutato di forza il quadro normativo con la surrettizia anticipazione del titolo V contenuta nel decreto, non si vada spediti verso aumenti di estratto che sono già quantificati dalla Strategia Energetica Nazionale in almeno il 15% del fabbisogno energetico del paese da ricoprirsi con idrocarburi estratti nell’appennino meridionale? 

Fiducia del nostro Presidente che a tratti ha raggiunto l’apoteosi ingenuistica, quando, schernendosi, ha tentato distingui fuorvianti tra raddoppio delle estrazioni correnti ad accordi chiusi (raggiungimento delle quote estrattive delle intese 1998 e 2006, più la quota aggiuntiva del Memorandum, per un totale di 180.000 barili/giorno, quindi il doppio dei 90.000 estratti giornalmente in Val d’Agri), argomento sulle cui ricadute in termini di ritorno economico indiretto avrebbe trattato prima dell’arrivo del decreto, e le intenzioni reali di un governo che certo non poteva, nell’astrattezza formale della legge, fissare quote di estratto che però è la norma che prepara, i decreti attuativi organizzano, la realtà tecnica sul campo consente di raggiungere. Quasi a dire che non è vero che il governo voglia raddoppiare l’estratto.

Fortunatamente, tra alti e bassi della discussione consiliare, giunge l’approvazione di una risoluzione condivisa che impegna in una corsia stringente il Presidente, sorreggendolo con appoggio trasversale, che in democrazia conta molto più delle supposte buone relazioni, in un tentativo di condivisione con la Conferenza delle Regioni, la Conferenza Unificata ed i parlamentari lucani, finora piuttosto silenti, dei temi che riguardano gli art. 36, 37 e 38 del decreto, allo scopo di intervenire in sede di conversione parlamentare del decreto stesso per modificarne la sostanza. Una buon inizio, si intenda.  

Due pecche però, l’una, il decreto porta con sé una miriade di argomenti distorsivi il corretto e leale rapporto tra stato e autonomie locali tali da non permettere lo stralcio solo di alcuni passaggi normativi che lascerebbero però irrisolti i nodi della fattuale privatizzazione delle acque (art. 7), dell’ingresso del privato nella gestione diretta della sanità pubblica (art. 16), della deregulation edilizia (art. 17), del commissariamento straordinario, quindi in capo al controllo verticistico del premier, ab origine di ogni intervento di bonifica, con annesso potere alle variante urbanistica (art. 33), della strategicità degli inceneritori nel ciclo dei rifiuti, superando i bacini di ambito (art. 35), tanto per citarne alcuni, punti che suggeriscono l’impugnativa totale o quasi totale del decreto che occorrerebbe portare alla condivisione delle altre regioni, l’altra, il pericoloso attendismo di modifiche emendative in Parlamento che potrebbero essere inficiate dalla più che probabile richiesta fiducia che o farebbe cascare il Governo in caso di no o lascerebbe inalterato il testo uscito dal Quirinale avente valore di legge dal giorno della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. 

E ciò potrebbe sollevare questioni di merito rispetto alla data di partenza del termine di opposizione presso la Corte Costituzionale, tema questo di carattere tecnico-giuridico appellabile dal Governo che, in caso di accoglimento da parte della Corte retrodaterebbe alla data della pubblicazione in Gazzetta, i termini per l’opposizione, ed in ogni caso allungandosi i tempi e fatti salvi gli atti compiuti dall’entrata in vigore fino all’eventuale giudizio di incostituzionalità, si darebbe così modo al Governo, nello specifico del nostro caso, di permettere il “rientro” in potestà ministeriale delle istanza di ricerca giacenti presso la regione, di cui al comma 4 dell’art. 38, un argomento questo che in ogni caso dovrebbe spingere gli uffici e la Giunta Regionale verso una più che rapida conclusione negativa degli iter stessi. Meglio così sarebbe stato l’impegno a proporre subito opposizione sia al decreto che al testo di conversione. 

Un decreto, lo sblocca italia, oggettivamente molto simile alla politica delle destre che ci siamo appena lasciati alle spalle, per non prefigurare nella filosofia dello stesso, come nell’ormai prossimo jobs act, un pagamento diretto a queste ed alle loro logiche per la conservazione del “potere per il potere” che ormai sembra essere lo stilema politico del governo Renzi. Altro che cambiar di verso, quindi, qui si va da Machiavelli al Gattopardo, passando sul cadavere del regionalismo e di una regione colpevole solo di galleggiare sul petrolio.

Miko Somma.

 

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Una conferenza stampa di dubbio gusto.

Confesso di non sapere molto di calcio, ma ammesso e non concesso che la Basilicata abbia fatto un goal nel primo tempo, è allo scadere del 90’ (a volte dei supplementari e persino al termine dei rigori) che una partita la si definisce vinta. E così continuando l’attesa di un testo che come Godot pare non arrivare mai, annunciandosi piuttosto ad Alpe che partorisce un topolino che a lubrificante estremo del Paese , lascia basiti l’incapacità di comprensione di alcuni che in democrazia la forma è sostanza.

E la forma che diviene sostanza in un corretto assetto democratico impone che le conferenze stampa, fotocopia in stile di altre conferenze (seppur sbagliando per la fretta il contenuto delle slides), quando riguardano argomenti di interesse comune impongano preventivamente consultazioni e comunicazioni con la filiera del volere del popolo, il Consiglio, per dare appunto sostanza formale alla delega ricevuta e non limitare invece l’area della democrazia a quella volatilità affidata ai media, spesso nemica della ragione, che precipita il senso critico in personalismo carismatico.

Così se il presidente Pittella continua il suo gioco di relazione personale con indefiniti ed indefinibili esponenti del Governo, gioco che gli consegna evidentemente conoscenza di un testo del decreto che è ancora sconosciuto ai più (tutti mortali, si intende), e convoca una conferenza stampa per annunciar ciò che solo egli conosce e che non poteva attendere di essere condiviso con il Consiglio Regionale, la visione che se ne ricava, oltre al plagio provincialotto del metodo, è che la democrazia vera, quella che vive nella correttezza formale delle relazioni istituzionali e non nell’etere di qualche social network, la prima vittima del decreto.

Ma andiamo nel merito, stigmatizzando in primis ogni entusiasmo per i goal al primo tempo, ribadendo che ogni fuoriuscita di somme dal patto di stabilità è comunque elemento di ricatto che per gli anni a venire agisce solo sulle maggiori entrate (quindi sulle maggiori quantità di estratto), rimarcando che misurare in termini solo economici una severa questione che si pone sull’integrità del territorio è molto più complessa di qualche decina di milioni da manipolare, facendo infine notare che se il decreto non contiene quantitativi di barili da estrarre, quasi quindi un elemento di dolcezza del provvedimento, ciò è invece dovuto solo alla natura astratta della legislazione, essendo già dalla primavera 2013 indicata percentualmente nella Strategia Energetica Nazionale, almeno il 15% del fabbisogno energetico del Paese da ricavarsi nell’appenino meridionale, segnatamente in Basilicata e semplicemente perché qui è già evidente, comprovata e sfruttata la presenza massiccia di idrocarburi disponibili.

Risulta così stonata l’enfasi paterfamilistica del presidente e della sua corte rispetto ad una materia che lascia troppe zone oscure sia nella gestione della faccenda petrolio una volta calato il sipario della strategicità di cui nessuno pare voglia parlare nella sua vera accezione che consiste nella possibile secretazione, sia nelle garanzie ambientali di cui non v’è traccia alcuna nel decreto, sia infine negli iter di unicità dei permessi che ritornati in quota statale e perfezionati dalla riforma del titolo V, si pongono in luce e prospettiva assai diversa rispetto all’attuale anche con una non meglio precisata “intesa” con le regioni che sarà naturalmente oggetto di una regolazione a parte e meno mediatizzata dell’attuale.

Così in una recita a soggetto di cui nessuno conosce la trama, ma di cui si individua già l’epilogo, come è possibile che proprio nell’equivalenza tra forma e sostanza in democrazia, il presidente Pittella convochi una conferenza stampa dai toni rassicuranti, mutuata presto in trionfalismo spiccio dai fan più sfegatati, sul testo finale di un decreto che speriamo il Presidente della Repubblica Napolitano non firmi, ravvisandone palesi incongruità costituzionali e sostanziale pericolosa vaghezza dei contenuti?

Tutto ciò è corretto formalmente e sostanzialmente se nei fatti si “distrae” l’opinione pubblica con dei “biscottini”, saltando a piè pari il vero tema, l’aumento delle estrazioni e delle zone di estrazione, da evitarsi in ogni forma, la mancata corresponsione di maggiori royalties per i quantitativi attuali, il vero tema che continua a porsi ed essere eluso con sconcertante puntualità, ma soprattutto il rapporto con la lettura politica del volere dei cittadini lucani alle scorse elezioni?

Presidente Pittella, perché non racconta ai lucani che fine ha fatto la procedura di valutazione presso l’AIRTUM del nostro “registro tumori” che quasi due anni fa si dava per validata in un mese? Perché non racconta che il centro olii sfiamma oltre il consentito e che occorre chiuderlo per verifiche tecniche come pure qualche sfiammata fa si era minacciato? Perché non racconta che i sistemi di conteggio dell’estratto andrebbero partecipati dalla regione? Perché non racconta le troppe zone d’ombra che rendono ai lucani impossibile accettare anche un solo barile in più di quelli generosamente concessi fino ad ora od un solo metro quadrato in più di zone di ricerca, estrazione od asservimento? Perché non racconta di quella indicazione politica netta e chiara che il Consiglio Regionale aveva espresso in quella impropria moratoria ed a cui contenuto ci si era attenuti, bocciando molte richieste e che ora sembra archiviata in una sua relazione personale che, mi consenta di dirlo, non ha nulla di politico e molto, troppo di cordata assentiva ad un premier che ormai definisco imbarazzante per il Paese?

Miko Somma