com. stampa di comunità lucana-mov. no oil

comulucana.JPG 

 

La ferriera di Potenza, et propter…

 

 

All’epoca della nascita la ferriera di Potenza era allocata oltre la periferia del modesto circuito urbano che la città capoluogo occupava all’epoca, in una fase edilizia che ancora non prefigurava il grande e per molti versi dissennato sviluppo che la città ebbe negli anni 70 (gli uffici della regione attrattori di classe impiegatizia) e ben più velocemente nel post-terremoto. Era solo rione Betlemme, contrada posta all’ingresso est della città, con l’annesso carcere cittadino a sovrastarla, e qualche propaggine del rione Chianchetta, ad affacciarsi in quella che era la zona industriale in espansione di Potenza.

                                                          ferriera.bmp

  

Che la ferriera di Potenza avesse un impatto ambientale poco si avvertiva in quegli anni precedenti la tragedia dell’Icmesa di Seveso, fatto questo che per molti versi sollevò il tema nell’intero paese di un inquinamento industriale fino a quel momento non percepito nella sua interezza, sia per mancanza di parametri affidabili di rilevamento che nella sistematica deviazione dall’argomento-tabù di una paese che passava dalla ricostruzione al boom, prima del cappio dello shock petrolifero. E così ancor meno si avvertiva in una città affamata di lavoro, in quel tacito patto che imprenditoria, politica e sindacati dell’epoca strinsero sullo sviluppo industriale che cambiando il volto del capoluogo, cambiava anche una regione dove la parola ambiente era stata fino a quel momento intesa come patrigna.

  

Altri anni, certo altre antropologie del lavoro e dello sviluppo, ma nei fatti d’oggi la ferriera di Potenza, la cui proprietà è più volte passata di mano dalla primigenia cordata locale che la fondò, è allocata in una zona dove si affacciano periferie sempre più organiche all’abitato principale, zone residenziali insediate bizzarramente e ad alti costi collettivi lungo le alture prospicienti, il quartiere di Bucaletto e la sua provvisorietà divenuta stabile, e quella strutturazione sempre meno industriale dell’area che è la stessa della storia recente dell’industria italiana, e così a lungo si potrebbe anche discutere di piani regolatori che hanno consentito ciò, in ossequio più che alla ragione al partito del mattone.

  

Diviene allora sempre più evidente che in questo caso la qualità e la quantità dell’impatto che un sito industriale ha per sua intrinseca natura – solo da noi ed in qualche paese del terzo mondo pare non lo abbia affatto – vada di continuo misurato e comunicato alla cittadinanza, nell’evidenza conclamata che quell’impianto lì non dovrebbe più stare. E se delocalizzare il plesso produttivo presenta problemi che sono di natura finanziaria (chi e come paga), di ricerca di siti idonei (logica suggerirebbe un’altra zona industriale ben più infrastrutturata delle montagne di Vietri), finanche di rilevanza “politica” visto che proprio la disponibilità di siti vicini (zona industriale di Tito Scalo) è vanificata dal consorzio ASI, proprietario dei lotti, e da una bonifica mai partita per quanto stabilita e finanziata, rimane però intiero il problema se e di quali dati siano raccolti e poi trasferiti alla cittadinanza, che per legge dello stato e convenzioni internazionali, pur dovrebbe essere praticata da ARPAB e Dipartimento Ambiente.

  

Accade allora che alle ripetute richieste di un cittadino attivo nella difesa dell’ambiente e forse anche dell’ormai malinteso senso di cittadinanza percepito da alcune istituzioni, ARPAB risponda con dati -non dati, cioè rilevazioni insufficienti, campionamenti bizzarri, discontinuità, ritardi o comunicazioni monche che lasciano l’amaro in bocca, divenendo la cosa preoccupante in presenza di voci di utilizzi di materiali non conformi negli altoforni dell’impianto. Speriamo tutti che si tratti solo di sospetti, forse di fantasie, ma non aiutano quei dati “rassicuranti” messi in rapporto alla “anomalia di funzionamento” verificatasi proprio in ARPAB che temiamo rappresenti una prassi costante e generalizzata nel tempo e nello spazio dei monitoraggi nell’intera regione.

  

Chiediamo pertanto che, nelle more di una delocalizzazione dell’impianto fattasi sempre più urgente, anche in relazione alla presenza della ex Cip Zoo e ad altre attività che gravano sul pomposo “parco fluviale” del Basento e tuttavia da realizzarsi con cura avendone individuato l’idonea allocazione ed il relativo finanziamento, i cittadini vengano immediatamente rassicurati con fornitura di dati inequivoci, con prassi costanti di messa a disposizione degli stessi, monitoraggi specifici per sostanze specifiche ed incontri con la cittadinanza per la presentazione degli stessi. Ed il sottoscritto – et propter nomen porto – insieme al movimento a cui appartiene non mancherà di verificarne l’adempimento.

 

 

Miko Somma, coordinatore regionale di Comunità lucana – Movimento No Oil

Pubblicato in Blog

07/11/2011

giornate piene…obiettivo fenice ed il suo superamento, poi verrà tutto il resto…a breve notizie sulle cose pratiche da fare (e sono tante) e da condividere con tutti i lucani per trovare il senso di una vertenza comune su ogni istanza che riguarda la nostra regione…ogni comitato od associazione si senta libero di partecipare perchè ogni attacco ad una sua parte è un attacco a tutta la regione che riguarda tutti…basta divisioni, lontananze, distacchi, indifferenza…fermiamo questi delinquenti che credono di mettere un prezzo persino a salute e rispetto della terra e ad i loro progetti dissennati opponiamo un’altra idea di lucania…un’altra lucania è possibile, un’altra lucania è necessaria

miko somma