globalizzazione, istruzioni ragionate per la fuoriuscita (parte II)

4.    le politiche di deregolamentazione, liberalizzazione e privatizzazione

Dobbiamo chiarire subito che trattasi di tre fenomeni distinti, ovvero la deregolamentazione (ingl. deregulation) affonda le sue radici nella teoria dei mercati contendibili, che analizza i comportamenti monopolistici ed afferma che la rimozione delle barriere protettive istituzionali permette l’entrata sul mercato di nuovi operatori, che costringono gli attuali monopolisti ad abbassare i prezzi e a migliorare la qualità dei servizi, secondo il concetto di concorrenza potenziale, che asserisce che, in assenza di protezioni istituzionali, il monopolista si comporta come se fosse in concorrenza non abusando della sua posizione dominante (qualora alzasse il prezzo dei propri prodotti per realizzare rendite di monopolio, entrerebbero sul mercato aziende marginali attratte dalla rendita stessa e che ne uscirebbero non appena il monopolista abbassasse nuovamente i prezzi, pertanto un’impresa, quando anche sia l’unica presente in uno specifico mercato, in assenza di barriere istituzionali, risulterebbe controllata dalla concorrenza potenziale), le liberalizzazioni, ossia la rimozione dei vincoli che rappresentano restrizioni alla concorrenza e l’adozione di atti che garantiscano le condizioni favorevoli affinché le dinamiche concorrenziali si sviluppino, in attuazione ai principi del liberismo economico (abolizione delle restrizioni al commercio estero e cioè di dazi, divieti, contingenti, monopoli statali di vendita o acquisto di merci e valute, cambi, restrizioni all’accesso di mestieri e professioni, licenze, autorizzazioni o condizioni restrittive all’uso di prodotti o servizi, semplificazione delle procedure amministrative), le privatizzazioni, ossia le cessioni a un soggetto privato di beni patrimoniali da parte dello Stato o degli enti pubblici territoriali con specifico interesse alle imprese che forniscono servizi pubblici nazionali e locali, in particolare, alle cosiddette public utilities (PU) come energia, gas, acquedotti, trasporti e telecomunicazioni, in accordo a teorie economiche liberiste che, pur riconoscendo il ruolo ‘strategico’ di tali servizi, vedono con favore la loro fornitura senza un intervento diretto della pubblica amministrazione, attendendosi guadagni di efficienza economica da un contesto di competitività dei mercati e delle imprese, con intervento pubblico limitato alla tutela della concorrenza ed controllo dei vincoli tariffari e di qualità 

I processi di liberalizzazione e sviluppo della concorrenza, unitamente alle privatizzazioni delle c.d. aziende di stato, sono stati per molto tempo considerati come gli unici veicoli per accelerare i necessari processi di ristrutturazione industriale di comparti ad alto interesse pubblico, sotto forma di riduzione degli esuberi, riqualificazione del personale, acquisizione di tecniche a maggiore intensità capitalistica e controllo di gestione, politiche di marketing etc., nella spesso falsa aspettativa che per introdurre tali innovazioni fosse primaria la capacità della nuova proprietà di assumere manager forniti di necessarie competenze, di cui difettano i manager pubblici.

In sostanza, però, mentre i processi di deregolamentazione hanno prodotto vere e proprie jungle dove prevale una sorta di diritto del più forte, ovvero di chi detiene maggior forza materiale (finanziaria, relazionale e contrattuale) ed i processi di liberalizzazione spesso hanno condotto a nuove rendite di posizione affatto dissimili dalle precedenti (e spesso del tutto coincidenti) semplicemente perché non bastano aperture legislative per creare nuovi attori produttivi, ma servono investimenti e facilitazioni finanziarie, i processi di privatizzazione si sono spesso ridotti a pura svendita di patrimonio e funzioni pubbliche verso soggetti privati in grado di collettare ingenti risorse finanziarie attraverso operazioni di borsa o di credito bancario, che non possedevano alcun know how gestionale specifico per le attività in liberalizzazione, e che troppo spesso si sono limitati al taglio netto dell’occupazione come unica modalità di ristrutturazione aziendale, quando non a veri e propri spezzatini di unità produttive organiche da rivendere a loro volta per massimizzare i bassi investimenti di acquisizione delle proprietà pubbliche.

5.     l’affermazione del fenomeno delle imprese multinazionali nello scenario dell’economia mondiale

Le maggiori imprese multinazionali hanno spesso budget maggiori delle economie di interi paesi e svolgono ormai un ruolo primario nei processi di globalizzazione, con una sempre più forte influenza sulle relazioni internazionali degli stati coinvolti nelle loro attività (ovviamente sono “multinazionali” anche le piccole e medie imprese, PMI, dotate di un impianto di produzione o di distribuzione all’estero, ma chiaramente non stiamo parlando di queste attività, anche se partecipanti a pieno titolo ai processi e sotto-processi della globalizzazione), tanto da potersi affermare che il loro ruolo ormai primario nella produzione mondiale di beni e servizi e nel numero di addetti ( in alcuni paesi ¾ dei beni e servizi sono ormai offerti da imprese multinazionali o controllate e circa il 30% del lavoro attiene direttamente od indirettamente a queste).

Il loro ruolo, determinante anche in precedenza, è tuttavia cresciuto a dismisura soprattutto a partire dagli anni ’90, di pari passo con i processi di liberalizzazione regionale e globale del commercio. Come già accennato, sia a causa della concorrenza internazionale, che della razionalizzazione della produzione, queste imprese tendono a ridurre i costi di produzione e ricercare fattori di produzione a basso costo, tra cui tutte quelle forme di induzione a modelli di consumo globali che risultino sempre più omologanti in termini di risposta alla domanda di produzione di beni e così tendenzialmente in grado di portare a sempre più massicce economie di scala.

Del tutto connesso al concetto di impresa multinazionale è quello di Investimento Diretto Estero (IDE), ossia l’investimento in un’impresa estera di cui l’investitore possiede almeno il 10% delle azioni ordinarie, con l’obiettivo di stabilire un “interesse duraturo” nel paese, una relazione a lungo termine e una significativa influenza nella gestione dell’impresa (definizioni fornite dal FMI, nel 1993, e da OCSE, nel 1996).

Ed è interessante evidenziare che:

  • ·         I flussi di investimento delle multinazionali sono inferiori ai flussi commerciali globali, ma secondo dati UNCTAD (2000) datati circa un terzo del commercio mondiale avviene all’interno delle strutture delle multinazionali, tra filiali in paesi diversi o tra filiali e casa madre, con ciò determinandosi un peso percentuale enorme su flussi produttivi e commerciali del tutto autoreferenti ed in grado di generare influenza e lobbysmo soprattutto nei paesi in via di sviluppo. Si tratta quindi di flussi che generano vere e proprie economie parallele.
  • ·         Gli IDE provengono prevalentemente dai paesi avanzati od emergenti (USA, Unione europea, BRIC, tigri asiatiche) con percentuali che arrivano al 90%, quindi sono un fenomeno del tutto referente a paesi già ricchi od in via di arricchimento.
  • ·         Negli anni ’90, la quasi totalità dei flussi in uscita degli IDE era da Paesi avanzati verso paesi avanzati, mentre nel 2010 la percentuale degli IDE è sostanzialmente divisa a metà da paesi avanzati verso paesi avanzati e da questi verso paesi in via di sviluppo, investimenti che, nel PIL inferiore dei paesi poveri, divengono percentualmente massicci, con un potenziale di condizionamento enorme delle economie di questi ultimi che arrivano a dipenderne del tutto in alcuni casi, fino a prefigurare forme di neo-colonialismo.
  • ·         Mentre nei paesi sviluppati l’investimento segue la strada della fusione o dell’acquisto in borsa di aziende esistenti, nei paesi in via di sviluppo le multinazionali creano impianti e imprese ex novo in loco (detti anche investimenti greenfield), poiché non esistono sul mercato locale aziende adatte. Si creano così processi capitalistici che impongono strutture avulse al territorio e nelle quali la partecipazione locale è destinata quasi sempre a ristrette cerchie di soggetti politici locali
  • ·        
    • ·         La maggior parte degli IDE sono concentrati in settori ad alta intensità di lavoro qualificato e di tecnologia: chimica, macchinari, mezzi di trasporto. Si tratta di settori con forti investimenti in ricerca e sviluppo, alta professionalità dei lavoratori e complessità tecnica dei beni prodotti, il che genera economie di scala a livello di impresa del tutto referenti e dipendenti da queste attività (un settore a parte è rappresentato dal cosiddetto land grabbing, ovvero l’accaparramento di terreni agricoli per la produzione di derrate alimentari da immettere a profitti maggiorati sui mercati dei paesi ricchi, per la produzione di bio-carburanti, per la produzione di prodotti di bio-ingegneria che impoveriscono enormemente le produzioni locali per l’auto-sostentamento nel paradosso che paesi in grado di provvedere alla propria auto-sufficienza alimentare sono oggi costretti all’importazione di derrate). Si creano così fenomeni di mono-produzioni totalizzanti innestate intorno all’attività delle multinazionali nell’evidenza di “esarcati produttivi”
  • ·         Le imprese multinazionali hanno generalmente performance migliori delle imprese nazionali, sia nel paese d’origine che in quello di destinazione, essendo mediamente più grandi, più produttive, più impegnate in ricerca e sviluppo, impiegano personale più qualificato e potendo così garantire la propria sopravvivenza ed il mantenimento di occupazione, influiscono sulle scelte politiche dirette di molti paesi e non necessariamente solo di quelli poveri, ma per settori anche nei paesi più ricchi, condizionandone le legislazioni.
  • ·         Negli ultimi anni è aumentata la frammentazione geografica della produzione in reti internazionali (specializzazione verticale) con le diverse fasi di produzione di un bene che vengono svolte in paesi differenti (delocalizzazione) e con la produzione di semilavorati che vengono poi immessi come tali nelle reti internazionali commerciali (IDE verticali). Obiettivo principale della frammentazione è la limitazione dei costi di produzione (cost-saving), attuando allocazioni specifiche del processo produttivo, piuttosto che produzioni integrate nel paese d’origine, favoriti dal diverso costo dei fattori produttivi (capitale, materie prime e lavoro) nei diversi paesi e dalla diversa intensità dei fattori nelle varie fasi produttive. La frammentazione del processo produttivo e la commercializzazione di prodotti semilavorati, snatura ogni forma di processo produttivo integrato, accentuando il know how aziendale delle multinazionali a detrimento della possibilità di sviluppo ed accesso alle tecnologie di aziende locali più piccole che così sono spesso ridotte al ruolo di assemblatori a cottimo.

La concorrenza fra le grandi imprese ed i margini di profitto sempre più ridotti hanno spinto le attività industriali e manifatturiere (ma non solo), a dislocare una crescente quota di attività in paesi dove la forza lavoro ha costi inferiori, dove vi siano vantaggi valutari e dove la pressione fiscale sia bassa ed in tal senso i paesi in via di sviluppo sono diventati terra di conquista per le multinazionali in quanto è possibile sfruttare (quasi sempre controllandole) legislazioni interne carenti o permissive per quanto concerne ad esempio l’inquinamento e le minori tutele produttive. 

Ed occorre ricordare che le multinazionali in genere sfruttano come l’autofinanziamento principi di controllo del credito ed operano in settori con finanziamento nazionale o internazionale, cioè erogati da enti ed istituti statali o internazionali quali, ad esempio, la Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo.

6.    il progressivo trasferimento di sovranità finanziaria e democratica dagli stati-nazione ad entità internazionali e sovranazionali con grado imperfetto di democrazia.

La globalizzazione sembra accompagnarsi al progressivo abbandono delle scelte dei governi nazionali verso board non democraticamente eletti o scelti, in una fenomenologia che appare condurre sempre più verso un governo privato dell’economia mondiale, ma non è un fenomeno nuovo.

L’elenco delle istituzioni finanziarie e politiche internazionali a cui progressivamente gli stati hanno trasferito sovranità finanziaria e democratica è ormai lungo ed alle istituzioni nate dagli accordi di Bretton Woods del 1944, Fondo Monetario Internazionale e Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo (meglio conosciuta come Banca mondiale), a cui si aggiunse in seguito il WTO (organizzazione mondiale del commercio) e il Fondo internazionale per lo sviluppo agricolo, tutte nate da un intento di regolare la massa finanziaria internazionale ed i rapporti di cambio tra le monete (non dimentichiamo che fu in questa sede che prese corpo l’ormai superato Gold Exchange Standard, basato su rapporti di cambio fissi tra le valute, tutte agganciate al dollaro, il quale a sua volta era agganciato all’oro, a differenza del sistema che lo precedette, il Gold Standard), sono seguiti nel corso degli anni molti altri istituti ed enti caratterizzati da scopi e funzioni diversi che realizzano, nel loro complesso, la cooperazione finanziaria internazionale. 

Sostanzialmente esiste un settore della cooperazione bancaria che comprende le banche regionali di sviluppo (Banca interamericana, Banca africana, Banca asiatica di sviluppo e Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo) che costituiscono, insieme con la Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo (detta anche Banca mondiale), i principali meccanismi multilaterali di aiuto pubblico allo sviluppo dei Paesi più poveri (Cooperazione allo sviluppo), attraverso la concessione di prestiti destinati a finanziare progetti di sviluppo a condizioni più o meno agevolate.

In particolare, il gruppo della Banca mondiale comprende la Società finanziaria internazionale (SFI), istituita nel 1955 allo scopo di favorire e sostenere gli investimenti del capitale privato nei Paesi in via di sviluppo senza garanzie da parte degli Stati interessati, e l’Associazione internazionale di sviluppo (IDA), creata nel 1960 per concedere prestiti (crediti) ai Paesi arretrati a condizioni più favorevoli di quelli della Banca.  

Il FMI eroga invece finanziamenti destinati a sopperire ad esigenze relative alle bilance dei pagamenti, aiutando i Membri che si trovano in difficoltà momentanea, attraverso prestiti diretti a stabilizzare la loro economia e a riequilibrare i conti con l’estero. Sia la Banca mondiale che il FMI sono istituti specializzati delle Nazioni Unite. L’IFAD, infine, è sorto nel 1976 con il fine di fornire risorse finanziarie, sotto forma di prestiti e doni, agli Stati membri con più alto deficit alimentare per accrescere la produzione agricola; nel 1977 è divenuto anch’esso un istituto specializzato dell’ONU.

Ed a questi istituti si sono aggiunti la Banca Centrale Europea che regola il settore finanziario dello spazio UE e la stessa UE che pur, rientrando nella sfera delle organizzazioni a carattere politico, mantiene ancora ampi margini di discrezionalità non democratica nelle proprie scelte economiche, tanto da essere spesso considerata una interfaccia politica dei principali assetti finanziari mondiali e continentali, senza contare la numerosa schiera delle organizzazioni politiche e dei trattati internazionali che delegano un cospicuo numero di materie regolamentari ad organismi di area. Va inoltre tenuto presente che, in un quadro caratterizzato da una crescente integrazione internazionale e dalla stabilizzazione dei tassi di cambio tra le monete di diversi paesi, l’adozione, a fronte di squilibri e tensioni interne, di provvedimenti di carattere sociale o anticiclico viene resa più difficile dalla riduzione dell’autonomia dei singoli governi nella gestione della politica economica.

Evidente appare la struttura causale di questo trasferimento di competenze e sovranità. Trattandosi di organi non elettivi se non attraverso le scelte dei singoli governi, le strategie messe in campo da queste istituzioni non hanno carattere democratico diretto, così da prefigurarsi una politica locale del tutto prona agli interessi di pochi grandi magnati e gruppi che influenzano direttamente, attraverso la scelta di direttivi compiacenti o collaterali ai propri interessi.

Ciò che si prefigura è così una sorta di sistema organizzato per signorie il cui carattere antidemocratico è palese nella continuazione di un sistema economico i cui frutti sono quasi del tutto nelle mani di poche famiglie di “nuova nobiltà economica a carattere principesco”.

 7. le politiche di taglio delle tasse ed i paradisi fiscali

mi sembra inutile dedicare molto spazio ad un fenomeno ormai ampiamente conosciuto e che se parte da lontano, dai tempi dell’era Reagan e delle teorie di Milton Friedmann, fenomeno che oggi ha condotto ad una sostanziale caduta dell’indice percentuale di tassazione reale che grava sulle grandi attività economico-finanziarie, in ciò spinta anche dall’esistenza tollerata di molti paradisi fiscali, la cui attrattività viene “mitigata” da una tendenza alla tassazione fiscale agevolata in molti paesi anche europei verso le grandi multinazionali, nell’assunto dogmatico che ciò conduca alla creazione o mantenimento di molti posti di lavoro. In realtà queste politiche di graziosa concessione inducono a vere e proprie regalie al sistema delle multinazionali, della grande finanza e dei grandi patrimoni privati che al meglio appare come una mina verso un vero e proprio sistema concorrenziale. La sottrazione di ingenti risorse alla fiscalità genera una sempre maggiore difficoltà da parte dei governi al mantenimento di efficienti sistemi di welfare in grado di mitigare le sempre maggiori forbici reddituali tra le classi lavoratrici.

Alla base della fase attuale di globalizzazione (spesso chiamata globalizzazione neo-liberista) ci sono così ragioni tecnologico/scientifiche (la rivoluzione informatica che ha ridotto enormemente il costo delle comunicazioni e dei trasporti), ragioni politiche (il crollo  dei paesi socialisti avvenuto a partire dal 1989 che ha ridotto il mondo da “bipolare” a “unipolare” con l’affermazione di modelli unici di gestione e pensiero), ragioni economico-culturali (la crescente fiducia nel mercato come istituzione in grado di risolvere il problema della produzione e distribuzione dei beni, e che abbiamo visto essere un assunto dogmatico creato dagli enormi interessi economici che stanno dietro a questa visione).

E volendo citare Bauman, le multiformi trasformazioni racchiuse nella frase “compressione del tempo e dello spazio”, evidenziano come i processi di globalizzazione non presentino l’unicità di effetti positivi loro attribuita dai sostenitori di questi mutamenti. La globalizzazione certo divide quanto unisce ed in parallelo al processo di una scala planetaria per l’economia, la finanza, il commercio e l’informazione, si è messo in moto un altro processo, che impone dei vincoli spaziali, definito “localizzazione” che interconnessa alla prima “differenzia in maniera drastica le condizioni in cui vivono intere popolazioni e vari segmenti all’interno delle singole popolazioni, palesando ciò che appare come una conquista della globalizzazione per alcuni, una riduzione alla dimensione locale per altri, dove per alcuni la globalizzazione segnala nuove libertà, per molti altri discende come un destino non voluto e crudele”.

continua…

miko somma

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