Girano tanti lucani per il mondo, ma nessuno li vede, non sono esibizionisti.
Il lucano, più di ogni altro popolo, vive bene all’ombra.
Dove arriva fa il nido, non mette in subbuglio il vicinato con le minacce e neppure i “mumciupì” con le rivendicazioni.
E’ di poche parole.
Quando cammina preferisce togliersi le scarpe, andare a piedi nudi.
Quando lavora non parla, non canta.
Non si capisce dove mai abbia attinto tanta pazienza, tanta sopportazione.
Abituato a contentarsi del meno possibile si meraviglierà sempre dell’allegria dei vicini, dell’esuberanza dei compagni, dell’eccitazione del prossimo.
Lucano si nasce e si resta.
Gli emigranti che tornano dalla Colombia o dal Brasile, dall’Argentina o dall’Australia, dal Venezuela o dagli Stati Uniti, dopo quaranta anni di assenza, non raccontano mai nulla della vita che hanno trascorso da esuli.
Rientrano nel giro della giornata paesana, nei tuguri o nelle grotte, si contentano di masticare un finocchio o una foglia di lattuga, di guardare una pignatta che bolle, di ascoltare il fuoco che farnetica.
E di uscire all’aurora se hanno un lavoro o un servizio da compiere, uscire all’oscuro per tornare di notte.
Non si tratta di una vocazione alla congiura o alla rapina ma di una istintiva diffidenza verso il sole. Dove c’è troppa luce il lucano si eclissa, dove c’è troppo rumore il lucano s’infratta. Non si fa in tempo a capire questo animale, a fare un passo di strada insieme, che già fugge alla svolta. Per andare dove?
Gli amici che hanno qualche dimestichezza coi lucani hanno capito la strategia, li fanno cuocere nel loro brodo. C’è un tratto caratteristico dei lucani, un tratto sfuggito ai viaggiatori, da Norman Douglas a Carlo Levi, sfuggito ai benefattori, da Adriano Olivetti a Clara Luce, e forse agli stessi sociologi.
Il lucano non si consola mai di quello che ha fatto, non gli basta mai quello che fa.
Il lucano è perseguitato dal demone della insoddisfazione.
Parlate con un contadino, con un pastore, con un vignaiolo, con un artigiano.
Parlategli del suo lavoro.
Vi risponderà che aveva in mente un’altra cosa, una cosa diversa.
La farà un’altra volta.
Come gli indù, come gli etruschi egli pure pensa che la perfezione non è di questo mondo.
E difatti, scolari e bottai, tagliapietre e sarti, muratori e fornaciari si fanno seppellire ancora con tutti gli arnesi.
Essi pensano di poter compiere l’Opera in un’altra vita.
Quando avranno pace.
Non trovano in terra le condizioni necessarie per poter fare il meglio che sanno fare.
Strana etica.
L’ultimo tocco, il tocco della grazia il lucano non lo troverà mai.
Eppure nella nitidezza del disegno ti parrà di intravvedere l’opera compiuta.
Manca un soffio.
Questo è un popolo che la saggezza ha portato alle soglie dell’insensatezza.
Come una gallina che s’impunta davanti alla riga tracciata col gesso l’intelligenza dei lucani si distoglie per un niente, si blocca appena sente volare una mosca.
(Da L. SINISGALLI, Il ritratto di Scipione e altri racconti, MI, Mondadori, pp. 165-166)